“Riprendiamoci Sinigo”


Tre giorni di festa per promuovere la partecipazione degli abitanti di Sinigo e tematizzare criticità ed esigenze del quartiere: dal 29 al 31 agosto andrà in scena Paloo Fest il festival di rigenerazione urbana promosso dal Centro giovani Tilt e dall’associazione La Strada-Der Weg. In programma ci sono concerti, mostre, mercatini e workshop. Ecco alcuni dei suoi protagonisti. 

// Di Roberta Catania

Fra i tanti attori della Paloo Fest ci sono i volontari dell’associazione Magari, che collabora con il team organizzativo del festival per sensibilizzare su una cultura di sostenibilità e di sharing. 

Chi siete?

Siamo un’associazione culturale con sede a Merano che intende creare luoghi d’incontro, di scambio di conoscenze, sperimentazione e produzione culturale nei quali condividere esperienze, differenze e desideri. Promuoviamo, affrontiamo e indaghiamo tematiche sociali, culturali e ambientali, attraverso l’arte e il design, organizzando attività di sensibilizzazione, partecipazione, didattica, co-progettazione, networking e ricerca, con un approccio transdisciplinare per tessere nuove relazioni.

Qual è stato il vostro progetto rigenerante su Sinigo? 

Abbiamo progettato un orto comunitario come spazio per il quartiere dove coltivare piante, ortaggi e relazioni. Immaginato e costruito in modo partecipativo, questo progetto di un anno include laboratori e momenti ludici ed educativi, con l’obiettivo di trasformarsi in un orto permanente per la comunità. Insieme al gruppo del Centro Giovani Tilt, creiamo momenti di esperienza comunitaria, attività didattiche socializzanti e sperimentali, basate sull’ educazione informale.

Che vuol dire per voi costruire un orto di comunità?

Auspichiamo che la presenza dell’orto crei un legame forte tra la comunità e l’ambiente locale. Costruire un orto di comunità, per noi, significa creare un bene comune. L’orto unisce piante e persone in una comunità vivente, favorisce l’inclusione sociale e stimola la partecipazione attiva nelle famiglie e di chi abita questo luogo.

Che ricadute sperate possa avere su Sinigo? 

Ci auguriamo che l’orto di comunità possa crescere, diventare una risorsa permanente ed  espandersi per tutta la località di Sinigo. Ci immaginiamo che diventi un posto non solo per fare crescere ortaggi ma per sentirsi comunità.

L’azione di semina per voi ha a che fare con “Cultura, comunità e trasformazione”, ovvero il sottotitolo del festival?

Certamente! Faremo un workshop di orto in cassetta per chi è interessato. La semina sarà la continuazione del nostro fare, poiché ogni piccolo gesto contribuisce a una trasformazione che guarda al futuro. Ci teniamo a collegare i vari linguaggi della cultura, sostenendo le differenze, la libertà di espressione e l’equità, creando così interazioni etiche, sostenibili e sociali per la comunità.

Come pensate risponda la popolazione di Sinigo?

Ci lasciamo sorprendere, sicuramente che ci saranno persone che hanno voglia di mettersi in in gioco in modo collaborativo, solidale, rigenerante e aperto.

Ultima domanda: prossimi orti urbani?

Orti comunitari disseminati ovunque!

GUERRILLA SPAM

Due collettivi artistici arrivano in residenza a Sinigo e realizzeranno opere artistiche sotto gli occhi attenti degli abitanti e dei passanti. Uno di questi sono i Guerrilla Spam.

Se doveste presentarvi al pubblico meranese, come vi definireste?

Facciamo arte negli spazi pubblici dal 2010. Abbiamo iniziato in modo spontaneo attaccando dei manifesti sui muri di Firenze senza alcun progetto di lunga durata, poi, con il tempo, il progetto si è strutturato e oggi facciamo muralismo come affissioni, installazioni e performance. Abbiamo lavorato in spazi eterogenei dalle strade ai musei, dalle scuole ai centri sociali, sino alle comunità o alle carceri.

La streetart è sempre una forma artistica dibattuta, voi però avete sempre l’obiettivo di calarla nel contesto territoriale…

Cerchiamo sempre di fare ricerca in modo da lavorare in ogni contesto in modo differente. Usare un linguaggio adatto serve per arrivare al pubblico; questo non vuol dire che si debba andargli troppo incontro, è sempre necessario tenere l’asticella alta facendo arte in modo accessibile ma anche in modo complesso, talvolta criptico. Dopo una ricerca iniziale dedichiamo tempo sul posto per conoscere il luogo e i suoi abitanti e spesso i bozzetti pensati a distanza vengono modificati arricchendosi di qualcos’altro. Ogni territorio ha esigenze differenti e cerchiamo di mettere sempre in discussione il nostro metodo e i nostri linguaggi reinventandoci all’occorrenza. 

