Josef Mayr-Nusser. Coscienze che sanno a chi dire di no

Ottant’anni fa, nell’aula cupa della caserma di Konitz, dove si stava concludendo il periodo di addestramento, il bolzanino Josef Mayr-Nusser, arruolato suo malgrado nelle SS, chiese la parola e, sotto lo sguardo atterrito dei compagni, disse che lui il giuramento di fedeltà a Adolf Hitler non lo avrebbe pronunciato.

Era consapevole, il giovane padre di famiglia, che avrebbe pagato caro quel “no”. Lo sapeva bene anche la moglie Hildegard, con la quale Josef aveva condiviso le motivazioni di una scelta che i più non avrebbero compreso o, meglio, avrebbero fatto finta di non capire. Nel nome di quella ideologia “etnica” che Mayr-Nusser, da dirigente dell’Azione cattolica, aveva stigmatizzato già nel luglio del 1938, l’anno delle leggi razziali. “Il singolo ha valore esclusivamente in quanto membro del corpo etnico”.

Josef Mayr-Nusser obiettore di coscienza. Di più: testimone della coscienza. È bene sottolineare che il suo “no” non fu contro l’uso della forza né contro gli eserciti in sé. La teoria e le pratiche della nonviolenza moderna stavano facendo allora i primi passi, lontano dall’Europa. Josef pronunciò quel “no” contro le ideologie di morte al servizio delle quali si pretendeva che uomini come lui prestassero giuramento promettendo “obbedienza fino alla morte”. Niente di più attuale.

Josef Mayr-Nusser, assieme ai giovani dell’Azione cattolica, aveva formato la sua coscienza al discernimento. A distinguere le idee e le scelte che conducono al bene comune da quelle che hanno come unico scopo il raggiungimento e il mantenimento del potere, come le farneticazioni che Adolf Hitler, ormai da vent’anni, aveva affidato alle pagine del Mein Kampf.

Anche oggi è quanto mai necessario sviluppare coscienze capaci di distinguere, attraverso le nebbie della propaganda, quegli elementi ideologici che vogliono tenere accesi i focolai di guerra, che inducono gli esseri umani alla violenza e alla sopraffazione, che negano la libertà, la dignità umana, l’uguaglianza e la vita.

Autore: Paolo Bill Valente

L’articolo 19, il mondo che non c’è e la lingua che rende liberi


Il sistema scolastico di un Paese democratico è specchio della realtà, espressione di storia, cultura e tradizione. D’altro lato è il luogo dove si seminano parole, valori e visioni che domani – ma in parte già oggi – producono i cambiamenti necessari in una società dinamica, attenta ai bisogni e ai sogni delle persone.

Da quando, alla fine del ‘700, nel Tirolo fu introdotto l’obbligo scolastico, nei territori dell’Austria multietnica si pose il tema della lingua d’insegnamento. Soprattutto nelle zone di confine sorsero conflitti che portarono, nel secolo successivo, allo sviluppo dei nazionalismi. Il fascismo agì, come sappiamo, nell’alveo di quel paradigma politico-culturale. Solo per dire che scuola e nazionalismi/etnocentrismi hanno qualche conto in sospeso.

L’accordo di Parigi del 1946 (art. 1) prevede per i “cittadini di lingua tedesca”, “l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua materna”. La Costituzione repubblicana dichiara (art. 6) di voler tutelare “con apposite norme le minoranze linguistiche”. Lo Statuto di autonomia recita all’art. 19: “Nella provincia di Bolzano l’insegnamento nelle scuole materne, elementari e secondarie è impartito nella lingua materna italiana o tedesca degli alunni da docenti per i quali tale lingua sia ugualmente quella materna”. L’articolo 19 è molto chiaro, ma parla di un mondo che non c’è. Già nel 1972 si dava il caso di alunni figli di famiglie miste. Oggi sono molti di più. Nel 2024 (e da decenni) le nostre scuole sono frequentate da bambini, bambine e giovani la cui lingua materna non è il tedesco né l’italiano (prescindiamo qui dalla questione ladina). L’articolo 19 nella sua formulazione non è dunque applicabile se non mettendo alla porta gli alunni di altra madrelingua. Il che, purtroppo, non è “fantascuola”.

