Siamo tutti stranieri?


In provincia di Bolzano parlare di stranieri non è mai stato né semplice né facile. Per riordinare un po’ le idee e metterci nei panni di coloro che ci hanno raggiunto di recente, per un motivo o per l’altro, abbiamo pensato di farci aiutare da un sociologo: Adel Jabbar.

Adel Jabbar è un appassionato di storia e geografia approdato alla sociologia per comprendere la dinamica dell’agire umano in rapporto allo spazio e al tempo. Questa passione lo ha condotto a fare ricerca nell’ambito dei processi migratori e della comunicazione interculturale. Libero docente e collaboratore di istituzioni accademiche nell’ambito del pluralismo culturale e religioso, ha insegnato in diversi atenei e ha partecipato a diverse ricerche e numerose pubblicazioni nell’ambito dell’immigrazione. Redattore della rivista “Il Cristallo” (BZ) è curatore di molteplici eventi cinematografici e artistico-letterari.

L’INTERVISTA

Spesso tendiamo a pensare socialmente all’Alto Adige come ad un unicum a livello mondiale. Questo come se nel resto del mondo i territori, a differenza che da noi, fossero tutti caratterizzati dalla presenza di un unico popolo e un’unica lingua. Siamo davvero unici? Siamo un’isola?

Ecco: partiamo da qui. Secondo me neanche un’isola è… isolata. è infatti accarezzata dall’acqua, dalle onde, dalle varie tempeste e dai venti. Poi basta che pensiamo a Robinson Crusoe di Defoe: l’isola è un vero e proprio mondo, fatto di tante cose, e poi lui incontra Venerdì; non è solo. Parlando dei movimenti migratori mi capita di fare riferimento spesso alla mia storia: io sono nato infatti a Baghdad, che oggi si trova in Iraq. Noi abbiamo sedimentato nella nostra percezione l’idea che molti eventi della storia più antica dell’uomo si siano svolti proprio lì in quella zona. Poi ci sono Adamo ed Eva, le prime due persone, entrambi migranti, extraterrestri. A ben vedere anche loro sono stati catapultati, da irregolari, nel giardino dell’Eden. Queste storie raccontano quello che è tipico delle specie viventi in grado di camminare, essere umani ma non solo. Siamo il prodotto di processi di trasformazione, di lunghi percorsi e – in definitiva – lunghissime camminate. Il fatto di viaggiare è rimasto nell’indole dell’essere umano, oggi lo facciamo per motivi turistici, di lavoro, di studio, di esplorazione. La nostra passione per cavalli, bici, moto, treni e aerei, auto sportive…, nasce da qui. La nostra indole è nel movimento. Se partiamo dall’idea che il movimento è la sostanza della storia e della nostra esistenza, dove sta allora la nostra famosa unicità?

In provincia di Bolzano da un certo punto di vista gli “italiani” vedono i “tedeschi” come “stranieri”, ma anche i sudtirolesi vedono gli “italiani” allo stesso modo. Poi “italiani” e “tedeschi”, insieme, vedono gli immigrati come “stranieri”. La stessa cosa naturalmente la fanno gli immigrati che – a loro modo e partendo dalla loro esperienza e provenienza – vedono “noi” come stranieri. In sostanza: in un modo o nell’altro qui siamo tutti stranieri…

Sì, e questo è un vantaggio perché in questo modo le persone continuano a interrogarsi. Questo atteggiamento naturalmente può portare sia ad un’apertura che a una chiusura nei confronti degli “altri”. Interrogarsi richiede energie, anche psichiche, in un processo che non tutti sono in grado di affrontare, guardando altri orizzonti e incontrando cambiamenti. Gli essere umani hanno bisogno anche di certezze, che sono legate alle abitudini. E lì nasce un problema esistenziale: da una parte c’è la necessità e il diritto (libertà) di cambiare, dall’altra le certezze da preservare.

Sì, e bisogna riuscire a trovare un equilibrio tra queste due dimensioni. E per fare questo ci vuole anche e soprattutto un lavoro pedagogico. Ma chi lo svolge?

La scuola? La politica? I vari attori e le varie agenzie nella società?

Una volta si parlava soprattutto della scuola e dei suoi educatori. Oggi non credo che sia più così. Una volta si pensava che la scuola avesse anche lo scopo di “formare”, ma anche delimitare lo spazio di manovra della mente. In ogni caso la scuola ha anche sempre fornito degli strumenti. Attraverso letture, conoscenze, una spinta a guardarsi intorno, la scuola è stata senz’altro un’agenzia di socializzazione fondamentale anche nel guidare la trasformazione della società. Ma oggi molte altre realtà competono con la scuola, da questo punto di vista.

