Iniziare processi anziché possedere e difendere spazi

Dieci anni fa (24 novembre 2013) la pubblicazione di uno dei più importanti testi del pontificato di papa Francesco, l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Documenti (come Laudato si’, Fratelli tutti, Laudate Deum) che trovano ascolto ben al di là dei confini della Chiesa cattolica. Avviano processi di nuova cultura.

Negli stessi giorni, dieci anni fa (30 novembre 2013), prendeva via il sinodo della diocesi di Bolzano-Bressanone, su temi ai quali in gran parte aveva già dato input importanti (di contenuto e di metodo) il documento di Francesco. Spiegava, ad esempio, che “il tempo è superiore allo spazio”, perché c’è “una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti”. Il “tempo” è l’orizzonte che abbiamo davanti, lo “spazio” è lo spazio limitato e circoscritto del momento. Noi viviamo in tensione “tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae”.

Sapere che “il tempo è superiore allo spazio” ci “permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci”.

Parole importanti e criteri efficaci che consentono di verificare se in questi anni siamo riusciti a iniziare processi virtuosi o ci siamo avvitati su noi stessi, forse isteriliti, nello sforzo di occupare spazi o mantenerne il possesso.

Autore: Paolo Bill Valente

Beati (noi) poveri. Una giornata per cambiare prospettiva

La Giornata dei poveri si celebra in tutto il mondo questa domenica. Istituita da papa Francesco nel 2016, essa serve a ricordare che “fino a quando Lazzaro – ovvero il povero – giace alla porta della nostra casa, non potrà esserci giustizia né pace sociale”. Una verifica di fine anno che può portare a scelte di cambiamento.

Papa Francesco mette in guardia rispetto all’abitudine di considerare i “poveri” come semplice oggetto della beneficenza dei “ricchi”. “Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre a un vero incontro con i poveri e dare luogo a una condivisione che diventi stile di vita”.

Al centro non c’è la condizione di povertà, ma la persona che si incontra. Nell’incontro autentico entrambi, quelli che definiremmo il donatore e il beneficiario, si riconoscono “poveri”. Toccano con mano una grande verità: nessuno basta a se stesso. Ognuno ha bisogno degli altri. Se la povertà è una realtà condivisa, allora anche la ricchezza di doni porta naturalmente alla condivisione.
“Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce”. Uscire dalle certezze e comodità. “Non distogliere lo sguardo dal povero”.
Che la povertà sia un valore è un’affermazione che potrà far sorridere (o irritare) chi non sa o non vuole guardare le cose in profondità. Ma lo è, un valore: è la chiave necessaria a riprendere in mano la nostra vita e a vederla come un dono. Un dono da condividere.
Beati i poveri.

Autore: Paolo Bill Valente

Strategie miopi rendono sterile l’autonomia

La grande frammentazione delle forze politiche nel nuovo Consiglio provinciale si accompagna allo squilibrio nella presenza dei gruppi linguistici. Potrebbe non essere un problema se lo Statuto non prevedesse che la composizione della Giunta “deve adeguarsi alla consistenza dei gruppi linguistici quali sono rappresentati nel Consiglio”.

È compito delle istituzioni autonomistiche e di chi le governa fare in modo che i gruppi linguistici, in base ai quali è stata creata l’Autonomia, siano efficacemente rappresentati nel Consiglio provinciale. Altrimenti le norme che regolano la composizione della Giunta sono parole vuote e non se ne rispetta lo spirito originario.

La convivenza tra gruppi linguistici, culturali, religiosi o altro in un contesto democratico non può non fondarsi sulla partecipazione effettiva di tutti alla costruzione del bene comune. Del resto si tratta di un principio costituzionale: “È compito della Repubblica [nel nostro caso della Provincia ecc.] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Invece negli ultimi decenni la classe dirigente provinciale ha lavorato da un lato alla separazione dei gruppi linguistici (divide et impera), dall’altro all’indebolimento del gruppo italiano e a un’assimilazione (politica) del gruppo ladino. Come partner di coalizione non sono state cercate le persone maggiormente rispondenti a una strategia di sviluppo virtuoso dell’autonomia, ma piuttosto chi sembrava non voler intralciare la spartizione della torta nelle dinamiche del “sistema Alto Adige”. Questa strategia politica però è miope e a lungo andare mina l’Autonomia alle fondamenta.

