Genocidio e antisemitismo. Onestà nelle parole e nei fatti

Sentiamo tutti i giorni termini come genocidio e antisemitismo. Raramente sono usati a ragion veduta. Più spesso sono parole pronunciate senza aver riflettuto sul loro significato e senza conoscere la storia. A volte se ne fa uso manipolatorio, magari proprio per nascondere le proprie tendenze antisemite o genocide.

Il problema nasce già dalle definizioni perché, quando si vuole confondere le acque, il fumo è sempre più utile dell’aria tersa. Non avere definizioni condivise conduce a considerare sinonimi termini come ebreo, sionista, israeliano (l’utilizzo dell’espressione “Stato ebraico” per Israele certamente non aiuta). O di considerare una guerra un atto di genocidio in sé in quanto essa si ripercuote contro “un popolo” o “un gruppo”. Dal momento poi che il concetto di genocidio entrò nel linguaggio del diritto internazionale soprattutto dopo la Shoa, è invalso l’uso perverso di associare “gli ebrei” (non solo il governo israeliano, ma “gli ebrei” tout court) a una certa idea di genocidio, così come avvenuto recentemente con la profanazione delle pietre d’inciampo.

Secondo la definizione operativa dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), non da tutti condivisa, ma adottata da diversi governi, “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto”.

In base alla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” del 1948, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo [in quanto membri di quel gruppo]; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Premesso che ogni Stato e ogni “gruppo” hanno il diritto di difendersi, se attaccati, e che ognuno ha il diritto di esprimere le sue critiche rispetto ai modi con cui uno Stato o un “gruppo” si difendono, denunciando eventuali abusi, antisemitismo e genocidi sono crimini contro l’umanità. È dovere della comunità internazionale e delle sue istituzioni verificare seriamente se e dove ci siano manifestazioni degli stessi. Se ci sono, si deve intervenire, non solo fare proclami. Se non ci sono, si chiamino le cose col loro nome, perché la pace e la riconciliazione sono figlie della verità (e dell’onestà intellettuale).

Autore: Paolo Bill Valente

Belle con anima. Leggende ladine di rocce e di rose

Le Dolomiti sono il luogo della felice contraddizione. Monti fatti di mare e conchiglie. Colori cangianti. Sguardo aperto a diversi orizzonti. Una lingua che si articola in più parlate. Apparente anomalia nella narrazione del monolite tirolese. Tanto che per raccontarla servono saghe di re e principesse, di nani e di rose.

Tutti sanno che i colori chiari dei Monti Pallidi sono frutto dell’azione dei salvani, che raccolsero raggi di luce lunare, ne fecero un tessuto col quale rivestirono le cupe rocce. Perché lo fecero? Per consentire alla principessa della Luna, sposa del figlio del re, di scendere sulla terra senza soccombere ai toni ombrosi e bui dei graniti alpini. È altresì noto che al crepuscolo i Monti Pallidi si tingono per qualche minuto di rosa. Sono i fiori di re Laurino. Il giardino delle rose pietrificate (Rosengarten) torna a risplendere, per un istante, a ricordare giorno per giorno le cose antiche, la magnificenza e la bellezza di questi anni. I tempi in cui la principessa Dolasilla, figlia del re dei Fanes, combatteva con frecce ricavate dal canneto del lago d’Argento, finché i Fanes non si ritirarono nelle caverne con le loro marmotte, in attesa di giorni migliori.

Miti e leggende sono solo miti e leggende, ma custodiscono in sé qualcosa che rivela l’intreccio tra popoli, persone, animali, territori, rocce, alberi e fiori. I ladini stessi sono una presenza culturale che sa di leggenda, nel cuore di una terra e di una storia che non hanno mai saputo bene dove collocarli. Il tentativo di reprimerne la specificità è in qualche modo rappresentato dalla statua di re Laurino soggiogato da Teodorico, esposta come un monito, o un trofeo, nella piazza del Potere, a Bolzano.