Cosa porterete a Sinigo?

Cercheremo di realizzare due interventi differenti, un dipinto murale permanente che rimarrà agli abitanti, e una performance più estemporanea che creerà un installazione particolare, quasi “aliena”, con lo scopo di occupare lo spazio in modo differente cercando di coinvolgere le persone che passeranno di lì…

Il sottotitolo del festival è “Comunità, Cultura e Trasformazione”: cosa significa, nel vostro lavoro?

Con le comunità lavoriamo sempre, che siano queste di un paesino o di una metropoli, la classe di una scuola o una casa di richiedenti asilo; la cultura (sia quella “alta” che quella più “bassa”) cerchiamo sempre di inserirla nei nostri lavori, a più livelli di comprensione, in modo che questi siano solo il tramite per scoprire nuove cose. E la trasformazione è quello a cui ambiamo sempre: mai essere statici, fermi, nella vita come nello stile artistico, mutare sempre e sapersi adattare e reinventare, essere diversi da come si era prima ma non per rinnegare qualcosa solo per aggiungere altro.

Progetti futuri? 

Ne abbiamo molti in parallelo (come sempre!). Continueremo a studiare l’arte rupestre e faremo escursioni per cercarla e osservarla, dipingeremo nuovi muri cercando di essere sempre più essenziali e simbolici, scriveremo un libro o forse due, impareremo nuove cose e chissà poi cosa succederà.

MIRKOEILCANE

Mirko Mancini, cantautore romano, classe 1986, in arte Mirkoeilcane ha fissato il Paloo Fest tra le sue tappe di un tour nazionale molto fitto. Candidato al Premio Tenco nel 2016, vincitore di Musicultura nel 2017, calca il palco sanremese nel 2018, vincendo anche il Premio Mia Martini. A Sinigo lo si è voluto per la sua autenticità, le sue vibrazioni vere e attente all’ascoltatore, nonché per la sua attenzione alla prossimità. 

Come ti definiresti come artista?

Alla stessa maniera in cui mi definirei come essere umano: coerente e leale. Rimango fedele alla mia curiosità e non rincorro le mode del momento.

Quali sono le tue influenze musicali? A cosa ti ispiri?

Non saprei scegliere due o tre nomi. Mi piace la musica da ascoltare, quella suonata bene, da musicisti bravi e appassionati. Mi piacciono le canzoni quando si portano dietro un messaggio da condividere, una storia da raccontare che possa essere universale. Non ascolto la musichetta fatta per accompagnare gli aperitivi e non ascolto le canzonette in cui si tralascia completamente il valore della parte testuale.

Sinigo sarà una delle tappe del tuo tour estivo “La Musica contemporanea mi butta giù”: vuoi dirci di più di questo tuo progetto musicale? Perché ti butta giù questa musica contemporanea?

Mi butta giù perché si vuole far credere che basti un computer e un’intelligenza artificiale per scrivere musica. Mi butta giù perché si trattano gli ascoltatori come fosse un’indagine di mercato per vendere un paio di scarpe alla moda. Ci si dimentica di quanto sia importante studiare e rispettare la musica. Questo disco parla un po’ di questo e un po’ di vite normali, quelle in cui si mangia una pizza senza postarla su un social.

Cosa vuoi portare di te e della tua musica in questo rione che ha voglia di rinascere e di ricevere le attenzioni giuste per risentirsi comunità? 

Quelli in cui si sta vicini al pubblico sono i miei concerti preferiti. Sono molto contento di poter partecipare in piccolissima parte al processo di rinascita di Sinigo e spero che, anche così lontano da casa mia, qualcuno possa riconoscersi in una delle storie che racconto nelle canzoni.

“Cultura, comunità, trasformazione”: che cosa significano per te? 

La base di una società sana. Le avrei scritte nello stesso ordine. La cultura e l’arte sono le fondamenta su cui si costruisce una comunità felice e attenta che non si accontenta dell’informazione di massa ma rimane curiosa e critica. La trasformazione, a queste condizioni, è un processo continuo e inevitabile.

Progetti futuri?

Non smettere mai di portare in giro la mia musica e il mio messaggio. Scrivere almeno altri 28 album. Essere felice.

Autrice: Roberta Catania

ll 9 luglio ci ha lasciati Pierluigi Mattiuzzi

Meranese assai noto negli ambienti legati all’arte, alla psicanalisi, alla filosofia orientale, è stato un interessante esempio di personalità istrionica dove l’arte era molto più che immagine, colore, forma. In lui l’arte era specchio di un’anima inquieta, curiosa e libera, capace di introspezione, e terreno nel quale avevano germinato le culture orientali che, studiate a fondo e metabolizzate, in lui convivevano con tanto della saggezza occidentale. I suoi dipinti sono un difficile intrico di pensiero, fantasia, volo,  presenze, rimandi, narrazioni antiche e bisogni moderni.

