Sradicare ogni forma di povertà. Obiettivo lontano


Il primo degli obiettivi per uno sviluppo sostenibile della cosiddetta Agenda 2030 (lanciata nel 2015) consiste nello “sradicare la povertà in tutte le sue forme e ovunque nel mondo”. Siamo a fine 2024 e la povertà è ben lontana dall’essere sradicata. Anche nel ricco Alto Adige “la povertà è un grave problema sociale”.

In Alto Adige nel luglio 2021 La Giunta ha approvato ufficialmente la Strategia di sostenibilità “Everyday for Future”. “La povertà e l’emarginazione sociale”, dice il documento, “esistono anche in regioni ricche come l’Alto Adige. La lotta a questa povertà e una cultura economica e del consumo che non favorisca, bensì riduca la povertà in altri paesi, sono parte integrante di un comportamento sostenibile”.

Domenica 17 novembre sarà la “Giornata mondiale dei poveri”. Esattamente un mese prima si è celebrata la “Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà”. Per l’occasione era stato redatto e sottoscritto un “manifesto interistituzionale” con cui “le associazioni altoatesine dei settori del lavoro, dell’istruzione, della cultura, dell’economia, del sociale e dell’ambiente si assumono la responsabilità comune di sconfiggere la povertà”.

Anche in provincia di Bolzano, si scrive, “la povertà è un grave problema sociale”, perché “mette a rischio il futuro delle persone colpite e la coesione so­ciale. Prevenire e combattere le povertà è un compito trasversale perché le povertà hanno molte cause ed effetti”.

Il Manifesto si articola in cinque punti: porre fine alla povertà ovunque e in tutte le sue forme; consolidare i valori nella società, come la libertà e la dignità delle persone; rafforzare le relazioni interpersonali; garantire pari opportunità per tutti, indipendentemente dall’origine, dall’età, dalla religione, dalla visione del mondo, dalle condizioni men­tali o fisiche; soddisfare i bisogni primari tra i quali la sicurezza, il cibo, l’abbigliamento, le relazioni sociali, la salute, la formazione e un ambiente integro.

Tutte le organizzazioni firmatarie del Manifesto sono d’accordo di partire dando vita a una rete di contrasto permanente alla povertà.

Autore: Paolo Bill Valente

I giorni della speranza. E il traguardo che riguarda tutti

Sono i giorni in cui si ricordano le persone che se ne sono andate. Le giornate si fanno brevi e ci si riscopre tutti “come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma non è ancora giunto l’inverno e la stagione offre, pur nella malinconia, meravigliosi colori e profumi che parlano di speranza. Di vita malgrado la morte.

Fin dai tempi più antichi l’essere umano, di fronte all’esperienza della morte, si è posto la domanda sul senso della vita. Tutte le culture hanno elaborato risposte, accomunate dalla persuasione che ogni vita non svanisce nel nulla quando arriva al capolinea, ma ha un prima e ha un dopo.

I nostri progenitori svilupparono il culto degli antenati, fondato sull’idea che chi ha vissuto pienamente la propria vita, chi ci ha generato fisicamente o spiritualmente, sta continuando il suo percorso altrove e non si è dimenticato di noi. Una pratica ancora oggi presente in diverse religioni tradizionali, ad esempio dell’Africa.

È innata nell’essere umano l’idea della continuità della vita, ovvero la fiducia nel fatto che le cose importanti non smettono di esserci. Così come la convinzione che, in ultima analisi, siamo chiamati solo a essere felici.

Quando, sulla via cristiana, si incontra l’espressione “vita eterna”, è proprio della felicità che si parla.

Nella sua bolla per il Giubileo della speranza, che si aprirà a Natale, papa Francesco se lo chiede: “Cosa sarà dunque di noi dopo la morte?” Se è vero che “al di là di questa soglia c’è la vita eterna”, la pienezza di vita in altro non consiste se non nell’“essere felici”. Perché “la felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti”.

“Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto»”.

Autore: Paolo Bill Valente

Brennero. Buoni spunti e svarioni. Nevrosi da confine

Messaggio importante per i non altoatesini: in Alto Adige non è obbligatorio parlare in italiano nei locali della Procura o di altri uffici e non è vietato usare la propria lingua in presenza di pubblici ufficiali (semmai è vero il contrario). E non c’è niente di più pubblico e di più ufficiale della doppia lingua.