Le leggende ladine saranno candidate a patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Il professor Pier Luigi Petrillo, che ha il compito di seguire l’iter, conferma che si tratta di elementi vivi, vissuti come preziosa eredità dalla gente dolomitica, capaci di agire in termini di cultura, di valori e di rapporto col territorio. Una consapevolezza che “ha bisogno di essere portata alla luce”.

In un mondo in cui tutto è ricondotto alla materia e al caso, è bello poter riconoscere l’anima, culturale, come un patrimonio comune, insostituibile, perché capace di dare vita, senso – e colore – alla materia.

Autore: Paolo Bill Valente

Linea rossa. Abusi nella libertà di espressione

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. È l’articolo 21 della Costituzione. Un principio sacrosanto per il quale si è lottato e si è morti. Oggi il nemico numero uno della libertà di espressione è l’abuso della libertà di espressione.

Troppe informazioni, poca informazione. È questo uno dei mali della comunicazione in un mondo in cui ognuno è in grado di far circolare parole, immagini, suoni, ma pochi sono in grado di dare loro il giusto peso e di capire fino a che punto quanto viene detto e scritto sia vero e verificato e sia lecito. 

Nei giorni scorsi, a seguito delle dichiarazioni di un consigliere provinciale altoatesino, un gruppo qualificato di suoi colleghi ha manifestato tracciando, dice il loro comunicato, “una simbolica linea rossa che non deve essere oltrepassata. Con questo vogliamo chiarire che rifiutiamo fermamente l’incitamento all’odio, le svalutazioni, gli insulti, i discorsi d’odio e simili, sia nel discorso politico ma anche in quello sociale”. Che la libertà di espressione abbia dei limiti – che consistono semplicemente nel rispetto degli altri – è qualcosa che sanno da sempre anche i bambini. Tuttavia, proprio l’abuso del principio di libera espressione negli ultimi decenni ha fatto sì che i personaggi più improbabili abbiano potuto raggiungere luoghi di potere anche più alti a suon di insulti, di minacce e bugie. Mentre stigmatizzavamo il “buonismo” abbiamo sdoganato il “cattivismo”. Hai voglia ora tracciare linee rosse! Discorso analogo per le fake news. La libertà di espressione e di informazione trova un limite invalicabile nella verità dei fatti. Non è lecito diffondere notizie non vere e costruirci attorno teoremi per tirare l’acqua al proprio mulino o per diffamare qualcuno. In Europa l’83 per cento delle persone ritiene che la disinformazione costituisca una minaccia la democrazia. Il 63 per cento dei giovani afferma di incontrare notizie false più di una volta alla settimana. Il 51 per cento degli europei ritiene di essere stato esposto alla disinformazione online. Anche per questo l’Unione Europea – che spesso è vittima essa stessa della post-verità – ha varato un rigido codice di condotta contro la disinformazione. Attenzioni da avere in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (e oltre).

Autore: Paolo Bill Valente

Non c’è autonomia senza responsabilità e solidarietà

La Repubblica italiana, per quanto “una e indivisibile”, “promuove le autonomie locali”. La Costituzione assegna particolari forme di autonomia a cinque Regioni e due Province, tra cui l’Alto Adige, ma prevede che anche le altre Regioni possano sviluppare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

L’attribuzione di queste “ulteriori forme” di autonomia segue una procedura definita dall’art. 116 della Carta. Serve una legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, “la legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. L’autonomia regionale che ne esce non può dunque che essere particolare, cioè tipica per quella Regione. In altri termini “differenziata”.

La via dell’autonomia non è un’opzione tra tante. Essa è parte dei principi fondamentali della Repubblica che (art. 5) “riconosce e promuove le autonomie locali” e “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”. Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni sono definiti (art. 114) “enti autonomi” con “poteri e funzioni secondo i principî fissati dalla Costituzione” i quali (art. 118) “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

Riassumendo. L’autonomia non è un’idea balzana della Lega o di qualche altra forza politica, ma è stata introdotta nella Costituzione dai Padri costituenti e sviluppata in seguito dal Parlamento. Essa riguarda enti e cittadini. L’autonomia in quanto tale non deve far paura. Ma i timori nei confronti di una deriva dell’autonomia “differenziata” (tanto più se alimentata da elementi ideologici o elettoralistici) possono essere giustificati.