In Alto Adige la scuola ha anche la caratteristica peculiare di essere monolingue, a fronte di una popolazione che nasce con due diverse madrelingue d’origine, ma che poi si vorrebbe tutta magicamente plurilingue.

Noi viviamo in un contesto che ha una storia particolare e dove da un certo punto di vista è legittimo che un gruppo che si sente fagocitato, cerchi di tutelare il proprio patrimonio linguistico e culturale. Ma anche qui è una questione di equilibrio tra le certezze da preservare e il cambiamento che è ineluttabile. Gli equilibri vanno mantenuti, ma anche prodotti, e devono comunque essere anche sempre “aggiustati”. Naturalmente in questo senso anche la politica gioca un ruolo fondamentale.

Come vivono gli stranieri in Alto Adige? è una terra amica dei migranti?

Per molti quella di emigrare è una necessità. E sto parlando di motivi di lavoro, non di profughi di guerra o esiliati. La maggior parte della migrazione oggi è spinta da necessità materiali. Si parla di migranti economici, ma spesso le motivazioni possono anche essere ambientali o legate ai diritti. Le motivazioni a volte sono molteplici e coincidono. Ma non tutti quelli che hanno un bisogno poi partono, sono solo alcuni quelli che lo fanno. Questi alcuni sono animati dal desiderio di affermarsi in qualche modo, si tratta di un bisogno personale. Vanno verso una “terra promessa”, ma che in realtà non è stata promessa a nessuno. Arrivare in una terra non promessa implica già in partenza la necessità di fare i conti con le proprie illusioni. La vita del migrante per motivi di lavoro non coincide quasi mai con le proprie aspettative. Quando un immigrato arriva in provincia di Bolzano trova un contesto in cui si parlano due lingue invece che una, entrambe necessarie per sopravvivere e accedere alle varie opportunità disponibili. Quando arrivano in Alto Adige gli immigrati devono rapportarsi con un’area di confine che ha una storia particolare e delle persone che hanno delle sensibilità che partono da memorie storiche diverse tra loro. Al migrante tocca vivere questo e non è mai facile. Dobbiamo ricordarci che, per un migrante, l’approdo non è mai la soluzione del problema, ma solo il primo passo. Di un lungo processo di interazione che possiamo chiamare in tanti modi: integrazione, inserimento, inclusione… Per molti aspetti si vivono rinvii e lunghe attese. E nell’emigrazione isolarsi a volte è anche una forma di protezione, rispetto all’esporsi in un tessuto sociale per il quale spesso non si hanno tutti gli strumenti necessarie per affrontarlo.

Sì. Ad essere vissute ci sono poi due diverse realtà, quella materiale e quella “affettiva”.

Sul piano materiale ovvero del mercato del lavoro direi che la maggior parte dei migranti in Alto Adige trovano una soluzione. Ma, appunto, si tratta solo di un tassello della vita. Per il resto le persone tendono a voler coltivare le certezze che hanno acquisito nel paese d’origine.

Stiamo parlando di un background culturale, della propria storia nel paese d’origine, di una lingua, una religione, aspetti che continuano tutti ad essere coltivatati in qualche modo, individualmente oppure in gruppo… magari annacquando un po’ la cosa con il passare degli anni.

è una dimensione affettiva appresa dalla famiglia e dal vicinato nel paese d’origine. Sono aspetti fondamentali per la vita delle persone che, tra l’altro, è difficile ricostruire in maniera solida nel nuovo luogo in cui si va a vivere. A volte agli immigrati una certa separazione è dunque necessaria, anche per riuscire a gestire il difficile rapporto con l’ignoto. Con il tempo poi la situazione cambia.

Cambia in che modo?

Si instaura un rapporto tra memoria e progetto. La memoria è relativa al bagaglio che si ha dentro, il progetto è invece quello che si deve costruire. C’è quindi un adattamento, che qualcuno chiama aggiustamento identitario. Preferisco non usare il sostantivo “identità”, perché è meglio focalizzarsi sulla strategia che viene messa in atto. L’aggiustamento avviene poi su diversi piani: lavoro, dimensione abitativa, riconoscimento sociale e culturale, ecc.