Non essendo frequentatore assiduo di serie televisive evito di avventurarmi in una critica strutturata degli otto episodi di “Brennero” trasmessi sui canali RAI tra settembre e ottobre 2024. Mi occupo però di storia e di storie e, come spettatore, trovo qui qualche buono spunto di riflessione. Da altoatesino “in missione” a Roma sono inoltre chiamato spesso a rettificare informazioni non corrette.

Come altri conterranei mi sono divertito a cogliere in fallo i sceneggiatori rispetto alla verosimiglianza delle situazioni narrate e a indovinare man mano quali fossero i luoghi proposti nelle immagini. Va detto a questo proposito che gli autori hanno rinunciato a proporre un Alto Adige da cartolina (bravi!), fatti salvi gli immancabili scorci di castelli e campanili. Per una volta non vediamo il Sudtirolo dai colori forti e dai fiori ai balconi, quelli degli intrecci tra la storia – quella grande e quella piccina – e le relazioni umane. Le tinte smorte che caratterizzano tutta la serie descrivono bene quel quid di insano, di malato, che si respira in una terra affetta da quella nevrosi da confine, che ogni tanto si materializza nel “mostro”, come avvenuto a Merano nel 1996.

“Brennero è la storia di due solitudini che si incontrano” (Giuseppe Bonito).

Il racconto è avvincente, gli sviluppi a volte scontati, altre no. Si usa del contesto storico e geografico senza farne la caricatura. Alcune forzature e ingenuità le coglie solo il residente. Come il fatto che la procuratrice Kofler parla sempre in italiano col marito, il prefetto Müller, entrambi di lingua tedesca (al di là del fatto che a Bolzano il Prefetto si chiama Commissario del Governo e difficilmente porterà il nome Müller, come del resto il Presidente della Provincia sarà di rado un Rossi – tutt’al più un Magnago – ma questa è anche una bella domanda da farsi).

Diamo pure a tutto la sufficienza (in particolare per il fatto che alla fine non si capisce bene, come è giusto che sia, che cosa è il Sudtirolo) tranne però a queste due scene, che rafforzano un pregiudizio e confondono le norme con la loro attuazione. Prima scena: la procuratrice Kofler all’ispettrice Pichler negli uffici della Procura: “Scusi può passare all’italiano per favore? È una regola che vale per tutti”. Seconda scena: l’ispettore Costa a casa del signor Berger: “La invito comunque a rivolgersi a due pubblici ufficiali in lingua italiana”.

Qui il voto è insufficiente. Perché? Come in ogni buon giallo, non diamo la soluzione ma solo qualche indizio. La risposta si trova agli articoli 99 e 100 dello Statuto di autonomia del Trentino Alto Adige (che è Legge costituzionale e si trova facilmente in rete).

Autore: Paolo Bill Valente

Josef Mayr-Nusser. Coscienze che sanno a chi dire di no

Ottant’anni fa, nell’aula cupa della caserma di Konitz, dove si stava concludendo il periodo di addestramento, il bolzanino Josef Mayr-Nusser, arruolato suo malgrado nelle SS, chiese la parola e, sotto lo sguardo atterrito dei compagni, disse che lui il giuramento di fedeltà a Adolf Hitler non lo avrebbe pronunciato.

Era consapevole, il giovane padre di famiglia, che avrebbe pagato caro quel “no”. Lo sapeva bene anche la moglie Hildegard, con la quale Josef aveva condiviso le motivazioni di una scelta che i più non avrebbero compreso o, meglio, avrebbero fatto finta di non capire. Nel nome di quella ideologia “etnica” che Mayr-Nusser, da dirigente dell’Azione cattolica, aveva stigmatizzato già nel luglio del 1938, l’anno delle leggi razziali. “Il singolo ha valore esclusivamente in quanto membro del corpo etnico”.

Josef Mayr-Nusser obiettore di coscienza. Di più: testimone della coscienza. È bene sottolineare che il suo “no” non fu contro l’uso della forza né contro gli eserciti in sé. La teoria e le pratiche della nonviolenza moderna stavano facendo allora i primi passi, lontano dall’Europa. Josef pronunciò quel “no” contro le ideologie di morte al servizio delle quali si pretendeva che uomini come lui prestassero giuramento promettendo “obbedienza fino alla morte”. Niente di più attuale.

Josef Mayr-Nusser, assieme ai giovani dell’Azione cattolica, aveva formato la sua coscienza al discernimento. A distinguere le idee e le scelte che conducono al bene comune da quelle che hanno come unico scopo il raggiungimento e il mantenimento del potere, come le farneticazioni che Adolf Hitler, ormai da vent’anni, aveva affidato alle pagine del Mein Kampf.