Tenuto sempre in considerazione dai meranesi, nel 2015 fu scelto per la mostra dedicata ad un artista nell’ambito del trentennale delle Settimane Musicali Meranesi che trovò luogo nel Pavillon des Fleurs.

Pierluigi Mattiuzzi,  figlio di un perito industriale che si era occupato delle centrali idroelettriche in Piemonte e poi in Val Venosta era nato a Domodossola e aveva trascorso l’infanzia a Malles. A Merano aveva frequentato il liceo classico Carducci, in quegli anni una vera fucina di idee e di presa di coscienza politica e dei tempi che cambiavano oltre che delle tensioni legate al 68. Aveva poi frequentato Sociologia a Trento, noto epicentro della rivolta studentesca e delle istanze politiche più rivoluzionarie. A Merano sul “muretto” lo si vedeva spesso e la politica era il tema principale. Seguirono i nove anni in India che lo arricchirono di nuove istanze filosofiche aggiungendo alla sua già ricca personalità il fascino dello sciamanesimo.

Tutti questi trascorsi, queste esperienze, questi miti letterari e non si riverberano nelle sue tele e nei suoi colori. Importantissimi i suoi totem. Divinità, demoni, si tratta di sculture di grandi dimensioni capaci di mantenere l’effetto bidimensionale e di avere un grande impatto sul fruitore, grandi più di un uomo esse si impongono con forza nell’ambiente che le accolgono. Acrilici e resine su tavole di grandi dimensioni, affollati di segni da vedere in dettaglio per scoprire alla fine che allontanandosi il dipinto muta e il soggetto prodotto da quella moltitudine di piccolissime forme danno vita ad un importante unico essere dai caratteri apotropaici. Grandi occhi sgranati, fauci ferine, bocche digrignate e denti aguzzi. Mani e piedi si distaccano e prendono vita per qualche istante prima di ricadere nell’insieme. Sogni o incubi? Viaggi fantastici nel proprio io o negli abissi dell’umanità.

Sono sperimentazioni degli anni Ottanta i computer-graffiti che mettono in movimento le presenze dei suoi quadri al ritmo di un track musicale da lui scelto. Una ulteriore testimonianza del suo modo di vivere sempre “il qui e adesso”.

Autrice: Rosanna Pruccoli

AIDO: un sì per la vita


Nel corso del 2023 in Italia sono stati eseguiti quattromila trapianti d’organo e duemila donazioni, un record, ma non è ancora abbastanza. I pazienti in attesa di un trapianto sono oltre ottomila, restano troppi i “no” alla donazione. Sono troppi i cittadini italiani in lista d’attesa per un trapianto che potrebbe salvare loro la vita. Vediamo com’è la situazione in Alto Adige. 

Remo de Paola, nato e residente a Bressanone, di professione Ingegnere Civile libero professionista, è presidente al secondo mandato della sezione provinciale dell’AIDO (l’Associazione Italiana Donatori di Organi-tessuti e cellule). Oggi faremo due chiacchiere con lui per conoscere meglio l’associazione e per parlare dell’intensa attività di AIDO nel promuovere sul territorio la cultura della donazione degli organi “post mortem”, per informare e sensibilizzare la cittadinanza su questa importante tematica socio-sanitaria, come pure dell’attuale situazione in Alto Adige ed in Italia per quanto riguarda donazioni, trapianti, lista d’attesa e dichiarazioni di volontà.

Come ha deciso di diventare presidente di AIDO Alto Adige?

Sono ormai da molti anni donatore iscritto all’AIDO e la mia avventura all’interno dell’Associazione ebbe inizio circa un decennio fa, quando fui eletto presidente del gruppo AIDO di Bressanone, divenendo membro anche della sezione provinciale. Quattro anni fa fui nominato presidente provinciale, carica che dura appunto quattro anni, e quest’anno in aprile sono stato riconfermato per il prossimo mandato quadriennale.

Chi lavora in AIDO?

Il gruppo è fondato completamente da cittadini volontari che si battono per la questione e decidono di aiutarci. Senza il lavoro volontario gratuito da loro prestato sarebbe davvero difficile portare avanti la nostra missione. Recentemente è stato rinnovato anche il direttivo sia nella Sezione Provinciale, sia nei Gruppi Comunali di Bolzano e di Bressanone che resteranno in carica fino al 2028, con riconferme e nuovi preziosi innesti, tutti collaboratori volontari.

Quando è stata fondata l’associazione?

L’AIDO nasce a Bergamo nel 1973, da un solerte gruppo di volonterosi ed è da lì in avanti che sono nate numerose sezioni comunali e provinciali, tra cui quella di Bolzano poco meno di cinquant’anni. Si sono costituiti poi via via i gruppi comunali quali: Bolzano, Bressanone oltre quarant’anni fa e anche quello della Val Venosta. Attualmente la nostra sede si è spostata presso il centro Premstraller in via Dolomiti 14, in locali funzionali forniti dal Comune di Bolzano.

