Non c’è autonomia senza responsabilità e solidarietà

La Repubblica italiana, per quanto “una e indivisibile”, “promuove le autonomie locali”. La Costituzione assegna particolari forme di autonomia a cinque Regioni e due Province, tra cui l’Alto Adige, ma prevede che anche le altre Regioni possano sviluppare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

L’attribuzione di queste “ulteriori forme” di autonomia segue una procedura definita dall’art. 116 della Carta. Serve una legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, “la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. L’autonomia regionale che ne esce non può dunque che essere particolare, cioè tipica per quella Regione. In altri termini “differenziata”.

La via dell’autonomia non è un’opzione tra tante. Essa è parte dei principi fondamentali della Repubblica che (art. 5) “riconosce e promuove le autonomie locali” e “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”. Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni sono definiti (art. 114) “enti autonomi” con “poteri e funzioni secondo i principî fissati dalla Costituzione” i quali (art. 118) “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Riassumendo. L’autonomia non è un’idea balzana della Lega o di qualche altra forza politica, ma è stata introdotta nella Costituzione dai Padri costituenti e sviluppata in seguito dal Parlamento. Essa riguarda enti e cittadini. L’autonomia in quanto tale non deve far paura. Ma i timori nei confronti di una deriva dell’autonomia “differenziata” (tanto più se alimentata da elementi ideologici o elettoralistici) possono essere giustificati.

L’autonomia, infatti, è virtuosa solo in presenza di una cultura politica fatta di alcuni elementi necessari. Il primo è l’orientamento al bene comune. L’autonomia non deve servire a favorire un gruppo (linguistico, economico, di potere …), un territorio, una popolazione, a prescindere dal resto del mondo. Essa deve essere orientata al bene comune e vincolata ai doveri (inderogabili) di solidarietà (art. 2).

Poi il senso delle istituzioni. Se permane l’idea che Stato e cittadino si debbano fare le scarpe l’uno con l’altro, l’autonomia diventa un escamotage o un trucco per tirare al proprio mulino più acqua possibile.

Infine, il principio di sussidiarietà. Ognuno deve poter fare tutto ciò che sa e può fare, demandando ai livelli superiori solo ciò che richiede necessariamente il loro intervento. Ma questo significa in primo luogo essere responsabili. Fare per primi la propria parte. Essere convinti che la politica è l’arte della costruzione – ognuno il suo pezzetto – del bene comune, ovvero del bene di tutti e di ciascuno.

Autore: Paolo Bill Valente

La salute mentale è un diritto

Secondo un’indagine del 2022 quasi l’85 per cento delle ragazze e dei ragazzi altoatesini considera il proprio stato di salute eccellente o buono. Ma non è tutto oro quel che luccica. Non mancano i giovani che vivono la loro esistenza con sofferenza. Una situazione da non sottovalutare anche nella prospettiva dell’età adulta.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dice che la metà di tutti i disturbi mentali ha origine nella primissima adolescenza. Essi vanno affrontati con serietà e tempestivamente, altrimenti si aggravano con l’avanzare dell’età.
Ma in primo luogo: la salute mentale è un diritto. È parte integrante del più generale diritto alla salute che l’OMS definisce “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità” e che la Costituzione tutela “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
A livello globale un adolescente su sette soffre di un disturbo mentale. Prime cause di disagio negli adolescenti sono depressione, ansia e disturbi comportamentali. E la quarta causa di morte nei ragazzi tra i 15 e 19 anni è il suicidio. Malgrado queste evidenze la questione è sottovalutata. Ciò si paga in età adulta, sia sul piano personale che su quello sociale. Importante dunque “agire programmi di promozione e prevenzione della salute mentale” e mettere in atto “varie strategie per raggiungere gli adolescenti, in particolare i più vulnerabili”.
Per promuovere la salute e il benessere degli adolescenti, spiega il rapporto dell’indagine svolta in provincia di Bolzano nel 2022 (indagine HBSC) è necessario “ricercare e agire sulle caratteristiche dell’ambiente di riferimento”. “Il lavoro di prevenzione deve rivolgersi a più destinatari” e “va inserito a sistema in vari contesti”. Ecco la necessità di non lasciare il tema della salute mentale solo agli addetti ai lavori. Ognuno è chiamato, a seconda dei ruoli e delle competenze, a fare la sua parte.
Di questi temi si discute il 18 aprile a Bolzano nel convegno “La salute mentale è un diritto” (programma al link www.infopoint.bz/news). Al centro dell’incontro in particolare i “giovani, i loro bisogni e contributi (spesso trascurati)”. Organizzano Comitato UNICEF, Jugenddienst Meran/o e Cooperativa Pratica.