Anche oggi è quanto mai necessario sviluppare coscienze capaci di distinguere, attraverso le nebbie della propaganda, quegli elementi ideologici che vogliono tenere accesi i focolai di guerra, che inducono gli esseri umani alla violenza e alla sopraffazione, che negano la libertà, la dignità umana, l’uguaglianza e la vita.

Autore: Paolo Bill Valente

L’articolo 19, il mondo che non c’è e la lingua che rende liberi


Il sistema scolastico di un Paese democratico è specchio della realtà, espressione di storia, cultura e tradizione. D’altro lato è il luogo dove si seminano parole, valori e visioni che domani – ma in parte già oggi – producono i cambiamenti necessari in una società dinamica, attenta ai bisogni e ai sogni delle persone.

Da quando, alla fine del ‘700, nel Tirolo fu introdotto l’obbligo scolastico, nei territori dell’Austria multietnica si pose il tema della lingua d’insegnamento. Soprattutto nelle zone di confine sorsero conflitti che portarono, nel secolo successivo, allo sviluppo dei nazionalismi. Il fascismo agì, come sappiamo, nell’alveo di quel paradigma politico-culturale. Solo per dire che scuola e nazionalismi/etnocentrismi hanno qualche conto in sospeso.

L’accordo di Parigi del 1946 (art. 1) prevede per i “cittadini di lingua tedesca”, “l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua materna”. La Costituzione repubblicana dichiara (art. 6) di voler tutelare “con apposite norme le minoranze linguistiche”. Lo Statuto di autonomia recita all’art. 19: “Nella provincia di Bolzano l’insegnamento nelle scuole materne, elementari e secondarie è impartito nella lingua materna italiana o tedesca degli alunni da docenti per i quali tale lingua sia ugualmente quella materna”. L’articolo 19 è molto chiaro, ma parla di un mondo che non c’è. Già nel 1972 si dava il caso di alunni figli di famiglie miste. Oggi sono molti di più. Nel 2024 (e da decenni) le nostre scuole sono frequentate da bambini, bambine e giovani la cui lingua materna non è il tedesco né l’italiano (prescindiamo qui dalla questione ladina). L’articolo 19 nella sua formulazione non è dunque applicabile se non mettendo alla porta gli alunni di altra madrelingua. Il che, purtroppo, non è “fantascuola”.

Come mai dopo decenni, con tutta l’esperienza disponibile, l’Alto Adige non ha ancora sviluppato un sistema capace di rafforzare i ragazzi nella propria lingua e di dare loro una conoscenza effettiva della seconda lingua? È come se una certa politica avesse paura di un bilinguismo effettivo, perché la lingua rende liberi e abilita alla partecipazione. “È solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui” (don Lorenzo Milani).

L’Alto Adige (con l’Eurac, l’Università e altre istituzioni) ha tutti i numeri e dunque il dovere di elaborare sistemi e metodi che diano ai futuri cittadini un plurilinguismo effettivo da spendere in provincia, in Europa e nel mondo. A tutti, senza anacronistiche riserve e pericolose discriminazioni.

Autore: Paolo Bill Valente

Autonomia, convivenza, buona amministrazione

Mentre a livello nazionale si discute animatamente di autonomia – in particolare di autonomia differenziata – in Alto Adige si celebra, come ogni anno, nell’anniversario della firma dell’accordo Gruber-Degasperi, la giornata dell’Autonomia. Non è solo un fare memoria, ma una risorsa da sviluppare per il bene comune.