L’autonomia, infatti, è virtuosa solo in presenza di una cultura politica fatta di alcuni elementi necessari. Il primo è l’orientamento al bene comune. L’autonomia non deve servire a favorire un gruppo (linguistico, economico, di potere …), un territorio, una popolazione, a prescindere dal resto del mondo. Essa deve essere orientata al bene comune e vincolata ai doveri (inderogabili) di solidarietà (art. 2).

Poi il senso delle istituzioni. Se permane l’idea che Stato e cittadino si debbano fare le scarpe l’uno con l’altro, l’autonomia diventa un escamotage o un trucco per tirare al proprio mulino più acqua possibile.

Infine, il principio di sussidiarietà. Ognuno deve poter fare tutto ciò che sa e può fare, demandando ai livelli superiori solo ciò che richiede necessariamente il loro intervento. Ma questo significa in primo luogo essere responsabili. Fare per primi la propria parte. Essere convinti che la politica è l’arte della costruzione – ognuno il suo pezzetto – del bene comune, ovvero del bene di tutti e di ciascuno.

Autore: Paolo Bill Valente

La salute mentale è un diritto

Secondo un’indagine del 2022 quasi l’85 per cento delle ragazze e dei ragazzi altoatesini considera il proprio stato di salute eccellente o buono. Ma non è tutto oro quel che luccica. Non mancano i giovani che vivono la loro esistenza con sofferenza. Una situazione da non sottovalutare anche nella prospettiva dell’età adulta.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dice che la metà di tutti i disturbi mentali ha origine nella primissima adolescenza. Essi vanno affrontati con serietà e tempestivamente, altrimenti si aggravano con l’avanzare dell’età.
Ma in primo luogo: la salute mentale è un diritto. È parte integrante del più generale diritto alla salute che l’OMS definisce “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità” e che la Costituzione tutela “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
A livello globale un adolescente su sette soffre di un disturbo mentale. Prime cause di disagio negli adolescenti sono depressione, ansia e disturbi comportamentali. E la quarta causa di morte nei ragazzi tra i 15 e 19 anni è il suicidio. Malgrado queste evidenze la questione è sottovalutata. Ciò si paga in età adulta, sia sul piano personale che su quello sociale. Importante dunque “agire programmi di promozione e prevenzione della salute mentale” e mettere in atto “varie strategie per raggiungere gli adolescenti, in particolare i più vulnerabili”.
Per promuovere la salute e il benessere degli adolescenti, spiega il rapporto dell’indagine svolta in provincia di Bolzano nel 2022 (indagine HBSC) è necessario “ricercare e agire sulle caratteristiche dell’ambiente di riferimento”. “Il lavoro di prevenzione deve rivolgersi a più destinatari” e “va inserito a sistema in vari contesti”. Ecco la necessità di non lasciare il tema della salute mentale solo agli addetti ai lavori. Ognuno è chiamato, a seconda dei ruoli e delle competenze, a fare la sua parte.
Di questi temi si discute il 18 aprile a Bolzano nel convegno “La salute mentale è un diritto” (programma al link www.infopoint.bz/news). Al centro dell’incontro in particolare i “giovani, i loro bisogni e contributi (spesso trascurati)”. Organizzano Comitato UNICEF, Jugenddienst Meran/o e Cooperativa Pratica.

Autore: Paolo Bill Valente

È assolutamente povera quasi una persona su dieci

Quasi una persona su dieci, in Italia, è in situazione di povertà assoluta. Lo dicono le cifre, ancora provvisorie ma già significative, diffuse dall’Istat a fine marzo. I poveri assoluti alla fine del 2023 erano 5 milioni 752mila. La percentuale del disagio è più alta al Sud, ma è proprio al Nord che si registra un aumento.

Nel 2022 i poveri assoluti erano “solo” 5 milioni 674 mila. L’Istat definisce questa situazione come “stabile”, però è la stabilità del malato grave che forse non peggiora molto, ma non dà nemmeno segni di miglioramento.