La debolezza politica del gruppo italiano è forse il maggior elemento di criticità del nuovo Consiglio provinciale, della maggioranza che ne uscirà e del futuro della stessa Autonomia.

Autore: Paolo Bill Valente

Capaci di vivere insieme nelle differenze

Questa domenica 432.156 altoatesine e altoatesini sono chiamati a rinnovare col loro voto il Consiglio provinciale e, di conseguenza, la metà del Consiglio regionale. Si sono presentate 16 liste che propongono 488 candidate e candidati. Quale lettura del passato, del presente e del futuro danno queste forze politiche?

Ma possiamo davvero ancora parlare di politica, ovvero dell’arte di costruire insieme il bene comune? Il bene comune va definito tenendo conto del contesto. Se ci guardiamo intorno – ma ci guardiamo intorno noi abitanti del villaggio di Asterix? – che cosa vediamo?

A poche ore di macchina da noi infuria una guerra che da oltre un anno e mezzo mina gli equilibri geopolitici europei e globali e produce morti, feriti, profughi, distruzione, miseria. Prima che scoppiasse il conflitto in questa forma, esso era già presente nell’incapacità delle popolazioni di quelle terre di trovare le ragioni e i modi di una convivenza dai tratti umani.

Ai margini d’Europa, nel Nagorno Karabakh, un’intera minoranza etnica è stata costretta, sotto gli occhi impotenti e forse complici della cosiddetta “comunità internazionale” ad abbandonare la propria terra.

Al di là del nostro mare – divenuto peraltro il cimitero di decine di migliaia di disperati – si è infiammato un conflitto tra popoli che perdura da decenni e che ha le sue radici nell’incapacità del cosiddetto Occidente e della vecchia Europa di trovare soluzioni creative ed efficaci a una situazione che sempre sarà presente: la convivenza di diverse culture, lingue, tradizioni.

In questo contesto nel villaggio di Asterix il tema che papa Francesco ha definito “capacità di vivere insieme nelle differenze” è diventato un tabù. Anzi si fa appello – senza dirlo – alla compattezza etnica (Zusammenhalten), che sola avrebbe portato al successo dell’autonomia.

L’autonomia senza la valorizzazione delle differenze però è una parola vuota e la “capacità di vivere insieme nelle differenze” non si sviluppa e non si mantiene con gli appelli alla compattezza, ma con l’esercizio dell’ascolto e del rispetto e facendo sì che ognuno possa sentirsi/essere a casa. In Alto Adige come in tutto il resto del mondo.

Autore: Paolo Bill Valente

L’età dell’ascolto e delle buone relazioni

Se sono ottimista sono anche attivo. E l’essere attivo mi aiuta a restare ottimista, a guardare al futuro con realismo e senza troppa ansietà. È quanto emerge da un’indagine statistica sulla popolazione più anziana della provincia di Bolzano. Per vivere bene non serve molto: spesso bastano le buone relazioni. E l’ascolto.

La ricerca, svolta dall’Astat (Istituto provinciale di statistica dell’Alto Adige), dimostra innanzitutto che quelli che definiamo “anziani” sono per lo più donne e uomini attivi, né più né meno di tante altre categorie di persone.

La percentuale delle persone anziane classificate come “fragili”, ovvero non più autonome in modo “da moderato a grave”, escludendo chi vive in una residenza per anziani, è del 27 per cento. In maggioranza si tratta di persone over 85. Insomma, una gran parte dei nostri concittadini con più di 75 anni rappresenta una parte attiva della società. Non più sul piano del lavoro, ma certamente su quello della presenza, delle relazioni, in molti casi anche del volontariato e di molto altro.

Secondo l’indagine le persone anziane sono molto o abbastanza soddisfatte della loro famiglia per il 96 per cento. Nella graduatoria della “soddisfazione” (molto o abbastanza) seguono la situazione abitativa (molto 65, abbastanza 32), il tempo libero (molto 29, abbastanza 58), le amicizie (molto 27, abbastanza 59), la situazione economica (molto 24, abbastanza 58) e la salute (molto 23, abbastanza 53).