Qual è la vostra missione?

Il compito principale della nostra Associazione è quello di sensibilizzare la popolazione sull’importanza della volontà di donare (soprattutto post mortem) gli organi per possibili trapianti. Ci occupiamo di diffondere la cultura della donazione: nelle piazze, nelle scuole, e in tutti i luoghi in cui sia possibile, affinché tutti vengano sensibilizzati sull’importanza del dono, con particolare attenzione alle nuove generazioni. 
Provvediamo alla raccolta, per quanto di competenza, di dichiarazioni di volontà favorevoli alla donazione di organi, tessuti e cellule post mortem e promuoviamo stili di vita sani atti a prevenire l’insorgere di patologie che possano richiedere come terapia il trapianto di organi.

Perché un sì può fare la differenza?

Perché rispondere sì alle richieste di adesione alla volontà di donare? La risposta seppur complessa è in realtà molto semplice: più donatori potenziali consentono al sistema dei trapianti di poter avere più donazioni e quindi di poter potenzialmente effettuare più operazioni che salvano vite, altrimenti destinate a sicura morte (salvo alcuni casi ove la tecnologia supplisce per esempio con dialisi).

Come siamo messi in Italia per quanto riguarda il numero di donazioni e trapianti?

L’Italia si pone all’avanguardia in Europa per numero di donazioni e di trapianti; siamo secondi solo alla Spagna. Le strutture situate su tutto il territorio nazionale si adoperano, seguendo severi protocolli sanitari internazionali, a far si che i trapianti abbiano successo. Le persone in Italia in attesa di trapianto sono oltre 8.000, a fronte di circa 3.400 trapianti effettuati.

Quanti possibili donatori sono presenti nella nostra regione?

Non è noto il numero esatto di persone in lista d’attesa nella provincia di Bolzano, ma di certo si sa che i donatori iscritti AIDO hanno superato la cifra di 15.000 persone. È importante citare il lavoro delle anagrafi comunali che consentono di scrivere sulla carta d’identità la propria volontà al dono; per non parlare dell’attività di altre benemerite Associazioni.

Questo numero come può essere aumentato?

L’AIDO, riconosciuto dal Ministero della Sanità come parte attiva della campagna di sensibilizzazione, ha come obiettivo minimo quello di equilibrare il numero delle donazioni con quello delle richieste, un compito non facile! Molte persone, per i più disparati motivi, non ritengono di dover aderire e questo pone la nostra Associazione nelle condizioni, ove possibile e senza mai forzare in alcuna maniera le singole volontà, di far capire l’importanza di un gesto di immenso peso che potrebbe salvare altre vite.

Con i trapianti come ce la caviamo nella città Bolzano?

La città di Bolzano, presso l’ospedale San Maurizio, ha un reparto dedito ai trapianti, anche se poi le operazioni vengono eseguite in centri specializzati, quali il centro trapianti della clinica universitaria di Innsbruck, grazie alla stretta collaborazione specialistica (e qui devo spendere parole di elogio al sistema sanitario dell’Alto Adige). Altri centri in Italia sono in contatto al fine di rendere possibile in tempi brevissimi i prelievi e quindi i successivi trapianti.

Cosa direbbe alle persone che decidono di non aderire ad un programma di donazione post mortem?

Non ritengo di dover fare appello alla coscienza dei cittadini, ma mi permetto solo di ricordare quante persone, concittadini ed altoatesini, sono in grado di vivere una vita “normale” grazie alle persone che hanno scelto di donare. Il sottoscritto ha potuto personalmente capire il valore di cosa significhi quanto sopra detto, perché se la propria figlia continua a vivere una vita normale, è proprio perché, grazie ad un anonimo donatore, ha ricevuto due nuovi polmoni sani, senza i quali la sua vita sarebbe terminata senza speranza di guarigione.

Autore: Niccolò Dametto

Gli altoatesinosudtirolesisi sentono italiani o tedeschi?


Almeno una volta nella vita – ma di solito molto di più – ogni altoatesinosudtirolese ha dovuto rispondere all’interrogativo: ma tu, ti senti più italiano o più tedesco? Una domanda che fa il paio con lo stupore di chi apprende che in Alto Adige vivono persone per le quali l’italiano non è la lingua materna.

C’è chi solleva tali questioni in malafede, come lo fanno gli stolti con ogni cosa di valore che possa essere insozzata (la famose perle da non dare “ai porci”). Ma tanti lo chiedono in buona fede e non sempre, l’altoatesinosudtirolese, ha riflettuto a sufficienza per poter dare una risposta sensata, corretta, storicamente e giuridicamente fondata. Ma cosa denotano queste domande (e certe risposte)?