Probabilmente non siamo consapevoli di queste dinamiche che ogni immigrato in un modo o nell’altro deve attivare. Tendiamo magari invece a vedere solo l’aspetto religioso come preponderante. Da qui l’idea stereotipata dello straniero che in via esclusiva rivendica la sua religione e, magari, vuole anche imporcela…

Il discorso religioso a mio parere viene strumentalizzato. La religione oggi in Alto Adige non viene più vissuta così intensamente, ma questi temi sono ancora in grado di colpire le sensibilità. Se ci sono degli immigrati di religione cattolica, non è che questo li aiuti più di tanto a livello di riconoscimento sociale. E quando gli italiani a suo tempo sono emigrati in Germania non è che lì abbiano ricevuto chissà quale riconoscimento in quanto cattolici. La stessa cosa vale anche in Alto Adige. Qui entrambi i gruppi linguistici sono cattolici, ma questo ha aiutato nella costruzione della convivenza?

Eh già. All’interno della diocesi i due gruppi linguistici vivono divisi quasi al 100%, nella pratica dei riti e nella vita comunitaria.

In giro per il mondo ci sono un sacco di conflitti e spesso la religione non è determinante. Ad esempio oggi gli Ucraini, ortodossi, sono in guerra con i Russi, ortodossi pure loro. E pensare che a suo tempo l’evangelizzazione della Russia partì proprio da Kiev.

Il mondo musulmano viene visto come una cosa unica e in realtà ad essere sotto la lente sono soprattutto una serie di aspetti culturali: il ruolo della donna, una certa idea di famiglia…

I modelli si evolvono, sia nella terra d’origine che nella versione riveduta e corretta nella terra d’emigrazione. Io eviterei le generalizzazioni, perché non aiutano. I modelli di famiglia poi sono molto diversi tra loro, non solo tra le varie comunità che si richiamano all’Islam, ma anche all’interno delle stesse comunità. Il vissuto religioso di per sé è molto diverso tra Marocco e Bangladesh, Senegal e Iran, Afghanistan e Tunisia, Indonesia e Pakistan, solo per fare alcuni esempi. E la cosa vale anche per i cattolici. Tra un cattolico svizzero e uno dell’Uganda, tra uno del Brasile e un altro delle Filippine, ci sono grandi differenze, no? Le regioni poi vengono interpretate dalle singole persone. E le persone non sono clonate. Se fosse così noi a Bolzano saremmo tutti uguali, e invece… I riferimenti valoriali sono diversi e non per nulla c’è una dialettica, che spesso può anche generare contrapposizioni. Quando siamo partiti in questa conversazione il tema era la presunta unicità dell’Alto Adige. Io parlerei invece di specificità. Ecco: quella c’è senz’altro.

Qual è la nostra specificità?

Non siamo molto condizionati dalla concetto di stato/nazione e questo concetto è legato alla specificità di solo alcuni paesi occidentali. Ma in realtà se andiamo a vedere ad esempio la Francia, che noi tendiamo a vedere come uno degli stati più “compatti”, in realtà anche lì ci sono mille

sfumature legate ai territori d’oltremare e ai moltissimi cittadini che provengono dalle colonie.

Dal punto di vista politico gli immigrati quale realtà sentono più vicina?

Probabilmente le istituzioni territoriali più piccole. Tant’è vero che in consiglio comunale a Bolzano sono presenti ben quattro consiglieri con background migratorio. Non è una situazione frequente e tra l’altro nessuno di loro fa riferimento a partiti di sinistra, notoriamente molto più attivi sulle politiche pro immigrati.

Probabilmente hanno costruito il loro consenso anche e soprattutto attraverso i loro rapporti con i non immigrati.

Proprio così. E non dobbiamo dimenticare che anche nelle comunità d’origine ci sono diversi orientamenti politici, che gli immigrati portano con sé nella loro nuova realtà.


Luca Sticcotti

Astronauta o pensionato


Bolzanino classe 1976, Ivan Marini ha studiato sassofono, strumentazione per banda e direzione di banda. Insegna sassofono alla scuola Archimede di Bolzano e dirige l’orchestra della scuola, ma gli piace anche suonare strumenti diversi, aggiustarli, comporre e arrangiare musica. Da quindici anni dirige la banda Mascagni di Bolzano.

La cosa di me che mi piace di più.

Quando mi decido a darmi da fare, le cose mi vengono piuttosto bene.

Il mio principale difetto.

L’analfabetismo nei rapporti sociali (per fortuna qualcuno ancora mi sopporta…).

Il mio momento più felice.

Sono marito felice e padre orgoglioso di due figlie, la risposta è scontata!