A proposito delle amicizie dall’“Indagine multiscopo”, condotta sempre dall’Astat durante il 2021, era emerso che solo poco più della metà delle persone con più di 65 anni ha “amici su cui poter contare”, contro il 75 per cento di tutti gli altri. Questo dettaglio mette in rilievo l’importanza delle relazioni in ogni età della vita.

Le indagini citate confermano soprattutto l’importanza delle relazioni familiari. Chi vive in un rapporto di coppia è normalmente più attivo e ottimista. E il 95 per cento delle persone anziane con figli afferma di ricevere da essi una qualche forma di aiuto. La prima forma d’aiuto ad essere citata e apprezzata è l’ascolto.

Autore: Paolo Bill Valente

Un grazie al prete in miniera, con la valigia in mano

Il 23 settembre ricorrono i trent’anni della scomparsa di don Giorgio Cristofolini. Lo ricordiamo come il “prete in miniera” e come fondatore e primo direttore del settimanale “Il Segno”. Ma fu di più: uno di quegli altoatesini che contribuirono, nel silenzio, a dare anima all’autonomia e a cui nessuno si sogna di dire grazie.

Don Giorgio chiamava operai e minatori “i miei professori”. Erano, diceva, gli “umili, che mi hanno insegnato l’amore alla giustizia e il valore della solidarietà”. Il suo lavoro di giornalista fu ispirato, anche grazie a loro, a due principi: mai soffiare sul fuoco dei nazionalismi (e di qualsiasi altra forma di egoismo collettivo); sempre dare voce a chi non ha voce.

Amico e collaboratore del grande vescovo Joseph Gargitter, suo compagno di strada nella realizzazione del sogno di una diocesi autenticamente plurilingue, era convinto che la chiesa altoatesina dovesse avere, nel contesto dell’autonomia (e non solo), uno spirito profetico. “È stato impegnativo finora lo sforzo per raggiungere la pacificazione”, scrisse poco prima di morire. “D’ora in avanti il compito è forse ancora più difficile. Deve umanizzare la politica e anche l’obiettivo della convivenza”. “Credo che la chiesa non possa restare indifferente davanti a una provincia il cui compito preminente sembra quello di distribuire denaro”.

Aggiunse: “Ammesso anche che il denaro venga distribuito con equità, mi sembra che non sia questo lo stimolo principale di un ente pubblico, ma sia piuttosto quello di inventare, ad esempio, forme di compartecipazione. Quello di trasformare la politica dei pochi nella politica dei molti, dei tutti possibilmente. Quello di sollecitare la gente ad assumersi le proprie responsabilità sociali e politiche e non ad essere semplicemente pecore. Mi pare che l’autonomia offra anche queste possibilità, che si devono sapere valorizzare bene. Questo sarà per la chiesa un compito non indifferente”.

A trent’anni da queste parole, un pensiero a don Giorgio, un grazie a lui e a chi ha agito come lui, con umiltà e nel silenzio, col solo orizzonte del bene comune. E tante domande.

Autore: Paolo Bill Valente

Zona di operazioni delle Prealpi: venti mesi in camicia bruna

Sono ormai pochi coloro che possono avere un ricordo personale dell’8 settembre 1943. E non sono troppi nemmeno quanti sanno davvero, per averlo sentito raccontare in famiglia o per averlo studiato a scuola, che cosa accadde (dopo) quel fatidico giorno di esattamente 80 anni fa.

La sera dell’8 settembre 1943 il capo del Governo Pietro Badoglio annuncia via radio la firma dell’armistizio con le potenze alleate. La reazione germanica è immediata. In Alto Adige le unità dell’esercito tedesco, già presenti in forze, intimano la resa ai militari italiani. Ci sono episodi di resistenza, una trentina di morti e diversi feriti. I soldati, fatti prigionieri, sono condotti a Bolzano e deportati nei lager oltre Brennero. Una parte della popolazione di lingua tedesca accoglie questa situazione con entusiasmo, credendo di vedere nell’ingresso delle truppe germaniche l’agognata liberazione da vent’anni di oppressione nazionale.

Il 10 settembre è istituita la Zona di operazioni delle Prealpi (Operationszone Alpenvorland) che comprende le province di Bolzano, Trento e Belluno. Essa appartiene formalmente all’Italia, ma è sottoposta all’amministrazione del Terzo Reich.