Come mai dopo decenni, con tutta l’esperienza disponibile, l’Alto Adige non ha ancora sviluppato un sistema capace di rafforzare i ragazzi nella propria lingua e di dare loro una conoscenza effettiva della seconda lingua? È come se una certa politica avesse paura di un bilinguismo effettivo, perché la lingua rende liberi e abilita alla partecipazione. “È solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui” (don Lorenzo Milani).

L’Alto Adige (con l’Eurac, l’Università e altre istituzioni) ha tutti i numeri e dunque il dovere di elaborare sistemi e metodi che diano ai futuri cittadini un plurilinguismo effettivo da spendere in provincia, in Europa e nel mondo. A tutti, senza anacronistiche riserve e pericolose discriminazioni.

Autore: Paolo Bill Valente

Autonomia, convivenza, buona amministrazione

Mentre a livello nazionale si discute animatamente di autonomia – in particolare di autonomia differenziata – in Alto Adige si celebra, come ogni anno, nell’anniversario della firma dell’accordo Gruber-Degasperi, la giornata dell’Autonomia. Non è solo un fare memoria, ma una risorsa da sviluppare per il bene comune.

Il 5 settembre del 1946 a Parigi Alcide Degasperi – di cui ricorrono i 70 anni dalla scomparsa – e Karl Gruber sottoscrivevano un patto che oggi si considera la base dell’autonomia regionale. È anche un esempio di approccio pacifico, diplomatico a un conflitto tra Stati e uno dei mattoni su cui si è via via costruito l’edificio dell’Unione Europea.
Oggi le autonomie, correttamente intese, possono dare risposte interessanti in due direzioni. La prima è quella della convivenza tra diverse culture, lingue, tradizioni su uno stesso territorio. Le varie guerre in corso ci dicono quanto sia importante, necessario, individuare le forme del vivere e governare insieme nel rispetto delle diverse storie e aspirazioni. Ogni territorio ha da trovare la propria strada specifica, ma sapere che altrove la cosa sta dando anche buoni frutti, aiuta.
La seconda dimensione è quella della buona amministrazione. Se non fosse connotata ideologicamente e propagata con intenti populistici, l’autonomia “differenziata” (ma l’aggettivo dice una cosa ovvia, ogni autonomia è tale se può differenziare le proprie strategie e normative) potrebbe aiutare il Paese a evolversi nel senso di una maggiore responsabilità dei cittadini e degli enti locali nell’ottica del bene comune.
“Io che sono pure autonomista convinto”, disse Degasperi il 29 gennaio 1948, quando si discuteva all’Assemblea costituente dello Statuto per il Trentino Alto Adige, “e che ho patrocinato la ten­denza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato sta­tale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per non spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno, ovunque, perché se un’autono­mia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente per qual­che tempo e non durerà per un lungo pe­riodo”.

Redattore: Paolo Bill Valente

Gli altoatesinosudtirolesisi sentono italiani o tedeschi?


Almeno una volta nella vita – ma di solito molto di più – ogni altoatesinosudtirolese ha dovuto rispondere all’interrogativo: ma tu, ti senti più italiano o più tedesco? Una domanda che fa il paio con lo stupore di chi apprende che in Alto Adige vivono persone per le quali l’italiano non è la lingua materna.

C’è chi solleva tali questioni in malafede, come lo fanno gli stolti con ogni cosa di valore che possa essere insozzata (la famose perle da non dare “ai porci”). Ma tanti lo chiedono in buona fede e non sempre, l’altoatesinosudtirolese, ha riflettuto a sufficienza per poter dare una risposta sensata, corretta, storicamente e giuridicamente fondata. Ma cosa denotano queste domande (e certe risposte)?

Un primo aspetto è l’incapacità di distinguere tra il piano giuridico e quello culturale. Non è colpa del singolo, ma di quelle classi dirigenti che hanno inventato l’idea di “nazione” come elemento attorno al quale coagulare sentimenti, emozioni, rivendicazioni. Uno strumento ideologico che ha causato guerre terrificanti? Pazienza.

Se lo Stato (che è una realtà giuridica) coincide con la “nazione” (che è un concetto ideologico, il quale presuppone, tra l’altro, una lingua comune) allora tutto ciò che non appartiene alla “nazione”, non è nemmeno dello Stato. Le persone “altre” vanno espulse oppure assimilate. È avvenuto in passato e avviene nel presente.