Da bambino sognavo di diventare…

Astronauta o pensionato. Ripensandoci oggi, da piccolo non capivo molte cose!

Il capriccio che non mi sono mai tolto.

Spendere senza pensarci su.

Le mie occupazioni preferite.

Lavorare, perché i miei lavori mi piacciono. E soprattutto ridere con la mia famiglia!

Il luogo dove vorrei vivere.

In una casa di legno costruita con le mie mani.

Non sopporto…

Mentitori, millantatori e imboscati. E molti altri…

Per un giorno vorrei essere…

Un mago.

Se fossi un animale sarei…

Un gufo.

Sono stato orgoglioso di me ogni volta che…

Ho imparato qualcosa di nuovo.

Dove mi vedo fra 10 anni.

A studiare.

Tre aggettivi per definirmi.

“Orso” non è un aggettivo, ma lo metto. Poi testone e ritardatario. E autocritico.

Il mio film preferito.

Per piangere: “ET”, il primo film visto al cinema. Per ridere: “The Blues Brothers”.

I superpoteri che vorrei avere.

Volare, diventare invisibile e saper dire di no.

La disgrazia più grande.

Soffrire da soli.

L’errore che non rifarei.

Ce ne sono molti, purtroppo tendo a collezionare rimpianti. Ciò che li accomuna è un mix micidiale tra lentezza e incoscienza.

Del mio aspetto non mi piace…

Praticamente nulla, ma va bene così.

Il “passaggio” dedicato a don Cristofolini

“Passaggio Don Giorgio Cristofolini”: collega via Alto Adige a piazza Duomo. Nato in quel di Arco (TN) il 28 aprile 1922, da sacerdote sin dal 1946 si impegnò per i lavoratori; fu cappellano degli operai della centrale elettrica di Predazzo e della diga di Travignolo. Dal 1950, inviato in Alto Adige, fu assistente spirituale delle ACLI e cappellano dei cantieri. Fu per 25 anni a fianco degli operai dei cantieri edilizi delle centrali idroelettriche, delle cave e delle miniere dell’Alto Adige; con la sua vecchia auto, ma anche a piedi, si recò in località montuose e con difficili condizioni, tra neve e pioggia, esercitando il suo apostolato in diverse valli dell’Alto Adige. Esercitò il suo sacerdozio ma fu attivo anche nel ruolo di assistente sociale dei lavoratori dei vari cantieri, abruzzesi, calabresi,… con i quali si stabilì un rapporto di affezione. Nel 1965 il vescovo Joseph Gargitter gli affidò la direzione del nuovo settimanale diocesano “Il Segno”. Gli operai dei cantieri, riconoscenti per l’impegno a loro favore, gli donarono un calice, che l’ex cappellano dei cantieri finché visse alzò al cielo nelle S. Messe, ricordando gli anni delle miniere. Nel 1970 fu nominato anche responsabile del neonato Ufficio stampa diocesano. Don Giorgio soggiornava nella Casa del Giovane Lavoratore, in via Castel Weinegg; appuntamento domenicale per 25 anni fu la S. Messa delle 8 presso la chiesa di S. Paolo. È del luglio 1993 il suo ultimo articolo di fondo; la sua salute man mano declinava; ricoverato all’ospedale di Rovereto, saputo della presentazione del libro “Un prete in miniera”, intervista autobiografica, due ore prima di morire disse al suo grande amico Giorgio Pasquali ”Domani salutami tutti”. Morì la notte del 24 settembre 1993. Alle sue esequie a Vigo Cavedine partecipò una rappresentanza della parrocchia bolzanina di San Paolo; il Coro San Paolo esaudì la sua richiesta di cantare l’inno da lui amato, alla Madonna di Czestochova (Madonna nera).

Leone Sticcotti

Rita Chiaromonte: l’impegno per la scuola anche oltre la scuola


Maria Rita Chiaromonte è stata insegnante, dirigente scolastica e ispettrice per l’integrazione. Ha collaborato al Nucleo operativo del Comitato di valutazione del sistema scolastico. Per l’Università di Bolzano è stata docente a contratto presso la Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario per l’insegnamento della Didattica Speciale. Dopo il pensionamento, in seno al Soroptimist International d’Italia, è tornata ad occuparsi di scuola e in particolare del dilagante problema del Bullismo e del Cyberbullismo, creando con altre esperte materiali che potessero essere di sostegno alle famiglie oltre che ai docenti.

Come siete arrivate a creare un gruppo di lavoro sul bullismo?