Autore: Paolo Bill Valente

È assolutamente povera quasi una persona su dieci

Quasi una persona su dieci, in Italia, è in situazione di povertà assoluta. Lo dicono le cifre, ancora provvisorie ma già significative, diffuse dall’Istat a fine marzo. I poveri assoluti alla fine del 2023 erano 5 milioni 752mila. La percentuale del disagio è più alta al Sud, ma è proprio al Nord che si registra un aumento.

Nel 2022 i poveri assoluti erano “solo” 5 milioni 674 mila. L’Istat definisce questa situazione come “stabile”, però è la stabilità del malato grave che forse non peggiora molto, ma non dà nemmeno segni di miglioramento.

Chi sono i poveri assoluti? Spiega l’Istat: le persone che hanno “una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta”. In altre parole: non arrivano a fine mese, non hanno quanto basta per vivere con dignità. Sono al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà” che viene calcolata, zona per zona, in base ad alcuni parametri: luogo di residenza e costo della vita, età, ampiezza e composizione della famiglia. Per fare alcuni esempi (in questo caso le tabelle si riferiscono al 2022): nel centro di Milano una persona sola (di età tra 30 e 59 anni) non può vivere con meno di 1.175 euro mensili (in periferia ne bastano 991), a Roma la soglia è di 1.050 euro, a Napoli sono sufficienti 713 euro. A Bolzano? 994 euro. Il dato ovviamente diminuisce quando si sommano i redditi di più persone conviventi.

I dati più preoccupanti sono quelli che riguardano i minori e agli stranieri. Le famiglie con figli sono quelle che maggiormente rischiano situazioni di disagio economico. E un settimo di tutti i minori è povero, in tutto ben un milione e trecentomila bambini e ragazzi.

La più alta percentuale di povertà si riscontra tra le famiglie composte di soli stranieri: il 35,6 per cento. Quelle di soli italiani sono povere al 6,4 per cento. Il divario è abissale e la disuguaglianza deve far riflettere.

Peggiora infine la condizione delle persone che, pur avendo un lavoro, non superano la soglia di povertà. La povertà assoluta tra le famiglie con “persona di riferimento” occupata (soprattutto se si tratta di un lavoro dipendente) è ora all’8,2 per cento (nel 2022 era il 7,7). Per il 2021 l’Astat, per la provincia di Bolzano, aveva definito “working poor” le persone il cui reddito lordo era inferiore di 11.850 euro annui, calcolando che in Alto Adige questa situazione avrebbe potuto interessare (al netto di diverse variabili) quasi un terzo del personale dipendente (se questo “dovesse vivere unicamente del proprio salario”). Ovvio, chi non ha nemmeno il lavoro è messo ancora peggio: qui la percentuale di poveri, a livello nazionale, sale al 20,6 per cento.

La povertà non si misura solo con i numeri. E al di là degli aspetti economici ci sono forme di povertà non materiale, come le solitudini. Date le dimensioni va detto che la povertà in Italia è un fenomeno strutturale e multidimensionale e va affrontata in modo organico, guardando alla totalità della persona e delle persone.

Autore: Paolo Bill Valente

I veri testimoni sono divisivi. Sono pietre d’inciampo

Gli studenti del Liceo scientifico di Partinico, provincia di Palermo, si sono espressi contro l’intitolazione della scuola a Peppino Impastato. Si tratta di una figura “divisiva”, dicono. Ma quale vero testimone, quale autentico resistente – quando non sia stato ridotto a un innocuo santino – non risulta divisivo?