Un secondo aspetto è la scarsa conoscenza della storia. Va detto che i cittadini non sono tenuti a conoscere a menadito la storia di ogni angolo del Paese. Nemmeno gli altoatesinosudtirolesi conoscono la loro quanto dovrebbero. Ma allora due cose: informiamoci meglio e finché non l’abbiamo fatto (attenzione, costa fatica) evitiamo di pronunciare giudizi.

La classe dirigente e la classe politica ci danno una mano? Ovvero sanno usare le parole in modo adeguato e raccontare la storia con cognizione di causa? Purtroppo, no. Prevalgono l’ignoranza e la strumentalizzazione.

Ma non è stato sempre così. I Padri costituenti, ad esempio, introdussero nella Costituzione, all’articolo 6, un principio fondamentale: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Con questo ci danno due messaggi. Il primo: le minoranze linguistiche sono parte integrante della Repubblica (che, a differenza della “nazione”, esiste davvero). Anzi, sono un patrimonio da tutelare (per il bene di tutti). Il secondo: prevedendo che col tempo ignoranza e malafede avrebbero prevalso, hanno messo al sicuro questo principio, dando alla questione una tutela di rango costituzionale (cioè, a prova di propaganda e di populismo).

Ma ci sentiamo italiani o tedeschi (e i ladini, e gli “altri”?)? Verrà il giorno (forse) in cui sorrideremo di questa domanda.

Autore: Paolo Bill Valente

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Don Flavio. La partecipazione “al cuore della democrazia”

Don Flavio Debertol si è spento mentre a Trieste si teneva la 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia. Avrebbe voluto essere lì anche lui, come aveva sempre fatto. Per dare il suo contributo, ma soprattutto per ascoltare. Per partecipare. Proprio la partecipazione, a Trieste, diventa il “cuore della democrazia”.

“Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare”, ha detto il presidente Sergio Mattarella nell’introdurre la Settimana sociale. Per “affrontare il disagio, il deficit democratico” è necessario ripartire ogni volta “dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole. Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia”.

“Uno Stato non è veramente democratico”, gli ha fatto eco papa Francesco nel discorso conclusivo, “se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”. 

Don Flavio Debertol si è spento a Bolzano mentre a Trieste risuonavano queste parole. Oltre a decenni di collaborazione in parrocchia, aveva promosso davvero lo sviluppo delle “formazioni sociali”, mettendo in particolare il lavoro al centro della propria azione. Egli stesso aveva scelto di esercitare, da prete, un lavoro “laico” (nel settore sanitario), si era impegnato nel sindacato, era assistente di ACLI e UCID ed era stato responsabile diocesano per la Pastorale Sociale e il Lavoro. Cappellano o assistente anche degli scout dell’AGESCI, della Polizia di Stato, del MASCI, dei Maestri del Lavoro e delle FS per l’Alto Adige.

“Quello che ho sempre cercato di fare”, disse don Flavio, “è stare insieme alla gente per testimoniare il dono della fede, pur con i miei difetti e presunzioni”. Convinto che l’amore (di cui Dio è la fonte) “sia una risorsa straordinaria per dare senso e pace alla vita di ogni persona, in qualsiasi luogo e situazione esistenziale essa si trovi”, “sento in me una grande spinta per promuovere la pace, la giustizia, la solidarietà nel mondo e per questi valori cerco, nel mio piccolo e per quanto riesco, di impegnarmi a livello locale e non solo”. Una vita spesa, come per molti dei delegati di Trieste, per rendere la chiesa “più evangelica e in ascolto delle sfide attuali”. O, come direbbe da capo scout, “un po’ migliore di come l’abbiamo trovata”. Buona strada don Flavio.

Autore: Paolo Bill Valente

Numeri e volti di una società diseguale

Dietro i numeri ci sono volti. Le vite. Sogni e speranze. Va ricordato ogni volta, quando si presenta un report statistico che descriva la popolazione. La tragedia accaduta all’Aluminium di Bolzano parla più di mille statistiche. Ci ricorda come si compone la nostra comunità, chi sono i concittadini, dove e come lavorano.

Diallo, Aboubacar, Mor, Sokol, Artan e Oussama. Nomi, non numeri. Persone, famiglie, vite, non elementi statistici.