Il Soroptimist ha creato un gruppo di lavoro formato da soggetti della società civile: esperte del settore, psicoterapeute e psicologhe, funzionarie delle forze dell’ordine, genitori, magistrate, dirigenti scolastiche, docenti, studenti.

Il vostro gruppo di lavoro ha creato anche del materiale informativo?

Il Club Soroptimist International si è impegnato a realizzare un’agile guida intitolata Contro il Bullismo e i Cyberbullismo, rivolta essenzialmente a genitori e insegnanti. Nella seconda parte compaiono le domande dei genitori e le risposte delle psicoterapeute. Nella terza parte vi sono le testimonianze toccanti dei ragazzi vittime di bullismo.

Cosa è il bullismo?

Il bullismo è una forma di comportamento aggressivo e prepotente caratterizzato da intenzionalità, sistematicità e asimmetria di potere Il bullismo può essere fisico, verbale

o psicologico.

Che cos’è il cyberbullismo?

Il cyberbullismo o bullismo digitale è una forma di aggressività sociale molto pericolosa perché, sfruttando la tecnologia, internet e i social media può diventare più veloce, pervasiva, diffusa, distruttiva e anonima. Si giunge velocemente alla public shaming, che è l’umiliazione pubblica di un individuo.

Quali sono i ruoli nel bullismo?

Il bullismo è un fenomeno di gruppo e sei sono i ruoli identificati: il bullo/la bulla, l’aiutante del bullo, il sostenitore del bullo, la vittima, il difensore della vittima, l’esterno.

Il bullismo è un comportamento solo maschile?

Da sempre il bullismo è stato trasversale ai generi ma a partire dal 2019 il bullismo al femminile ha avuto un vistoso aumento.

La scuola può contrastare il bullismo e il cyberbullismo? Come interviene?

I doveri dei dirigenti scolastici e degli insegnanti – in quanto Pubblici Ufficiali – sono in primo luogo l’elaborazione e l’utilizzo del “Il Protocollo di prevenzione del bullismo e del cyberbullismo”, documento indispensabile che viene condiviso con i genitori. Molto importante è anche l’istituzione del Team Antibullismo costituito dal dirigente scolastico e dai referenti per il bullismo-cyberbullismo, dall’animatore digitale e da altre professionalità presenti all’interno della scuola (psicologo, pedagogista, operatori).

Se tali risorse non fossero sufficienti?

Il dirigente scolastico, l’insegnante, il genitore, l’educatore devono attivare senza ritardo le autorità competenti: i Servizi minorili, le Forze di Polizia e l’Autorità Giudiziaria attraverso: modalità quali la segnalazione, la denuncia, la querela, l’ammonimento.

Cosa si intende per segnalazione?

La segnalazione è un atto redatto da qualsiasi persona o istituzione che sia venuta a conoscenza di una situazione lesiva o pericolosa per la salute psichica o fisica di un minore con cui si comunica ai Servizi Sociali, a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria o all’Autorità Giudiziaria una preoccupazione relativa alla situazione di pericolo per uno studente.

Cos’è la “denuncia”?

È la segnalazione obbligatoria con la quale il Pubblico Ufficiale rende noto all’Ufficiale di Polizia Giudiziaria o all’Autorità Giudiziaria un fatto che può costituire un reato perseguibile.

Cos’è la “querela”?

È uno strumento che prevede un “richiamo” da parte dell’Autorità di Pubblica Sicurezza all’autore di cyberbullismo. Si può presentare al Questore la richiesta di ammonire uno o più minori (di età compresa tra 14 e i 18 anni non compiuti), autori delle condotte sopracitate.

Pensieri dal bosco 2


Primavera e quarantacinque giorni d’estate – quella meteorologica inizia il 1° giugno – sono risultati particolarmente piovosi, tanto che i nostri amati boschi scintillano di tutti i tipi di verde. La terra è bagnata e scura ed emana quell’intenso profumo di humus. Dopo essere tornato dalla Liguria, ho perlustrato zone piuttosto impervie e poco battute, a bassa quota, intorno agli 800m, fino a raggiungere i 1300m.