Chi sono i poveri assoluti? Spiega l’Istat: le persone che hanno “una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta”. In altre parole: non arrivano a fine mese, non hanno quanto basta per vivere con dignità. Sono al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà” che viene calcolata, zona per zona, in base ad alcuni parametri: luogo di residenza e costo della vita, età, ampiezza e composizione della famiglia. Per fare alcuni esempi (in questo caso le tabelle si riferiscono al 2022): nel centro di Milano una persona sola (di età tra 30 e 59 anni) non può vivere con meno di 1.175 euro mensili (in periferia ne bastano 991), a Roma la soglia è di 1.050 euro, a Napoli sono sufficienti 713 euro. A Bolzano? 994 euro. Il dato ovviamente diminuisce quando si sommano i redditi di più persone conviventi.

I dati più preoccupanti sono quelli che riguardano i minori e agli stranieri. Le famiglie con figli sono quelle che maggiormente rischiano situazioni di disagio economico. E un settimo di tutti i minori è povero, in tutto ben un milione e trecentomila bambini e ragazzi.

La più alta percentuale di povertà si riscontra tra le famiglie composte di soli stranieri: il 35,6 per cento. Quelle di soli italiani sono povere al 6,4 per cento. Il divario è abissale e la disuguaglianza deve far riflettere.

Peggiora infine la condizione delle persone che, pur avendo un lavoro, non superano la soglia di povertà. La povertà assoluta tra le famiglie con “persona di riferimento” occupata (soprattutto se si tratta di un lavoro dipendente) è ora all’8,2 per cento (nel 2022 era il 7,7). Per il 2021 l’Astat, per la provincia di Bolzano, aveva definito “working poor” le persone il cui reddito lordo era inferiore di 11.850 euro annui, calcolando che in Alto Adige questa situazione avrebbe potuto interessare (al netto di diverse variabili) quasi un terzo del personale dipendente (se questo “dovesse vivere unicamente del proprio salario”). Ovvio, chi non ha nemmeno il lavoro è messo ancora peggio: qui la percentuale di poveri, a livello nazionale, sale al 20,6 per cento.

La povertà non si misura solo con i numeri. E al di là degli aspetti economici ci sono forme di povertà non materiale, come le solitudini. Date le dimensioni va detto che la povertà in Italia è un fenomeno strutturale e multidimensionale e va affrontata in modo organico, guardando alla totalità della persona e delle persone.

Autore: Paolo Bill Valente

I veri testimoni sono divisivi. Sono pietre d’inciampo

Gli studenti del Liceo scientifico di Partinico, provincia di Palermo, si sono espressi contro l’intitolazione della scuola a Peppino Impastato. Si tratta di una figura “divisiva”, dicono. Ma quale vero testimone, quale autentico resistente – quando non sia stato ridotto a un innocuo santino – non risulta divisivo?

Ricorre proprio in questi giorni (18 marzo) l’anniversario della proclamazione a beato di Josef Mayr-Nusser. C’è un rischio: che l’onore degli altari lo collochi in alto, dove non dà più fastidio. Le pietre d’inciampo, quelle che fanno male, sono invece sulle strade. Il messaggio di Pepi Nusser resta scomodo, nella società e nella chiesa, disse il figlio Albert, perché il suo esempio obbliga “a riconoscere il diritto di un uomo ad agire secondo coscienza contro l’autorità, se questa è totalitaria e assassina. A riconoscere la libertà dell’individuo di dire ‘no’. Un salto culturale molto difficile in un mondo ancorato al principio della cieca obbedienza”. Anche a lui, nel 1985, si sarebbe voluta negare l’intitolazione di una scuola. È personaggio divisivo.

Non stupisce che Peppino Impastato, colpito perché si oppose apertamente all’arroganza, agli abusi di potere, alle violenze della criminalità organizzata, non sia amato da tutti. Non tanto per i suoi modi impattanti, ma perché mise (e mette) in evidenza le tragiche contraddizioni del potere mafioso. Disse: “La mafia uccide, il silenzio pure”. Fu fatto saltare in aria lo stesso giorno in cui le Brigate Rosse troncarono la vita di Aldo Moro (9 maggio 1978). Personaggi divisivi.