Un primo aspetto è l’incapacità di distinguere tra il piano giuridico e quello culturale. Non è colpa del singolo, ma di quelle classi dirigenti che hanno inventato l’idea di “nazione” come elemento attorno al quale coagulare sentimenti, emozioni, rivendicazioni. Uno strumento ideologico che ha causato guerre terrificanti? Pazienza.

Se lo Stato (che è una realtà giuridica) coincide con la “nazione” (che è un concetto ideologico, il quale presuppone, tra l’altro, una lingua comune) allora tutto ciò che non appartiene alla “nazione”, non è nemmeno dello Stato. Le persone “altre” vanno espulse oppure assimilate. È avvenuto in passato e avviene nel presente.

Un secondo aspetto è la scarsa conoscenza della storia. Va detto che i cittadini non sono tenuti a conoscere a menadito la storia di ogni angolo del Paese. Nemmeno gli altoatesinosudtirolesi conoscono la loro quanto dovrebbero. Ma allora due cose: informiamoci meglio e finché non l’abbiamo fatto (attenzione, costa fatica) evitiamo di pronunciare giudizi.

La classe dirigente e la classe politica ci danno una mano? Ovvero sanno usare le parole in modo adeguato e raccontare la storia con cognizione di causa? Purtroppo, no. Prevalgono l’ignoranza e la strumentalizzazione.

Ma non è stato sempre così. I Padri costituenti, ad esempio, introdussero nella Costituzione, all’articolo 6, un principio fondamentale: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Con questo ci danno due messaggi. Il primo: le minoranze linguistiche sono parte integrante della Repubblica (che, a differenza della “nazione”, esiste davvero). Anzi, sono un patrimonio da tutelare (per il bene di tutti). Il secondo: prevedendo che col tempo ignoranza e malafede avrebbero prevalso, hanno messo al sicuro questo principio, dando alla questione una tutela di rango costituzionale (cioè, a prova di propaganda e di populismo).

Ma ci sentiamo italiani o tedeschi (e i ladini, e gli “altri”?)? Verrà il giorno (forse) in cui sorrideremo di questa domanda.

Autore: Paolo Bill Valente

La strada dedicata a Bruno Buozzi


L’arteria che da via Volta arriva fino a via  Altmann è dedicata a Bruno Buozzi. Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1882, trovò lavoro a Milano, alla Marelli, poi alla Bianchi. Non trascurava lo studio, leggendo di tutto, anche dopo le 10-12 ore di lavoro. Nel 1905 si iscrisse alla Fiom e aderì al Psi; del sindacato divenne presto membro del direttivo, nel partito si impegnò nella corrente riformista di Filippo Turati. Respingendo la violenza come mezzo di lotta politica, abbracciò l’ideale della gradualità delle conquiste sindacali. Eletto nel 1920 alla Camera per il Psi, rieletto nel  1921, seguì Matteotti e Turati nel nuovo Partito Socialista Unitario, nelle cui liste fu rieletto deputato nel 1924. Nel dicembre 1925, pur essendo perseguitato dal regime, divenne segretario generale della CgdL. Dovette però rifugiarsi in Francia, dove si prese cura dell’anziano leader socialista, Filippo Turati, il quale morì il 29 marzo 1932 proprio nella casa parigina di Buozzi. Arrestato dai tedeschi il 1° marzo 1941, Buozzi fu trasferito, con il collega sindacalista Giuseppe di Vittorio, prima in Germania poi in Italia. Fu confinato per due anni a Montefalco (Perugia). Liberato il 30 luglio 1943, formatosi il governo Badoglio, Buozzi fu nominato commissario dell’Organizzazione dei lavoratori dell’industria. Il 10 settembre 1943 fu con Sandro Pertini a Porta San Paolo, per contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma. Ma Roma fu occupata, e Buozzi rientrò in clandestinità, sotto il falso nome di Mario Alberti. Sorpreso dalla polizia fascista e fermato per accertamenti il 13 aprile 1944, nella prigione di via Tasso fu scoperta la sua vera identità. Il suo nome fu incluso dalle SS in un elenco di 160 prigionieri da evacuare; l’autocarro con Buozzi si fermò all’alba del 4 giugno presso la località “La Storta”. Rinchiusi in una rimessa, nel pomeriggio Buozzi e altri tredici furono brutalmente sospinti in una vicina valletta per essere uccisi ciascuno con un colpo alla nuca.