Le ricerche e le determinazioni che mi sono appuntato sono avvenute a scopo puramente personale, ergo senza l’uso di lenti di ingrandimento, libri, chiavi, senza l’ausilio del microscopio e dei reagenti. Considerate le T notturne lievemente sotto media per la prima decade del mese e che, di solito, non si palesano crescite abbondanti, come avviene in autunno, ho optato per inerpicarmi lungo versanti esposti a sud di bosco termofilo misto, in cui bastano le giuste ore di sole per stimolare il micelio (con precipitazioni abbondanti). Generalmente per termofilo s’intende un bosco di quercia, cerro, castagno, faggio o di caducifoglie miste, purché situato in area riparata, ben soleggiata e a microclima caldo; in Alto Adige, patria egemone del peccio (e del bostrico, sigh), queste fasce boschive miste si trovano solo lungo parti di una isoipsa ben definita, che non supera i 1100/1400 metri di quota a seconda delle zone e all’esposizione dei versanti, al netto di esemplari solitari di latifoglie a quote appena superiori, eccezion fatta per le betulle. Naturalmente a querce, cerri e caducifoglie miste, pressoché assenti, o presenti in preziose e sparute nicchie, da noi c’è il bellissimo pino silvestre (tana prediletta della processionaria, sigh); ma, a quote di montagna, di bosco a microclima caldo ne troviamo ben poco. Questa multi-varietà di specie, tra abeti, pini e latifoglie, che dopo l’epidemia di bostrico, dovrebbe divenire più costante, preservando gli abeti sopravvissuti e aumentando la biodiversità, avrà pure il pregio di incrementare le specie fungine simbionti o micorriziche, legate al singolo albero. Peraltro, a titolo informativo, tutte le specie arboree e le loro quote ideali di crescita valgono per la zona alpina, che però aumenta di altitudine quando scendiamo di latitudine. Tra le specie fungine osservate troviamo: Russule virescens, aurea, vesca, cyanoxantha, Agaricus augustus, Boletus aestivalis o reticolatus, Neoboletus praestigiator, Tylopilus felleus, Amanita gemmata, Suillus grevillei (larice), Caloboletus calopus, Infundibulicybe gibba, Laetiporus montanus, Amanita rubescens, Marasmius alliaceus (latifoglia), Mycetinis scorodonius (abete) e l’inconfondibile marea gialla dei Cantharellus pallens.

Donatello Vallotta

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Insalata di ceci, tonno e avocado

Ingredienti

250 g ceci secchi

160 g tonno sott’olio sgocciolato

1 avocado

80 g pomodori secchi sott’olio o freschi

1 cucchiaio prezzemolo tritato

Preparazione

1. Se non usate i ceci precotti mettete a bagno quelli secchi in una terrina con acqua fredda. Devono riposare una notte. Al mattino scolateli, sciacquateli e lessateli in abbondante acqua salata. In pentola a pressione ci vorranno circa 30 minuti dal fischio. Raddoppia i tempi in una pentola normale.

2. Tagliate a metà l’avocado maturo. Privatelo del nocciolo e tagliatelo a cubetti. Metteteli in una terrina con i ceci lessi e fatti raffreddare. Unite il tonno sgocciolato e i pomodori secchi o freschi.

3. Guarnite l’insalata con il prezzemolo tritato, condite con olio a crudo, sale e pepe

4. L’avocado unitelo però all’ultimo momento.

5. Potete conservarla un paio di giorni in frigo.

q.b. sale e pepe

4 cucchiai olio extravergine d’oliva

Flavio Delladio e i Rolling Stones, una relazione di lungo corso


Non è proprio un disco appena uscito ma, lo ammettiamo, ci era sfuggita questa nuova eccellente produzione del chitarrista bolzanino: Flavio Delladio Band suona i Rolling Stones.

A dispetto del titolo, non si possono relegare band e disco nel pur dignitoso (ma non sempre) mondo delle cover band; oltre a rispettare lo spirito delle canzoni originali senza stravolgerle, il titolare ci mette del suo negli arrangiamenti. Dalle nostre parti sono davvero in pochi, oltre a lui, a conoscere davvero a fondo la musica dei Rolling Stones, sono meno delle dita di una mano e questi sono i loro nomi: Marco (il fratello di Flavio), Bobbi Gualtirolo e Agostino Accarrino. Per il resto, adattando un vecchio detto napoletano, il diritto di eseguire una cover dei Rolling Stones e una laurea in legge, non si negano a nessuno!

Da qui a fare una cover rollingstoniana come si deve però, la strada e lunga. Lunga come la frequentazione di Delladio con la musica del gruppo.

“Effettivamente è cominciato tutto un sacco di tempo fa – ci racconta l’artista –, con mio fratello Marco ascoltavamo non solo gli Stones, ma prevalentemente loro erano la nostra passion. A dodici anni circa abbiamo cominciato a voler fare una band che suonasse solo Rolling Stones, così sono nati i Tumbling Dice, il cui nome veniva ovviamente dal titolo di un brano dei nostri beniamini. Eravamo proprio piccoli, ma avevamo quella musica dentro, li ascoltavamo giorno e notte.”