Ma ora le statistiche. In Italia i cittadini stranieri residenti alla fine del 2023 erano 5 milioni e 308mila unità, quasi il 9 per cento della popolazione totale. Maggiormente presenti al Nord e al Centro, ovvero nelle regioni con un tasso più alto di benessere. Al quale benessere contribuiscono direttamente, senza però esserne i primi beneficiari. Oltre un terzo delle famiglie straniere in Italia, secondo l’Istat, vive in situazione di povertà assoluta (il dato medio, già di per sé alot, è invece di quasi il 10 per cento).

Anche l’economia dell’Alto Adige, da molti decenni, dipende dalla presenza di cittadini stranieri. Alla fine del 2022, secondo i dati ASTAT, in provincia di Bolzano si contavano persone di 147 diverse nazionalità. Si tratta di circa 52.650 donne e uomini, quasi un decimo degli abitanti. E ci sono anche coloro che nel frattempo sono potuti diventare cittadini italiani a pieno titolo, quasi 25.000 persone negli ultimi vent’anni.

Tornando ai 52.650, quasi un terzo di essi ha la cittadinanza di uno dei Paesi dell’Unione Europea. Il gruppo maggioritario proviene dall’Albania con 6.557 persone. Seguono la Germania (4.525), il Pakistan (3.756), la Romania (3.576), il Marocco (3.366) e il Kosovo (2.465). Insieme alla Slovacchia, queste comunità rappresentano la metà di tutti gli abitanti di nazionalità straniera. Esse arricchiscono la diversità culturale altoatesina, che da tempo non si limita ai tre tradizionali gruppi linguistici e alle loro articolazioni. Anche sul piano della tradizione religiosa, secondo alcune stime risulta che circa il 40 per cento della popolazione straniera residente sia di fede islamica e che più o meno il 6 per cento professi una religione orientale.

Si può facilmente capire che la situazione delle persone provenienti dall’Unione Europea, soprattutto da alcune regioni, sia ben diversa da quella di chi ha origine nei Paesi a basso reddito. Le vittime dell’esplosione all’Aluminium sono concittadini di origine senegalese, tunisina, albanese.

Autore: Paolo Bill Valente

Genocidio e antisemitismo. Onestà nelle parole e nei fatti

Sentiamo tutti i giorni termini come genocidio e antisemitismo. Raramente sono usati a ragion veduta. Più spesso sono parole pronunciate senza aver riflettuto sul loro significato e senza conoscere la storia. A volte se ne fa uso manipolatorio, magari proprio per nascondere le proprie tendenze antisemite o genocide.

Il problema nasce già dalle definizioni perché, quando si vuole confondere le acque, il fumo è sempre più utile dell’aria tersa. Non avere definizioni condivise conduce a considerare sinonimi termini come ebreo, sionista, israeliano (l’utilizzo dell’espressione “Stato ebraico” per Israele certamente non aiuta). O di considerare una guerra un atto di genocidio in sé in quanto essa si ripercuote contro “un popolo” o “un gruppo”. Dal momento poi che il concetto di genocidio entrò nel linguaggio del diritto internazionale soprattutto dopo la Shoa, è invalso l’uso perverso di associare “gli ebrei” (non solo il governo israeliano, ma “gli ebrei” tout court) a una certa idea di genocidio, così come avvenuto recentemente con la profanazione delle pietre d’inciampo.

Secondo la definizione operativa dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), non da tutti condivisa, ma adottata da diversi governi, “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto”.

In base alla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” del 1948, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo [in quanto membri di quel gruppo]; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Premesso che ogni Stato e ogni “gruppo” hanno il diritto di difendersi, se attaccati, e che ognuno ha il diritto di esprimere le sue critiche rispetto ai modi con cui uno Stato o un “gruppo” si difendono, denunciando eventuali abusi, antisemitismo e genocidi sono crimini contro l’umanità. È dovere della comunità internazionale e delle sue istituzioni verificare seriamente se e dove ci siano manifestazioni degli stessi. Se ci sono, si deve intervenire, non solo fare proclami. Se non ci sono, si chiamino le cose col loro nome, perché la pace e la riconciliazione sono figlie della verità (e dell’onestà intellettuale).

Autore: Paolo Bill Valente

Belle con anima. Leggende ladine di rocce e di rose

Le Dolomiti sono il luogo della felice contraddizione. Monti fatti di mare e conchiglie. Colori cangianti. Sguardo aperto a diversi orizzonti. Una lingua che si articola in più parlate. Apparente anomalia nella narrazione del monolite tirolese. Tanto che per raccontarla servono saghe di re e principesse, di nani e di rose.