Ricorre proprio in questi giorni (18 marzo) l’anniversario della proclamazione a beato di Josef Mayr-Nusser. C’è un rischio: che l’onore degli altari lo collochi in alto, dove non dà più fastidio. Le pietre d’inciampo, quelle che fanno male, sono invece sulle strade. Il messaggio di Pepi Nusser resta scomodo, nella società e nella chiesa, disse il figlio Albert, perché il suo esempio obbliga “a riconoscere il diritto di un uomo ad agire secondo coscienza contro l’autorità, se questa è totalitaria e assassina. A riconoscere la libertà dell’individuo di dire ‘no’. Un salto culturale molto difficile in un mondo ancorato al principio della cieca obbedienza”. Anche a lui, nel 1985, si sarebbe voluta negare l’intitolazione di una scuola. È personaggio divisivo.

Non stupisce che Peppino Impastato, colpito perché si oppose apertamente all’arroganza, agli abusi di potere, alle violenze della criminalità organizzata, non sia amato da tutti. Non tanto per i suoi modi impattanti, ma perché mise (e mette) in evidenza le tragiche contraddizioni del potere mafioso. Disse: “La mafia uccide, il silenzio pure”. Fu fatto saltare in aria lo stesso giorno in cui le Brigate Rosse troncarono la vita di Aldo Moro (9 maggio 1978). Personaggi divisivi.

Sia chiaro: non basta essere divisivi per dare testimonianza del bene. Ci sono personaggi, molto pieni di sé, a cui piace proprio essere divisivi (e giudicanti). Non sono testimoni, ma solo dei bastian contrari seminatori di zizzania. Il testimone però, quello autentico, non può che essere divisivo. Suo malgrado. Per mettere d’accordo tutti bisogna invece tendere al nulla. Inchinarsi alle contraddizioni anziché denunciarle.

Dell’unico (anche lui divisivo: “Sono venuto a separare…”) capace di restare pietra d’inciampo anche una volta “innalzato da terra”, di “separare” e, al tempo stesso, di “attirare tutti a sé”, ricorderemo la storia (tragica ma piena di buone notizie) la settimana che viene.

Mi è rimasto impresso il cartello, un semplice foglio A4 stampato alla buona, appeso alla parete del suo ufficio da uno che fu poi “struck from the list”; una frase tratta da uno scritto assai diffuso ma poco praticato: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Appunto.

Autore: Paolo Bill Valente

Cambiare linguaggio, dare speranza, restare umani

Conflitti tra gruppi o popoli non si risolvono con le guerre, con le armi, con la vittoria dell’uno sull’altro. Un approccio necessario per cambiare le cose è liberarsi da coloro, in loco e soprattutto altrove, che vogliono, perpetuano e vivono del conflitto. La pace richiede una nuova prospettiva e un nuovo linguaggio.

“Un linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione”, ha detto il patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, “non è un elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e di troppe altre guerre”. E ha aggiunto, parlando agli studenti di Roma della “profezia della pace”, che affinché essa diventi realtà “è indispensabile educarci al rispetto, all’incontro, al dialogo, al perdono. Tutti, ebrei, musulmani e cristiani, devono essere innanzitutto testimoni credibili di speranza”. “Senza speranza non si vive. Oggi c’è più paura che speranza”. “Questo è il momento della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e alla disperazione, da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace».

Conflitti come quello in corso in Israele/Palestina non si sciolgono con le polarizzazioni né con la riproposizione acritica di stereotipi millenari. Più che mai una realtà come quella impone una riflessione che tenga conto della complessità che la genera. Le narrazioni correnti tendono a ricostruzioni “storiche” parziali, allo scopo di dimostrare la colpevolezza o i diritti dell’uno o dell’altro. Ma la storia che conduce alla presente situazione è molto lunga e non semplificabile in uno slogan. Non è iniziata lo scorso 7 ottobre e nemmeno nel maggio del 1948.

“In questo momento ciò che vediamo”, spiega il card. Pizzaballa, “è che ciascuno si sente vittima. L’unica vittima. E che gli altri sono invece la causa del mio essere vittima”.