Dei Tumbling Dice facevano parte il maggiore dei fratelli Delladio, Alessandro, un Mario Punzi quasi bambino, il bassista Sandro Garbin e il cantante Sandro Fonte. Ricordiamo un mitico concerto del gruppo a fine 1983, in un teatro tenda allestito in viale Trieste davanti allo stadio Druso. Flavio e Marco, con le loro chitarre avevano la stessa presenza scenica di Keith Richards e Ronnie Wood, mentre Fonte citava a piene mani il Mick Jagger ginnico di quegli anni. A parte il maggiore dei Delladio, gli altri erano ancora tutti minorenni.

“Questo disco è davvero un ritorno alle origini – prosegue Flavio –, perché prima o poi si ritorna lì dove tutto era cominciato. E non è un caso che nella mia band da qualche anno ci siano di nuovo Sandro Garbin e Sandro Fonte. Dal suonare ancora con loro due alla decisione di fare il disco, il passo è stato davvero breve. Poi, il nostro repertorio è fatto anche di altre cose, ma l’idea di dedicare un disco a questa musica ci è parso bello”.

E non si può dargli torto, il disco suona bene, ci sono giustamente quelle canzoni dei Rolling Stones di atmosfera country, che funzionano perfettamente con quello che il gruppo suona dal vivo, ma ci sono anche accostamenti al blues e a ballate come Angie e Wild Horses, interessante l’arrangiamento di Country Honk, in cui Delladio rifà col dobro la parte che nell’originale era stata affidata al violino di Byron Berline e interessanti sono anche alcuni duetti vocali tra Delladio (che rimane la voce principale) e Fonte. Uno dei pregi del prodotto è che né Delladio né Fonte tentano di scimmiottare Jagger al canto, e nell’uso della chitarra il capobanda ci mette sempre il proprio stile. Nel disco però, e la cosa è ben evidenziata in copertina, oltre alla Band di Flavio (che si completa con il percussionista Victor Santos e la chitarra ritmica di Roby Massa) ci sono anche una mezza dozzina di session man di grido, qui chiamati i Giganti del Rock Italiano, gente che ha suonato con Zucchero e Vasco Rossi, con gli Stadio. La produzione è di quel Simone Olivetti che recentemente ha preso parte anche al disco di Mirko Giocondo.

“L’amicizia con questi musicisti – ci spiega Delladio – è di lunga data. Ho cominciato a frequentare alcuni di loro quando lavoravo in duo col bassista Pasquale Neri, e sono sempre rimasto in contatto con loro. Sono tutti presenti nel primo brano del CD: Gallo Golinelli suona il basso, Adriano Molinari la batteria, Fabrizio Foschini degli Stadio è alle tastiere, Andrea Cucchia al sax e Cicci Bagnoli alla chitarra. Io, ovviamente, canto e suono la solista”.

È notizia dell’ultima ora che la Flavio Delladio Band sarà uno dei tre gruppi che si contenderanno questo weekend nella piazza principale di Rovigo, il titolo di miglior gruppo blues italiano e la possibilità di rappresentarci all’International Blues Contest di Memphis!

Debutto perfetto per il contest musicale


Sono i “Carpa and Band”, da Trento, i vincitori del il HoE Contest 2024, un concorso per gruppi musicali e solisti emergenti autori e interpreti di musica originale andato in scena nel corso della Sagra del pesce di Bronzolo. Alla Pinara Thomson. Secondo classificato Dirlinger, da Cattolica, e terzo Deghejo da Treviso.

La Cooperativa Sociale Home Of Expression (HoE) di Laives promuove la musica e l’arte in generale, dando spazio a chi cerca un modo per esprimersi e sensibilizzando sulla tematica sociale; l’obiettivo principale è di aiutare i giovani talentuosi ad emergere, fornendo loro un supporto reale per sviluppare la propria musica.

Presentate da Chiara Sartori, venerdì 12 luglio a Bronzolo si sono esibite sette band provenienti da tutta Italia, con la presenza di giurati di talento, tra cui Claudio Pisoni, Eva Massardi, Martina Capovin, MardRe e Katia Tenti.

Inoltre sono state create opportunità per i partecipanti del concorso di esibirsi in altre località italiane grazie alla collaborazione tra associazioni e cooperative simili a HoE Contest in tutto il paese. Il progetto inoltre ha offerto un podcast curato da Tommy Roses, che ha fornito supporto e feedback ai partecipanti del contest.