Autore: Leone Sticcotti

Peter Burchia: un cantautorecon chitarra e pennello


Ci aveva lasciati a bocca aperta Peter Burchia, quando a metà del 2022 se ne è uscito con un 33 giri (sì proprio un disco in vinile, come per dare più valore al progetto) che col titolo di Look Back si è rivelato uno dei più bei dischi realizzati in Alto Adige da quando i musicisti di questa regione hanno cominciato a registrarne. Non stiamo esagerando, Look Back, oltre ad una storia incredibile e unica per quanto riguarda la sua realizzazione, è davvero un disco incantevole, fragile e solido al tempo stesso, senza fronzoli ma con una forza unica, tutto realizzato nell’atelier in cui Burchia vive e realizza i suoi dipinti. Già, perché parallelamente all’attività musicale, Peter porta avanti un’interessante carriera nel campo della pittura.

“Sono due cose che non posso scindere – ci racconta –, nella mia vita ho bisogno che ci sia spazio per entrambe, anche se talvolta la pittura ha il sopravvento. È il motivo per cui alla fine degli anni dieci avevo lasciato gli Shanti Powa: la vita col gruppo non mi consentiva di dedicarmi alle cose mie, tour e concerti erano davvero impegnativi”.

Così il nostro ha scelto di proporsi come musicista di strada, suonando ed esibendosi principalmente quando ne aveva voglia, viaggiando, dipingendo e assemblando i brani finiti poi nel disco di cui sopra. Nel frattempo, un po’ per colpa della pandemia un po’ per le scelte personali dei suoi componenti, gli Shanti Powa, pur rimanendo in auge, hanno diradato l’attività live e Peter ne è ora tornato a far parte da un paio d’anni (è tra l’altro sua la splendida copertina del loro terzo album, Til’ Insanity). In attesa di un nuovo lavoro del gruppo, che potrebbe concretizzarsi il prossimo anno, Peter ha messo per breve tempo in stand by i pennelli per uscire, nello scorso luglio, con un nuovo lavoro, stavolta su musicassetta, dimostrando di prediligere i vecchi sistemi all’insipido digitale, ovunque imperante.

“L’ LP mi aveva portato via molto più tempo – prosegue Peter – sia per la composizione che per la registrazione. Stavolta è stato più veloce, i brani erano solo due e ho cercato di farli in maniera più tradizionale possibile. Sono due brani praticamente acustici, ho messo da parte il computer e per registrarli, visto che per la diffusione ho scelto la musicassetta, li ho registrati direttamente su quel tipo di supporto, collegando il registratore al mixer. La musicassetta sta vivendo un periodo di riscoperta, seppur di nicchia, ma la maggior parte di coloro che pubblicano la loro musica in questo formato, lo fanno registrando digitalmente. Io ho voluto essere analogico il più possibile. È evidente che dal punto di vista dell’audio ci si perde, ma questo mi ha permesso di fare il sound che volevo”.

Nella fattispecie i due brani che appaiono rispettivamente sui due lati della musicassetta, uscita per la Riff Records di Paolo Izzo con mastering di Jürgen Winkler, “avrebbero potuto figurare bene anche sul vinile del 2022, solo che – spiega l’autore –, sono venuti dopo. Avrebbero potuto anche attendere un nuovo disco ma, spesso mi accade che se non fisso subito l’idea, rischio di perderne l’immediatezza e il mood cambia. Il brano che intitola la cassetta, The Rain, l’ho scritto in Senegal nel 2021, quando, zaino in spalla ero partito da Bolzano per andare a trascorrere in quel paese tutto l’inverno. Per quanto riguarda la grafica, è opera mia: l’idea di base è che quando do a qualcuno un mio prodotto mi piace che sia un po’ un pezzo unico, così in questo caso ho fatto in modo che le copie stampate del nastro abbiano tutte una copertina differente. Ho fatto una serie di disegni e ritagliandoli, da ognuno ho ricavato dieci diverse copertine”.

Per quanta riguarda il futuro, per ora nei progetti di Peter ci sono la pittura e gli Shanti Powa, sul tornare a suonare per strada, l’artista non esita ad esprimere un certo scetticismo:

“Devo essere sincero – conclude – mi è un po’ passata la voglia, non escludo di tornare a farlo se cambierà qualcosa, per ora la città Unesco della musica ha dei regolamenti assurdi per quanto riguarda gli artisti di strada, i cosiddetti busker. Per noi non sembra esserci spazio. Una revisione dei regolamenti cittadini è in progetto, staremo a vedere, certo che come stanno le cose adesso non ho proprio voglia di essere visto come un criminale per il fatto che mi esibisco in questo modo”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Immigrazione: nuovi volti e vecchi luoghi

Martedì 10 settembre alle ore 17.30 presso la Biblioteca Claudia Augusta di Via Cappuccini a Bolzano avrà luogo la presentazione aperta al pubblico (ingresso libero e gratuito) del nuovo volume edito da alphabeta, dedicato all’universo dell’immigrazione in provincia di Bolzano. La presentazione del libro vedrà la partecipazione del curatore Adel Jabbar in dialogo con Giorgio Mezzalira (storico).