Sia chiaro: non basta essere divisivi per dare testimonianza del bene. Ci sono personaggi, molto pieni di sé, a cui piace proprio essere divisivi (e giudicanti). Non sono testimoni, ma solo dei bastian contrari seminatori di zizzania. Il testimone però, quello autentico, non può che essere divisivo. Suo malgrado. Per mettere d’accordo tutti bisogna invece tendere al nulla. Inchinarsi alle contraddizioni anziché denunciarle.

Dell’unico (anche lui divisivo: “Sono venuto a separare…”) capace di restare pietra d’inciampo anche una volta “innalzato da terra”, di “separare” e, al tempo stesso, di “attirare tutti a sé”, ricorderemo la storia (tragica ma piena di buone notizie) la settimana che viene.

Mi è rimasto impresso il cartello, un semplice foglio A4 stampato alla buona, appeso alla parete del suo ufficio da uno che fu poi “struck from the list”; una frase tratta da uno scritto assai diffuso ma poco praticato: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Appunto.

Autore: Paolo Bill Valente

Cambiare linguaggio, dare speranza, restare umani

Conflitti tra gruppi o popoli non si risolvono con le guerre, con le armi, con la vittoria dell’uno sull’altro. Un approccio necessario per cambiare le cose è liberarsi da coloro, in loco e soprattutto altrove, che vogliono, perpetuano e vivono del conflitto. La pace richiede una nuova prospettiva e un nuovo linguaggio.

“Un linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione”, ha detto il patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, “non è un elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e di troppe altre guerre”. E ha aggiunto, parlando agli studenti di Roma della “profezia della pace”, che affinché essa diventi realtà “è indispensabile educarci al rispetto, all’incontro, al dialogo, al perdono. Tutti, ebrei, musulmani e cristiani, devono essere innanzitutto testimoni credibili di speranza”. “Senza speranza non si vive. Oggi c’è più paura che speranza”. “Questo è il momento della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e alla disperazione, da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace».

Conflitti come quello in corso in Israele/Palestina non si sciolgono con le polarizzazioni né con la riproposizione acritica di stereotipi millenari. Più che mai una realtà come quella impone una riflessione che tenga conto della complessità che la genera. Le narrazioni correnti tendono a ricostruzioni “storiche” parziali, allo scopo di dimostrare la colpevolezza o i diritti dell’uno o dell’altro. Ma la storia che conduce alla presente situazione è molto lunga e non semplificabile in uno slogan. Non è iniziata lo scorso 7 ottobre e nemmeno nel maggio del 1948.

“In questo momento ciò che vediamo”, spiega il card. Pizzaballa, “è che ciascuno si sente vittima. L’unica vittima. E che gli altri sono invece la causa del mio essere vittima”.

Mettersi seriamente nei panni degli altri è il primo, necessario passo per cambiare prospettiva, cambiare linguaggio, deporre le armi. E per restare umani.

Autore: Paolo Bill Valente

Responsabilità globale multilaterale autorevole cercasi

Il 24 febbraio sono due anni di guerra in Ucraina. Quindici giorni dopo saranno cinque mesi dal riesplodere della pluridecennale ostilità israelo-palestinese. Infuriano guerre ovunque sul pianeta: i cosiddetti “conflitti dimenticati”. E la transizione ecologica fa fatica ad essere governata. Serve un governo mondiale autorevole?

Si può invocare una svolta autoritaria: un Grande Poliziotto che metta le cose a posto. Altri vorranno immaginare soluzioni drastiche come un nuovo Diluvio universale. Ma a parte il fatto che l’andazzo attuale rende realistica sia l’una che l’altra ipotesi, si tratterebbe comunque di una tragica deriva. Soluzioni peggio del problema.