Il progetto principale di HoE per quest’anno si chiama “Cultivate your Passions”, progetto ideato da Ruben Sadei (presidente del Centro Giovanile Flowers) che ha unito le forze di alcune associazioni e cooperative locali per sensibilizzare sui temi sociali rivolti ai giovani dai 13 ai 25 anni. L’obiettivo è utilizzare le loro passioni ed interessi per avvicinarsi ai giovani e offrire loro un ambiente guidato e attento per esprimere la loro creatività e passione. L’evento è stato una grande occasione per chi desiderava condividere la propria passione per la musica in un ambiente di socialità e relazione.

Inoltre la Sagra del Pesce ha offerto l’opportunità di provare la cucina locale per tre giorni consecutivi e la possibilità di diventare volontari nell’organizzazione del progetto. HoE Contest 2024 e la Sagra del Pesce hanno dimostrato l’importanza di unire le forze tra associazioni e cooperative per promuovere la musica e la cultura locale.

La Chiesa evangelica del Salvatore sulle Passeggiate Lungo Passirio


Il 7 febbraio 1876 il governo viennese concedeva il permesso di dar vita a una Comunità evangelica a Merano e costruire una vera e propria chiesa. Ora spettava ai membri della Comunità realizzare questo sogno, iniziando col reperire fondi, sovvenzioni e dando vita ad una raccolta di offerte fra i residenti, gli ospiti di cura e i benefattori vicini e lontani. In capo a pochi anni la Comunità riuscì ad accumulare la considerevole cifra di 50.000 fiorini.

Un terreno, conveniente per il prezzo ma soprattutto per la posizione, fu reperito nella zona di espansione ottocentesca lungo l’allora Stephanie Promenade, molto vicino alla Gisela Promenade, il centro della mondanità cittadina. Il 20 gennaio 1882 fu indetta una gara per il progetto rivolta agli architetti tedeschi ed austriaci. Fra le caratteristiche imprescindibili, volute dalla Comunità, c’era la considerazione che la chiesa sarebbe stata frequentata soprattutto da malati di tubercolosi e bisognava quindi facilitare gli ospiti nei movimenti, lasciare un ampio corridoio nella navata per le sedie a rotelle, evitare giochi di corrente d’aria, offrire sedili comodi e un pavimento caldo. I posti a sedere dovevano essere 250, mentre, a misura igienica, si richiedeva di lasciare uno spazio di un metro tra le bancate.

Per quanto riguardava invece l’aspetto esteriore dell’edificio, esso non doveva risultare fastoso. Alla Commissione giunsero ben dodici progetti e furono scelti i tre giudicati più interessanti. La Comunità decise poi di affidare i lavori al secondo classificato, l’architetto Johann Vollmer di Berlino, assistente di uno degli architetti più importanti di chiese evangeliche e a sua volta esperto di costruzioni sacre e profane. Per seguire in loco i lavori la Comunità cittadina caldeggiò il nome del capomastro Adolf Leyn, correligionario ed esperto del settore per aver lavorato alla costruzione di una chiesa ad Hannover e per aver costruito alcune ville private a Merano. Il 6 ottobre seguente si procedette alla cerimonia della posa della prima pietra e due anni dopo, il 13 dicembre 1885, la chiesa poté essere consacrata al Salvatore.

All’interno, la decorazione lignea a rilievo dell’altare e del pulpito fu affidata al noto Franz Xaver Pendl, che si occupò anche del corpo del Cristo in croce. La finestra nell’abside, che rappresenta Gesù come il buon pastore fu realizzata insieme alle finestre della navata sud nel 1885 da una bottega di Monaco di Baviera. Il fonte battesimale di marmo policromo con foggia neogotica, dono dell’imperatore tedesco Guglielmo I, aveva trovato posto in posizione privilegiata proprio davanti l’altare. Sulla facciata, subito sopra l’ingresso mancava la figura del Cristo benedicente, ma il bozzetto realizzato dallo scultore Fuchs non piacque e l’idea di affidare l’opera ad Emanuel Pendl non trovava risposta nei conteggi finanziari e si decise quindi di rimandare. Certo l’attesa non fu brevissima: passarono infatti dieci anni, quando nel febbraio del 1896 si commissionò una statua di un Cristo benedicente, sul modello di quello più famoso del Thorwaldsen, alla società della cava di Lasa, che consegnò il pezzo nella primavera del 1897.