Tutti sanno che i colori chiari dei Monti Pallidi sono frutto dell’azione dei salvani, che raccolsero raggi di luce lunare, ne fecero un tessuto col quale rivestirono le cupe rocce. Perché lo fecero? Per consentire alla principessa della Luna, sposa del figlio del re, di scendere sulla terra senza soccombere ai toni ombrosi e bui dei graniti alpini. È altresì noto che al crepuscolo i Monti Pallidi si tingono per qualche minuto di rosa. Sono i fiori di re Laurino. Il giardino delle rose pietrificate (Rosengarten) torna a risplendere, per un istante, a ricordare giorno per giorno le cose antiche, la magnificenza e la bellezza di questi anni. I tempi in cui la principessa Dolasilla, figlia del re dei Fanes, combatteva con frecce ricavate dal canneto del lago d’Argento, finché i Fanes non si ritirarono nelle caverne con le loro marmotte, in attesa di giorni migliori.

Miti e leggende sono solo miti e leggende, ma custodiscono in sé qualcosa che rivela l’intreccio tra popoli, persone, animali, territori, rocce, alberi e fiori. I ladini stessi sono una presenza culturale che sa di leggenda, nel cuore di una terra e di una storia che non hanno mai saputo bene dove collocarli. Il tentativo di reprimerne la specificità è in qualche modo rappresentato dalla statua di re Laurino soggiogato da Teodorico, esposta come un monito, o un trofeo, nella piazza del Potere, a Bolzano.

Le leggende ladine saranno candidate a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Il professor Pier Luigi Petrillo, che ha il compito di seguire l’iter, conferma che si tratta di elementi vivi, vissuti come preziosa eredità dalla gente dolomitica, capaci di agire in termini di cultura, di valori e di rapporto col territorio. Una consapevolezza che “ha bisogno di essere portata alla luce”.

In un mondo in cui tutto è ricondotto alla materia e al caso, è bello poter riconoscere l’anima, culturale, come un patrimonio comune, insostituibile, perché capace di dare vita, senso – e colore – alla materia.

Autore: Paolo Bill Valente

Linea rossa. Abusi nella libertà di espressione

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. È l’articolo 21 della Costituzione. Un principio sacrosanto per il quale si è lottato e si è morti. Oggi il nemico numero uno della libertà di espressione è l’abuso della libertà di espressione.

Troppe informazioni, poca informazione. È questo uno dei mali della comunicazione in un mondo in cui ognuno è in grado di far circolare parole, immagini, suoni, ma pochi sono in grado di dare loro il giusto peso e di capire fino a che punto quanto viene detto e scritto sia vero e verificato e sia lecito. 

Nei giorni scorsi, a seguito delle dichiarazioni di un consigliere provinciale altoatesino, un gruppo qualificato di suoi colleghi ha manifestato tracciando, dice il loro comunicato, “una simbolica linea rossa che non deve essere oltrepassata. Con questo vogliamo chiarire che rifiutiamo fermamente l’incitamento all’odio, le svalutazioni, gli insulti, i discorsi d’odio e simili, sia nel discorso politico ma anche in quello sociale”. Che la libertà di espressione abbia dei limiti – che consistono semplicemente nel rispetto degli altri – è qualcosa che sanno da sempre anche i bambini. Tuttavia, proprio l’abuso del principio di libera espressione negli ultimi decenni ha fatto sì che i personaggi più improbabili abbiano potuto raggiungere luoghi di potere anche più alti a suon di insulti, di minacce e bugie. Mentre stigmatizzavamo il “buonismo” abbiamo sdoganato il “cattivismo”. Hai voglia ora tracciare linee rosse! Discorso analogo per le fake news. La libertà di espressione e di informazione trova un limite invalicabile nella verità dei fatti. Non è lecito diffondere notizie non vere e costruirci attorno teoremi per tirare l’acqua al proprio mulino o per diffamare qualcuno. In Europa l’83 per cento delle persone ritiene che la disinformazione costituisca una minaccia la democrazia. Il 63 per cento dei giovani afferma di incontrare notizie false più di una volta alla settimana. Il 51 per cento degli europei ritiene di essere stato esposto alla disinformazione online. Anche per questo l’Unione Europea – che spesso è vittima essa stessa della post-verità – ha varato un rigido codice di condotta contro la disinformazione. Attenzioni da avere in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (e oltre).

Autore: Paolo Bill Valente