Mettersi seriamente nei panni degli altri è il primo, necessario passo per cambiare prospettiva, cambiare linguaggio, deporre le armi. E per restare umani.

Autore: Paolo Bill Valente

Responsabilità globale multilaterale autorevole cercasi

Il 24 febbraio sono due anni di guerra in Ucraina. Quindici giorni dopo saranno cinque mesi dal riesplodere della pluridecennale ostilità israelo-palestinese. Infuriano guerre ovunque sul pianeta: i cosiddetti “conflitti dimenticati”. E la transizione ecologica fa fatica ad essere governata. Serve un governo mondiale autorevole?

Si può invocare una svolta autoritaria: un Grande Poliziotto che metta le cose a posto. Altri vorranno immaginare soluzioni drastiche come un nuovo Diluvio universale. Ma a parte il fatto che l’andazzo attuale rende realistica sia l’una che l’altra ipotesi, si tratterebbe comunque di una tragica deriva. Soluzioni peggio del problema.

Fa specie che oggi l’unica voce riconosciuta autorevole – anche se non da tutti, nemmeno in casa sua – a livello mondiale, sia quella di papa Francesco. Nel documento Laudate Deum, scritto in vista della COP28 di Dubai, il pontefice dedica un capitolo alla “debolezza della politica internazionale”. Constata che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” e insiste nel dire che “vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati”. Specifica: “Non giova confondere il multilateralismo con un’autorità mondiale concentrata in una sola persona o in un’élite con eccessivo potere”. Si parla invece di “organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”.

Ma non ci sono già le Nazioni Unite? Evidentemente gli eventi in Ucraina, Palestina, Sudan e altrove mostrano la drammatica impotenza dell’ONU. Le organizzazioni mondiali, sottolinea Francesco, “devono essere dotate di una reale autorità per ‘assicurare’ la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili. Così si darebbe vita a un multilateralismo che non dipende dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un’efficacia stabile”.

Il multilateralismo va riconfigurato. In concreto il papa propone che “si attui una nuova procedura per il processo decisionale e per la legittimazione di tali decisioni”, che si creino “spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale”, perché “non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti”.

Autore: Paolo Bill Valente

Parole travalicanti.Con zone d’ombra

Chiunque ha commesso abusi (di potere innanzitutto) deve essere chiamato a risponderne e per quanto possibile a risarcire le vittime. Mentre è in vita, non da morto. I morti non si possono difendere e la difesa è un diritto inviolabile. Essere in pace con se stessi per accompagnare, nella pace vera, vivi e morti.

Pochi giorni fa nel comunicato per il decesso di un sacerdote, la diocesi ha deciso di mettere in evidenza che “nel suo servizio nella pastorale giovanile vi sono state anche zone d’ombra: con la sua condotta travalicante ha ferito giovani persone”. Un atto di “trasparenza”, è stato detto.

Si è spiegato che d’ora in poi quando ci saranno state “segnalazioni” se ne darà comunicazione. Ma il generico accenno a “zone d’ombra” e a “condotte travalicanti” è davvero una parola chiara e trasparente? O non è forse il suo contrario? Trasparenza è dare informazioni in modo completo e congruo. Sono stati commessi dei reati? Sono stati presi dei provvedimenti disciplinari? I superiori sono intervenuti per tempo e in modo adeguato? Le vittime sono state accompagnate e risarcite? Formulata così quella frase è solo un giudizio sommario, senza possibilità di appello. Ma soprattutto: il comunicato di un decesso non è una sentenza (che spetta a un giudice) né il giudizio sulla vita di un uomo (che spetta al Padreterno).

Mettere alla gogna una persona appena morta scolpendo parole di biasimo nel marmo del suo epitaffio è una scelta della cui valenza pastorale (e giuridica) si può dubitare. Assomiglia troppo a una diffamazione (postuma). Sa poco di verità. Non se ne capisce davvero il senso, proprio nell’ottica della dignità delle persone, anche quelle ferite. Un cadavere non si può difendere né può chiedere perdono. L’eccesso di zelo nel trattamento di un abuso rischia di trasformarsi a sua volta in abuso. Diritto e diritti non si possono separare. Punire qualcuno per dare un messaggio ad altri appartiene a culture giuridiche non compatibili con la tradizione cristiana.