Pochi giorni dopo scatta la retata degli ebrei. A seguito delle leggi razziali italiane del 1938, la popolazione ebraica della provincia si era già molto ridotta. I più si erano trasferiti altrove e a Merano erano rimaste alcune decine di persone. Ventidue di esse (seguite poi da altre) sono arrestate dal SOD (Sicherheits- und Ordnungdienst) per ordine delle SS e avviate, il 16 settembre, ai campi di sterminio. È la prima tragica deportazione da territorio italiano.

Nella Zona è reintrodotta la lingua tedesca nelle scuole, negli uffici e nella toponomastica. A Bolzano si istituisce un tribunale speciale. I podestà e i principali funzionari pubblici sono rimpiazzati con uomini di fiducia del nuovo regime. La stampa, sia di lingua italiana che tedesca, subisce gravi restrizioni. I confini sono resi impermeabili. Si impone, in diverse forme, l’arruolamento di tutti gli obbligati al servizio di guerra per la vittoria finale del Reich. A Bolzano, nell’estate del 1944, si crea un campo di concentramento “di transito”.

Per l’Alto Adige venti mesi di buio. Si chiuderanno con le stragi di fine aprile e inizio maggio 1945 e con la prospettiva di un futuro incerto.

Autore: Paolo Bill Valente

Ogni libertà presuppone il rispetto della dignità personale

La libertà di espressione è riconosciuta e tutelata dalla Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ma c’è qualcosa che vale più di questo diritto. La verità dei fatti, ad esempio. E soprattutto: la dignità della persona.

Con una sentenza pubblicata pochi giorni fa la Corte di Cassazione ha confermato che “il diritto alla libera manifestazione del pensiero … non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità personale degli individui”. Il caso si riferisce al ricorso di un partito politico che aveva definito “clandestini” le persone richiedenti protezione internazionale. Espressione falsa, discriminatoria e diffamatoria.

La libertà di espressione è un diritto fondamentale conquistato col sangue. Proprio per questo va trattato con alto senso di responsabilità. Ci sono almeno tre modi per offendere la libertà di espressione.

Il primo è quello di negarla. Ciò avviene nei sistemi totalitari, nelle dittature, dove esprimere la propria opinione, ma anche solo fare onestamente il lavoro di giornalista, porta a conseguenze penali, a persecuzioni e persino alla morte.

Il secondo modo consiste nell’abusare di questo diritto. Ciò accade quando si ritiene di poter dire qualsiasi cosa, senza prima verificare che si tratti della verità (o sapendo che non lo è). Un conto sono le opinioni, altro l’uso distorto dei fatti raccontati in modo falso e tendenzioso. Oppure la pratica, sempre subdola, delle mezze verità per screditare qualcuno, per distruggerlo, per guadagnare voti o lettori.

Il terzo modo, infine, è quello di farsi scudo proprio dell’articolo 21 per dire “liberamente” bugie, mezze verità, allo scopo di diffamare il prossimo. Questa pratica, data la sacralità del diritto di espressione, equivale a una bestemmia. La “libertà” di dire qualsiasi cosa non è libertà, ma arbitrio, abuso, violenza, reato.

Autore: Paolo Bill Valente

L’Agenda 2030 è la nuova Arca di Noè

La Giunta provinciale ha annunciato la volontà, per l’Alto Adige, di “assumersi la responsabilità del futuro”. Si tratta di dare attuazione anche in sede locale all’Agenda 2030, pianificata a livello globale con 17 (e tanti altri) obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Presentato a Bolzano il “Piano Clima Alto Adige 2040”.

Gli obiettivi il cui raggiungimento è previsto in parte per il 2050, in provincia di Bolzano saranno attuati entro il 2040. Così viene dichiarato già nel nome del Piano. Sindrome da primi della classe? Ma no, questo bisogno di accelerare è riconosciuto, si dice, da “molti altri Paesi e Stati membri dell’UE”.