Da circa tre decadi l’Alto Adige/Südtirol è divenuto meta, non solo area di transito, di movimenti migratori e luogo di residenza per persone provenienti da numerosi Paesi del mondo. Enti locali, associazioni, istituti di ricerca e soggetti privati si sono attivati in diversi ambiti non solo per dare risposte ai bisogni primari di una particolare fascia di popolazione in continuo aumento, ma per individuare percorsi finalizzati all’inserimento dei nuovi cittadini nel tessuto sociale e nella vita quotidiana. Sono maturate così interessanti riflessioni volte a mettere a fuoco da un lato le dinamiche migratorie in quanto tali, dall’altro le trasformazioni determinate dal loro impatto sugli equilibri di una comunità autoctona che ha di per sé marcati connotati storici e culturali. Questo volume a più voci offre uno sguardo interdisciplinare e multiprospettico, e illustra un ampio ventaglio di approcci e interventi che hanno caratterizzato la gestione dell’immigrazione sul territorio provinciale, indagando la situazione attuale ed evidenziando le problematiche che rimangono fatalmente aperte: dal quadro normativo alle politiche d’inclusione o di malcelata discriminazione, dai processi partecipativi ai problemi sanitari e abitativi, dal mondo del lavoro e della scuola a luoghi e iniziative interculturali, fino alle sfide poste dalla seconda o terza generazione di cittadini con background migratorio. Tra modelli innovativi di integrazione e puri “effetti tampone” prodotti dalle perduranti logiche dell’emergenza – che tuttora guidano l’Europa, i governi nazionali e, a caduta, le amministrazioni locali – il “sistema Alto Adige”, fondato di per sé sulla convivenza etnica, mostra alcune aree di eccellenza, ma anche difficoltà e ritardi che riflettono l’assenza di una vera strategia davanti a un fenomeno globale del nostro tempo.

Con contributi di: Ana Agolli, Gianni Bertoncello, Licia Casagrande, Giusy Diquattro, Salvatore Falcomatà, Luigi Gallo, Marina Gousia, Barbara Gramegna, Mari Jensen-Carlén, Roberta Medda-Windischer, Johanna Mitterhofer, Rita Moreschini, Tanja Nienstedt, Matthias Oberbacher, Sophia Schönthaler, Hilary Solly, Verena Wisthaler, Giorgia Zogu.

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Una palestra a cielo aperto e… gratis

Un altro pezzo del progetto portato avanti dalla passata amministrazione comunale a favore soprattutto dei giovani, ma non solo, ha visto di recente la luce. Dopo la sistemazione e l’ampliamento della pista da skate, sono apparsi ora presso l’area sportiva Galizia di Laives anche degli attrezzi da fitness nuovi di zecca, per poter svolgere attività fisica all’aperto gratuitamente. 

Da anni, in molte aree urbane dell’Alto Adige si lamenta una carenza di spazi di aggregazione per i giovani. Da qui è nato il progetto dell’assessorato al sociale e ai giovani dell’appena trascorsa amministrazione comunale, guidato a suo tempo dall’assessora Claudia Furlani, con l’intento di riqualificare l’area sportiva Galizia, ampliando lo spazio e le attrezzature a libera disposizione di tutta la cittadinanza che desideri farne uso. L’occhio di riguardo va appunto proprio ai giovani – dando quindi spazio a attività meno “istituzionali” come il calcio, che già si pratica proprio a Galizia – ma rimanendo comunque in un ambito per così dire controllato. L’installazione nei mesi passati della pista per lo skate, gestita nella manutenzione e utilizzo dal Centro Don Bosco,  ha infatti dato un buon riscontro in termini di presenze da parte dei giovani e si spera ora – almeno in coincidenza con il calo delle temperature roventi di questo periodo – di poter dire altrettanto dell’area fitness. 

Il progetto prevede inoltre – proprio per rimanere in tema di temperature – anche la piantumazione di alberi, per favorire l’utilizzo dell’area anche nei periodi più caldi. Ma non è tutto. Sempre più gettonata tra i più giovani è infatti la pratica del “Pumptrack”, una attività sportiva che si pratica lungo un circuito ondulato con paraboliche, percorribile con mountain bike, skateboards, Bmx, rollerblades e monopattini. 

Ciò che rende particolare tale attività fisica è l’uso della spinta del corpo, “pompando” quindi il movimento senza l’ausilio di piedi o pedali – da qui anche il nome. Accanto alla pista da skate e agli attrezzi dovrebbe quindi prendere vita nei prossimi tempi proprio questa novità, con una particolarità in più: l’installazione è stata affidata ad una coppia di giovani laivesotti, che provvederanno a realizzare la pista in materiale plastico riciclato al 100 per cento, ideato proprio da questi due ragazzi di Laives. 

è un motivo di ulteriore di soddisfazione per il territorio, quello di poter valorizzare anche l’operato di giovani imprenditori del posto, con la speranza che la struttura venga apprezzata dalla comunità e anche preservata. 