Che cosa leggeremo nel prossimo necrologio? Che quel parroco ha tenuto male i conti della parrocchia o non ha pagato le tasse? Che non è stato un bravo padre? Che a volte è venuto meno ai propri voti? Che si è servito di un ruolo di potere? Che ha raccontato qualche bugia? Che ha usato un linguaggio non rispettoso di gruppi minoritari? Anche in questi casi ci sono condotte travalicanti, zone d’ombra, abusi e persone ferite.

Non sono sicuro che noi che scriviamo i comunicati siamo tutti davvero senza macchia. Con quale autorità (e autorevolezza) evidenziamo le ombre della vita di una persona, proprio nel giorno in cui essa si presenta al tribunale di Dio? “Chi di voi è senza peccato”, direbbe quel Giudice rivolgendosi al pubblico in aula, “scagli la prima pietra”. Requiescant in pace.

Autore: Paolo Bill Valente

Am dam des. La conta linguistica del 2024

“Tu conti” è il nome assegnato alla fase forse un po’ sperimentale del “censimento per il calcolo della composizione percentuale dei tre gruppi linguistici” attualmente in corso in provincia di Bolzano. Ma gli altoatesini hanno davvero compreso di che si tratta? Finora la risposta della cittadinanza sembra assai debole.

Il direttore dell’Istituto provinciale di statistica (ASTAT) parla di “risultato intermedio soddisfacente” anche se “c’è ancora margine di miglioramento”. Per “migliorare” c’è tempo fino al 29 febbraio (per fortuna l’anno è bisestile). Dal 4 dicembre alla settimana scorsa aveva partecipato alla rilevazione online solo il 18,3 per cento dei residenti con punte del 43,3 per cento a Tires e del 9,1 a Fortezza. 

Non si tratta di pura curiosità statistica. In ballo c’è la distribuzione dei posti nel pubblico impiego, la ripartizione dei fondi provinciali, la rappresentanza dei gruppi in alcuni organi collegiali provinciali. L’assegnazione di posti, fondi e poltrone avviene in base alla consistenza dei cosiddetti gruppi linguistici che dunque deve essere calcolata (e non solo sondata o stimata). Per qualcuno, dunque, l’appello a contare (“tu conti”) ovvero a contarsi, potrebbe suonare come una “chiamata alle armi”.

I nostri politici, ma soprattutto gli storici, sanno bene che le “conte linguistiche” sono cose da maneggiare con estrema prudenza. È così da almeno un secolo e mezzo. Mentre la madrelingua delle persone è un fatto oggettivo (per quanto ci siano molte persone cresciute in ambiente multilingue), l’appartenenza a un “gruppo linguistico” è un costrutto politico-ideologico. Un conto è parlare, altro è “appartenere”. Un conto è parlare francese, altro è “essere” francese, ad esempio. Le lingue aprono, le appartenenze escludono.

Nelle FAQ disponibili sul sito dedicato al censimento non si spiega come alla fine saranno calcolate le percentuali, dal momento che non tutti risponderanno al conteggio on line. Si specifica tuttavia che la dichiarazione è obbligatoria e che chi non l’avrà effettuata online, “avrà la possibilità di partecipare al censimento dei gruppi linguistici compilando la dichiarazione in forma cartacea a partire da aprile 2024”.

A quel punto il “tu conti” sarà forse riferito solo ai rilevatori che andranno di casa in casa. Una cosa è contare, altra è essere contati.

Autore: Paolo Bill Valente

La fiducia degli altoatesini non è più scontata

La crisi di fiducia è la grande questione che segna i rapporti tra le persone, tra i gruppi sociali e dei cittadini con le istituzioni e con chi nella società ha un ruolo pubblico, come i politici, i sacerdoti e i giornalisti. La Provincia, come il partito, perde punti, ma con notevoli differenze tra i gruppi linguistici.