Vale la pena ricordare quali sono i 17 macro obiettivi da raggiungere (ognuno con una serie di sotto obiettivi): eliminare la povertà e la fame, garantire a tutti la salute, la formazione, realizzare l’uguaglianza di genere, garantire l’accesso all’acqua, all’igiene, all’energia pulita, promuovere un’economia sostenibile e la piena occupazione, infrastrutture resistenti, ridurre le disuguaglianze, rendere le città e le comunità sicure, inclusive, resistenti e sostenibili, garantire modelli di consumo e produzione sostenibili, agire con urgenza per combattere il cambiamento climatico e il suo impatto, salvaguardare i mari, proteggere gli ecosistemi terrestri, promuovere pace e giustizia e la collaborazione globale.
“Non pretendiamo di salvare il mondo, ma dobbiamo, vogliamo e possiamo assumerci la responsabilità della nostra sfera di influenza”, ha dichiarato il presidente Arno Kompatscher. E ha aggiunto: “Raggiungere gli obiettivi climatici è una sfida enorme, ma non è un’opzione o una questione di ambizione, bensì un nostro dovere: il dovere di tutti i cittadini della terra”.

Si potrebbe dire che invece sì, si tratta proprio di salvare il mondo. Gli obiettivi dell’Agenda 2030 non nascono perché tutti si sono improvvisamente svegliati attenti al prossimo e all’ambiente, ma perché se non ci sarà un cambio di rotta il pianeta è spacciato e così i suoi abitanti. E non è nemmeno solo un “dovere” sotto il profilo etico (naturalmente è anche questo), ma una necessità. L’Agenda 2030 è una specie di Arca di Noè.

Due brevi osservazioni. Per andare nella direzione annunciata da agende e piani non basta fissare obiettivi, va creata una nuova cultura (innanzitutto una cultura politica lungimirante) che metta al bando gli individualismi, altrimenti ogni anche piccolo cambiamento incontrerà resistenze insuperabili. Per raggiungere gli obiettivi non basta metterli nero su bianco: servono gli strumenti per raggiungerli. Cultura e concretezza. Bene comune. Non solo parole.

Nazionalismo (di altri tempi?) tradotto in pratica

Cent’anni fa, il 15 luglio del 1923, nel teatro civico di Bolzano, l’attivista nazionalista Ettore Tolomei elencava in un famoso discorso i 32 provvedimenti per l’italianizzazione dell’Alto Adige. Le misure, fatte proprie dal Gran Consiglio del Fascismo, furono attuate, qualcuna più, qualcuna meno, nei due decenni successivi.

I provvedimenti prevedevano una provincia unica con sede a Trento (cosa che fu superata nel 1927), la nomina di segretari comunali esclusivamente di lingua italiana, e il licenziamento di funzionari tedeschi o il loro trasferimento verso altre province, l’impedimento a persone di lingua tedesca di entrare, soggiornare o migrare in Alto Adige, l’introduzione dell’italiano come unica lingua ufficiale, lo scioglimento di organizzazioni politiche e alpinistiche di lingua tedesca.
Altri punti programmatici: il divieto dei nomi “Tirol” e “Südtirol”, la chiusura del giornale di lingua tedesca “Der Tiroler”, l’italianizzazione dei toponimi tedeschi e il divieto dell’uso di questi ultimi, l’italianizzazione delle iscrizioni pubbliche tedesche, dei nomi tedeschi delle strade e dei cognomi (misura poi attuata in modo limitato). La rimozione del monumento dedicato al poeta Walther von der Vogelweide da piazza Walther a Bolzano (al suo posto fu installata una statua del re d’Italia).
Si prevedeva ancora l’incentivo all’immigrazione e all’acquisizione di terre in provincia per persone di lingua italiana, la promozione di lingua e cultura italiane, l’istituzione di scuole materne, elementari e secondarie italiane. Andava rafforzata la presenza militare, controllato l’influsso straniero sugli affari interni, limitata la presenza di banche d’oltre Brennero, sviluppate le vie di comunicazione con il resto d’Italia.
A cent’anni di distanza, quando tutto questo sembra un lontano ricordo, è però bene fare memoria. Tolomei non era isolato con le sue idee. Esse furono semplicemente la declinazione, nella realtà del momento, della mentalità nazionalista che aveva prodotto la Grande Guerra e portato alla Seconda. E che non è affatto sparita dal continente europeo (e nemmeno dal Sudtirolo).

Autore: Paolo Bill Valente