Il 5 settembre del 1946 a Parigi Alcide Degasperi – di cui ricorrono i 70 anni dalla scomparsa – e Karl Gruber sottoscrivevano un patto che oggi si considera la base dell’autonomia regionale. È anche un esempio di approccio pacifico, diplomatico a un conflitto tra Stati e uno dei mattoni su cui si è via via costruito l’edificio dell’Unione Europea.
Oggi le autonomie, correttamente intese, possono dare risposte interessanti in due direzioni. La prima è quella della convivenza tra diverse culture, lingue, tradizioni su uno stesso territorio. Le varie guerre in corso ci dicono quanto sia importante, necessario, individuare le forme del vivere e governare insieme nel rispetto delle diverse storie e aspirazioni. Ogni territorio ha da trovare la propria strada specifica, ma sapere che altrove la cosa sta dando anche buoni frutti, aiuta.
La seconda dimensione è quella della buona amministrazione. Se non fosse connotata ideologicamente e propagata con intenti populistici, l’autonomia “differenziata” (ma l’aggettivo dice una cosa ovvia, ogni autonomia è tale se può differenziare le proprie strategie e normative) potrebbe aiutare il Paese a evolversi nel senso di una maggiore responsabilità dei cittadini e degli enti locali nell’ottica del bene comune.
“Io che sono pure autonomista convinto”, disse Degasperi il 29 gennaio 1948, quando si discuteva all’Assemblea costituente dello Statuto per il Trentino Alto Adige, “e che ho patrocinato la ten­denza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato sta­tale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per non spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno, ovunque, perché se un’autono­mia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente per qual­che tempo e non durerà per un lungo pe­riodo”.

Redattore: Paolo Bill Valente

Gli altoatesinosudtirolesisi sentono italiani o tedeschi?


Almeno una volta nella vita – ma di solito molto di più – ogni altoatesinosudtirolese ha dovuto rispondere all’interrogativo: ma tu, ti senti più italiano o più tedesco? Una domanda che fa il paio con lo stupore di chi apprende che in Alto Adige vivono persone per le quali l’italiano non è la lingua materna.

C’è chi solleva tali questioni in malafede, come lo fanno gli stolti con ogni cosa di valore che possa essere insozzata (la famose perle da non dare “ai porci”). Ma tanti lo chiedono in buona fede e non sempre, l’altoatesinosudtirolese, ha riflettuto a sufficienza per poter dare una risposta sensata, corretta, storicamente e giuridicamente fondata. Ma cosa denotano queste domande (e certe risposte)?

Un primo aspetto è l’incapacità di distinguere tra il piano giuridico e quello culturale. Non è colpa del singolo, ma di quelle classi dirigenti che hanno inventato l’idea di “nazione” come elemento attorno al quale coagulare sentimenti, emozioni, rivendicazioni. Uno strumento ideologico che ha causato guerre terrificanti? Pazienza.

Se lo Stato (che è una realtà giuridica) coincide con la “nazione” (che è un concetto ideologico, il quale presuppone, tra l’altro, una lingua comune) allora tutto ciò che non appartiene alla “nazione”, non è nemmeno dello Stato. Le persone “altre” vanno espulse oppure assimilate. È avvenuto in passato e avviene nel presente.

Un secondo aspetto è la scarsa conoscenza della storia. Va detto che i cittadini non sono tenuti a conoscere a menadito la storia di ogni angolo del Paese. Nemmeno gli altoatesinosudtirolesi conoscono la loro quanto dovrebbero. Ma allora due cose: informiamoci meglio e finché non l’abbiamo fatto (attenzione, costa fatica) evitiamo di pronunciare giudizi.

La classe dirigente e la classe politica ci danno una mano? Ovvero sanno usare le parole in modo adeguato e raccontare la storia con cognizione di causa? Purtroppo, no. Prevalgono l’ignoranza e la strumentalizzazione.

Ma non è stato sempre così. I Padri costituenti, ad esempio, introdussero nella Costituzione, all’articolo 6, un principio fondamentale: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Con questo ci danno due messaggi. Il primo: le minoranze linguistiche sono parte integrante della Repubblica (che, a differenza della “nazione”, esiste davvero). Anzi, sono un patrimonio da tutelare (per il bene di tutti). Il secondo: prevedendo che col tempo ignoranza e malafede avrebbero prevalso, hanno messo al sicuro questo principio, dando alla questione una tutela di rango costituzionale (cioè, a prova di propaganda e di populismo).

Ma ci sentiamo italiani o tedeschi (e i ladini, e gli “altri”?)? Verrà il giorno (forse) in cui sorrideremo di questa domanda.

Autore: Paolo Bill Valente

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Don Flavio. La partecipazione “al cuore della democrazia”

Don Flavio Debertol si è spento mentre a Trieste si teneva la 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia. Avrebbe voluto essere lì anche lui, come aveva sempre fatto. Per dare il suo contributo, ma soprattutto per ascoltare. Per partecipare. Proprio la partecipazione, a Trieste, diventa il “cuore della democrazia”.

“Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare”, ha detto il presidente Sergio Mattarella nell’introdurre la Settimana sociale. Per “affrontare il disagio, il deficit democratico” è necessario ripartire ogni volta “dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole. Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia”.