I dati emergono dall’indagine dell’ASTAT su “Soddisfazione delle cittadine e dei cittadini nei confronti dei servizi pubblici, 2023” che rivela “un calo generalizzato dell’ottimismo o della soddisfazione di vita”.

La fiducia nella Provincia autonoma rispetto al 2018 cala dal 78 al 66 per cento (recupera invece lo Stato italiano che passa dal 19 al 28 per cento). Ciò che sorprende è il fatto che esprime fiducia nelle istituzioni provinciali il 56 per cento tra le persone di madrelingua tedesca contro un 85 per cento tra quelle di madrelingua italiana, mistilingui o di altra lingua. Un dato che smentisce qualche stereotipo e che fa il paio con i recenti risultati elettorali, che mostrano una diminuzione consistente nel consenso per il partito che storicamente ha legato la sua immagine alla Provincia, governandola in autonomia. Sono numeri che parlano anche della persistenza di uno sviluppo diseguale tra i gruppi linguistici, con poche occasioni di incontro e con una debole sensibilità comune. È l’effetto della politica della separazione etnica attuata consapevolmente negli ultimi decenni.

Tra le figure professionali quelle più quotate sono i medici (88 per cento), gli scienziati (84), gli insegnanti (82), il personale del comune (77), le forze dell’ordine (76), gli imprenditori (71) e i magistrati (69). Da sottolineare il fatto che tutte le categorie sono in calo (tranne i politici nazionali che, pur restando gli ultimi in classifica, guadagnano due punti). I giornalisti, ahimè, scendono dal 38 al 32 per cento.

Chi perde il maggior numero di punti in termini di fiducia sono, secondo l’ASTAT, i politici altoatesini e i sacerdoti: meno dieci per entrambi gli ambiti. Dal 2018 a oggi. Spesso le scelte e i comportamenti di pochi si traducono in un danno, non solo di immagine, per molti e per tutti.

Autore: Paolo Bill Valente

Miti della razza, patrie negate, vittime innocenti

Una delle conseguenze del drammatico conflitto in Israele e Palestina è il riemergere di atteggiamenti antisemiti. Azioni e pensieri contro gli ebrei – identificati tout court con uno Stato e un governo – vengono giustificati dalla violenta reazione di Israele al violento attacco sferrato lo scorso 7 di ottobre.

La guerra scatenata da Hamas è oggi circondata dalle stesse forme di disinformazione, mistificazione, strumentalizzazione e populismo emozionale che nella storia hanno caratterizzato il propagarsi dell’odio antiebraico. Un fenomeno millenario rispetto al quale la cultura occidentale non è stata ancora capace di dire la parola “fine”.

Migliaia di vittime civili innocenti, centinaia di migliaia di profughi palestinesi e israeliani, ostaggi di ogni età pagano il prezzo, ancora una volta, di dinamiche di potere malate, frutto di sistemi coloniali e postcoloniali, dei nuovi imperialismi, di un’economia e di una politica che uccidono, quando antepongono il profitto e il potere alla dignità umana.

Gli ebrei, anche da parte di illustri uomini di Chiesa, furono considerati per secoli indegni di abitare un proprio Paese, essendo essi il “popolo deicida” costretto per questo ad andare “ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria” (Agostino Gemelli, 1939).

Nell’autunno di 85 anni fa il Regno d’Italia approvava quelle “leggi razziali” che, tra i provvedimenti attuati, vide l’espulsione dal territorio nazionale degli “ebrei stranieri”, spesso famiglie fuggite da territori nei quali erano brutalmente perseguitate. A seguito di queste misure la fiorente comunità ebraica di Merano fu ridotta al lumicino.

Il Manifesto della razza (luglio 1938) affermava (art. 9) che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana” e che essi “rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani”.

La cacciata degli ebrei da ogni territorio – fino alla soluzione finale attuata nella Shoà – è il principale motivo per cui nel 1948 nacque lo Stato di Israele. Una vittoria che è al tempo stesso la tragica sconfitta dell’idea di fratellanza umana. Certamente non la guarigione definitiva di una patologia che non ha radici in Palestina/Israele, ma (soprattutto) altrove.

Autore: Paolo Bill Valente