Fa specie che oggi l’unica voce riconosciuta autorevole – anche se non da tutti, nemmeno in casa sua – a livello mondiale, sia quella di papa Francesco. Nel documento Laudate Deum, scritto in vista della COP28 di Dubai, il pontefice dedica un capitolo alla “debolezza della politica internazionale”. Constata che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” e insiste nel dire che “vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati”. Specifica: “Non giova confondere il multilateralismo con un’autorità mondiale concentrata in una sola persona o in un’élite con eccessivo potere”. Si parla invece di “organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”.

Ma non ci sono già le Nazioni Unite? Evidentemente gli eventi in Ucraina, Palestina, Sudan e altrove mostrano la drammatica impotenza dell’ONU. Le organizzazioni mondiali, sottolinea Francesco, “devono essere dotate di una reale autorità per ‘assicurare’ la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili. Così si darebbe vita a un multilateralismo che non dipende dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un’efficacia stabile”.

Il multilateralismo va riconfigurato. In concreto il papa propone che “si attui una nuova procedura per il processo decisionale e per la legittimazione di tali decisioni”, che si creino “spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale”, perché “non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti”.

Autore: Paolo Bill Valente

Parole travalicanti.Con zone d’ombra

Chiunque ha commesso abusi (di potere innanzitutto) deve essere chiamato a risponderne e per quanto possibile a risarcire le vittime. Mentre è in vita, non da morto. I morti non si possono difendere e la difesa è un diritto inviolabile. Essere in pace con se stessi per accompagnare, nella pace vera, vivi e morti.

Pochi giorni fa nel comunicato per il decesso di un sacerdote, la diocesi ha deciso di mettere in evidenza che “nel suo servizio nella pastorale giovanile vi sono state anche zone d’ombra: con la sua condotta travalicante ha ferito giovani persone”. Un atto di “trasparenza”, è stato detto.

Si è spiegato che d’ora in poi quando ci saranno state “segnalazioni” se ne darà comunicazione. Ma il generico accenno a “zone d’ombra” e a “condotte travalicanti” è davvero una parola chiara e trasparente? O non è forse il suo contrario? Trasparenza è dare informazioni in modo completo e congruo. Sono stati commessi dei reati? Sono stati presi dei provvedimenti disciplinari? I superiori sono intervenuti per tempo e in modo adeguato? Le vittime sono state accompagnate e risarcite? Formulata così quella frase è solo un giudizio sommario, senza possibilità di appello. Ma soprattutto: il comunicato di un decesso non è una sentenza (che spetta a un giudice) né il giudizio sulla vita di un uomo (che spetta al Padreterno).

Mettere alla gogna una persona appena morta scolpendo parole di biasimo nel marmo del suo epitaffio è una scelta della cui valenza pastorale (e giuridica) si può dubitare. Assomiglia troppo a una diffamazione (postuma). Sa poco di verità. Non se ne capisce davvero il senso, proprio nell’ottica della dignità delle persone, anche quelle ferite. Un cadavere non si può difendere né può chiedere perdono. L’eccesso di zelo nel trattamento di un abuso rischia di trasformarsi a sua volta in abuso. Diritto e diritti non si possono separare. Punire qualcuno per dare un messaggio ad altri appartiene a culture giuridiche non compatibili con la tradizione cristiana.

Che cosa leggeremo nel prossimo necrologio? Che quel parroco ha tenuto male i conti della parrocchia o non ha pagato le tasse? Che non è stato un bravo padre? Che a volte è venuto meno ai propri voti? Che si è servito di un ruolo di potere? Che ha raccontato qualche bugia? Che ha usato un linguaggio non rispettoso di gruppi minoritari? Anche in questi casi ci sono condotte travalicanti, zone d’ombra, abusi e persone ferite.

Non sono sicuro che noi che scriviamo i comunicati siamo tutti davvero senza macchia. Con quale autorità (e autorevolezza) evidenziamo le ombre della vita di una persona, proprio nel giorno in cui essa si presenta al tribunale di Dio? “Chi di voi è senza peccato”, direbbe quel Giudice rivolgendosi al pubblico in aula, “scagli la prima pietra”. Requiescant in pace.

Autore: Paolo Bill Valente