Anche nel caso di questa struttura, sarà il centro Don Bosco a occuparsi della gestione, per trasformarla in uno spazio di aggregazione sempre più riconoscibile da parte dei ragazzi del posto, ovvero come uno spazio a misura delle loro esigenze. Va detto che all’interno del progetto era inoltre contenuta l’idea di creare zone di aggregazione simili anche all’interno delle varie frazioni del comune. Ora, la palla per portare a termine il progetto a Galizia e, eventualmente, estenderlo appunto alle frazioni, è passata alla nuova amministrazione comunale. Sarà da attendere invece qualche mese per poter fare un primo bilancio sull’apprezzamento di questa novità da parte della comunità ma è certo che qualsiasi incentivo all’aggregazione sana e alla pratica di attività sportiva all’aperto sia da valutare sempre in maniera positiva, in tempi dominati dall’uso e abuso di social e apparecchiature elettroniche nella solitudine di una stanza, da parte dei giovani. Ben vengano quindi questa e altre future – si spera – iniziative che vadano in questa direzione.

Autrice: Raffaella Trimarchi

La nascita della comunità russo – ortodossa nella città termale


Fin dagli esordi della Merano città di cura, la clientela russa vi giunse copiosa spinta dalla ricerca del tepore primaverile e autunnale e del “sole caldo del sud”. Fra i numerosi villeggianti e convalescenti non mancavano i medici in viaggio per cercare nuove cure da sperimentare oppure per far conoscere i propri rimedi, fra cui il dottor Levsin, un russo.

Il dottor Levsin, inventore del Kumys, ossia il siero di latte di cavalla, fermentato, frizzante ed alcolico, fu uno tra i primi ad arrivare in riva al Passirio. Giunto in città per un periodo di villeggiatura, aveva ceduto la propria ricetta di questa bevanda a due farmacie meranesi. Qui infatti non si conosceva ancora questa cura, né le sue proprietà terapeutiche contro malattie come lo scorbuto, l’anemia ed altri disturbi del ricambio sanguigno. Levsin morì però a Monte San Giuseppe nel 1874 e fu sepolto nel cimitero evangelico di Merano. 

Un altro medico che si era nel frattempo stabilito in città, Michael von Messing, di origine russo-tedesca, si era subito impegnato nella ricerca e nell’ulteriore sviluppo della cura del siero di latte di cavalla. Nel 1874 sul “Meraner Kurzeitung” era apparso un suo articolo sui benefici del kumys, inventato appunto dal compianto compatriota. 

Non furono pochi nemmeno i cittadini russi che decisero poi di stabilirsi in città, tanto che a partire dal 1875 essi fondarono il “Comitato russo”. Si trattava di un’associazione privata fondata da cittadini russi, facoltosi e di religione ortodossa. Il Comitato si manteneva con le offerte e la beneficenza degli stessi soci e aveva come scopo l’aiuto e il soccorso di tutti quei correligionari che si trovavano in difficoltà economica, e permettere ai meno abbienti, malati di tubercolosi, di trascorrere a Merano lunghi periodi di convalescenza.

Allo scopo era necessario fondare un pensionato, dove accogliere i correligionari che non fossero allo stadio terminale della malattia, ed offrir loro le migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che religioso e, perché no, dove la cucina fosse quella tradizionale russa. 

Fra i primi passi avanzati dai membri del Comitato ci fu quello di richiedere al governo austriaco il permesso per la fondazione della Comunità e soprattutto l’autorizzazione per costruire una chiesa ortodossa in città. Contemporaneamente dovettero assicurarsi il consenso del metropolita di San Pietroburgo, Isidoro, sovrintendente alle chiese ortodosse all’estero e ricevere il suo permesso di costruire una chiesa e celebrare messe a Merano. 

La formazione di una Comunità significava adempiere a tutta una serie di esigenze anche burocratiche, da assolvere sia nei confronti della propria nazione d’origine, sia con il comune e la nazione ospitante; bisognava insomma attenersi a due legislazioni e render conto ad entrambe in ogni momento. Aprire ad esempio un pensionato per malati non abbienti significava anche provvedere alla loro sepoltura poiché né loro né i loro parenti avrebbero potuto sostenere le costose spese del rimpatrio della salma, come invece avveniva in genere per i benestanti e l’aristocrazia. 

La preoccupazione di trovare quindi un cimitero dove offrir degna sepoltura ai propri compatrioti non era un problema da poco vista l’impossibilità di condividere il cimitero cattolico che, per tradizione, non prevedeva una mescolanza di tombe nemmeno se cristiane. Fu invece il cimitero evangelico a condividere con la Comunità russo-ortodossa e con quella anglicana gli spazi per le tombe e i monumenti funebri.

Autrice: Rosanna Pruccoli