“Uno Stato non è veramente democratico”, gli ha fatto eco papa Francesco nel discorso conclusivo, “se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”. 

Don Flavio Debertol si è spento a Bolzano mentre a Trieste risuonavano queste parole. Oltre a decenni di collaborazione in parrocchia, aveva promosso davvero lo sviluppo delle “formazioni sociali”, mettendo in particolare il lavoro al centro della propria azione. Egli stesso aveva scelto di esercitare, da prete, un lavoro “laico” (nel settore sanitario), si era impegnato nel sindacato, era assistente di ACLI e UCID ed era stato responsabile diocesano per la Pastorale Sociale e il Lavoro. Cappellano o assistente anche degli scout dell’AGESCI, della Polizia di Stato, del MASCI, dei Maestri del Lavoro e delle FS per l’Alto Adige.

“Quello che ho sempre cercato di fare”, disse don Flavio, “è stare insieme alla gente per testimoniare il dono della fede, pur con i miei difetti e presunzioni”. Convinto che l’amore (di cui Dio è la fonte) “sia una risorsa straordinaria per dare senso e pace alla vita di ogni persona, in qualsiasi luogo e situazione esistenziale essa si trovi”, “sento in me una grande spinta per promuovere la pace, la giustizia, la solidarietà nel mondo e per questi valori cerco, nel mio piccolo e per quanto riesco, di impegnarmi a livello locale e non solo”. Una vita spesa, come per molti dei delegati di Trieste, per rendere la chiesa “più evangelica e in ascolto delle sfide attuali”. O, come direbbe da capo scout, “un po’ migliore di come l’abbiamo trovata”. Buona strada don Flavio.

Autore: Paolo Bill Valente

Numeri e volti di una società diseguale

Dietro i numeri ci sono volti. Le vite. Sogni e speranze. Va ricordato ogni volta, quando si presenta un report statistico che descriva la popolazione. La tragedia accaduta all’Aluminium di Bolzano parla più di mille statistiche. Ci ricorda come si compone la nostra comunità, chi sono i concittadini, dove e come lavorano.

Diallo, Aboubacar, Mor, Sokol, Artan e Oussama. Nomi, non numeri. Persone, famiglie, vite, non elementi statistici.

Ma ora le statistiche. In Italia i cittadini stranieri residenti alla fine del 2023 erano 5 milioni e 308mila unità, quasi il 9 per cento della popolazione totale. Maggiormente presenti al Nord e al Centro, ovvero nelle regioni con un tasso più alto di benessere. Al quale benessere contribuiscono direttamente, senza però esserne i primi beneficiari. Oltre un terzo delle famiglie straniere in Italia, secondo l’Istat, vive in situazione di povertà assoluta (il dato medio, già di per sé alot, è invece di quasi il 10 per cento).

Anche l’economia dell’Alto Adige, da molti decenni, dipende dalla presenza di cittadini stranieri. Alla fine del 2022, secondo i dati ASTAT, in provincia di Bolzano si contavano persone di 147 diverse nazionalità. Si tratta di circa 52.650 donne e uomini, quasi un decimo degli abitanti. E ci sono anche coloro che nel frattempo sono potuti diventare cittadini italiani a pieno titolo, quasi 25.000 persone negli ultimi vent’anni.

Tornando ai 52.650, quasi un terzo di essi ha la cittadinanza di uno dei Paesi dell’Unione Europea. Il gruppo maggioritario proviene dall’Albania con 6.557 persone. Seguono la Germania (4.525), il Pakistan (3.756), la Romania (3.576), il Marocco (3.366) e il Kosovo (2.465). Insieme alla Slovacchia, queste comunità rappresentano la metà di tutti gli abitanti di nazionalità straniera. Esse arricchiscono la diversità culturale altoatesina, che da tempo non si limita ai tre tradizionali gruppi linguistici e alle loro articolazioni. Anche sul piano della tradizione religiosa, secondo alcune stime risulta che circa il 40 per cento della popolazione straniera residente sia di fede islamica e che più o meno il 6 per cento professi una religione orientale.

Si può facilmente capire che la situazione delle persone provenienti dall’Unione Europea, soprattutto da alcune regioni, sia ben diversa da quella di chi ha origine nei Paesi a basso reddito. Le vittime dell’esplosione all’Aluminium sono concittadini di origine senegalese, tunisina, albanese.

Autore: Paolo Bill Valente