Volontari cercansi per aiutare i neogenitori

Un aiuto concreto ai neo genitori, una sostegno concreto alle famiglie nei l primo periodo dopo la nascita del bimbo: si chiama “Una mano nei primi 1000 giorni”, ed è un progetto dell’associazione il Melograno, che però è alla ricerca di volontari.

L’antico proverbio africano per cui “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” racchiude una grande verità, tanto più evidente quando invece, nella società moderna, le famiglie si ritrovano completamente sole di fronte al grande impegno di crescere un figlio.

In Alto Adige sono partiti negli anni passati alcuni progetti di sostegno concreto alle famiglie in questo senso, ma finora nessuno nel territorio di Laives, Bronzolo e Vadena. È quindi con grande aspettativa che viene accolto il progetto “Una mano nei primi 1000 giorni” del Melograno – Centro Informazione maternità e nascita – che proprio in questo periodo ha lanciato la campagna di ricerca di volontari. Ne abbiamo parlato con Daniela Radicchi, operatrice del Melograno e da quasi quattro anni volontaria dello stesso.

Daniela, in cosa consiste questo progetto? 

Si tratta di un progetto in stretta collaborazione con il distretto sanitario operante sul territorio di Laives, Bronzolo e Vadena e sostenuto dall’Ufficio famiglia della Provincia che, in sostanza, mira a fornire assistenza pratica e quotidiana alle famiglie con bambini fino ai 3 anni di età, attraverso gruppi di volontari e volontarie appositamente formati.

Qual è il tuo ruolo in questo progetto? 

Come operatrice del Melograno mi occuperò della coordinazione tra i volontari, il Centro, il distretto e le famiglie.

Quindi in pratica come funziona? 

In pratica, la famiglia che ha bisogno contatta il distretto, oppure è il distretto stesso, che magari segue già la famiglia per altre necessità, a fare la proposta, e mi contatta spiegandomi i bisogni di quella particolare famiglia. A quel punto io mi occupo di cercare tra i volontari la persona che possa prendersi cura delle esigenze di quella famiglia. Poi, dopo 3 mesi, facciamo una valutazione per capire se la famiglia ha ancora delle necessità o se il percorso si può concludere.

Che tipo di aiuto verrà dato dai volontari e, di conseguenza, che tipo di genitori/famiglie si rivolgono al progetto? 

Si tratta veramente di un aiuto pratico, che però non va confuso con un servizio di babysitting o di domestica. Si va dalla mamma straniera arrivata da poco nella comunità che cerca aiuto per integrarsi o anche solo per sapere dove può trovare determinati bisogni o servizi, al genitore bloccato magari da un infortunio o una malattia che non sa come prendere e portare il figlio all’asilo o, ancora, anche solo fare compagnia a una neomamma che cerca un po’ di conforto in una chiacchierata. Si tratta di compiti semplici e soprattutto, come detto, pratici per cui i volontari non devono avere una formazione specifica nel settore della cura e della salute ma semplicemente seguire una piccola formazione che fornisce il Melograno oltre – naturalmente – a possedere empatia, attitudine all’ascolto e, non da ultimo, tempo sufficiente a disposizione con il desiderio di donarlo agli altri. Il primo appuntamento di formazione sarà il 29 novembre e, al momento, le persone che si sono offerte volontarie sono tre, ma contiamo di ricevere altre chiamate.

Quindi, chi volesse proporsi volontario o almeno ricevere informazioni in merito, cosa deve fare? 

Può contattare direttamente me al numero 339 8186197 o inviare una mail a: info@melogranoaltoadige.org. Speriamo che i volontari siano numerosi, proprio per provare a riportare in vita una rete di sostegno e aiuto che ricordi un po’ quella che c’era nelle comunità di un tempo.

Autrice: Raffaella Trimarchi

I mercanti ebrei – Prima parte

Anche nell’antico Tirolo fra i mercanti ambulanti fin dal Medioevo c’erano gli stracciaioli ebrei. Nel Settecento si affacciarono al mondo tirolese anche importatori ebrei su larga scale di tessili. Nell’Ottocento e nel Novecento, vicino ai negozianti ebrei con sede fissa continuarono a coesistere ambulanti e soprattutto commercianti all’ingrosso di minuteria da confezione. Ma facciamo un passo indietro e torniamo con la mente agli antichi mercanti ebrei del Mediterraneo. I radaniti.

Il commercio nelle sue varie forme, dall’importazione su larga scala alla piccola vendita ambulante e a domicilio, fu uno dei tratti distintivi del popolo ebraico fin dall’antichità e ebbe ampio spazio nel Medioevo e nei secoli successivi. Pensiamo ad esempio ai radaniti, ossia i mercanti ebrei dell’Alto Medioevo che svolsero un importante ruolo ponte negli scambi mercantili di prodotti rari e di lusso tra il mondo cristiano e quello musulmano, all’epoca molto spesso in lotta. Oppure alla Comunità ebraica di Costantinopoli i cui membri commerciavano, importavano e scambiavano seta e altri tessuti preziosi, spezie, incenso e altri oggetti ricercati attraverso ben tre assi principali che li conducevano verso Oriente fino a Damasco, Bagdad e Bassora; verso Nord dove vivevano fra i bulgari, i magiari, i khazari, per giungere al nodo commerciale di Kiev; e infine verso Ovest per raggiungere Venezia, Genova, Pisa e Amalfi. 

Non va però dimenticato che la presenza, la laboriosità, il commercio degli ebrei nell’Europa cristiana fra Medioevo e Emancipazione oscillò tra persecuzioni, pogrom, espulsioni e divieti, oppure -di contro- era resa possibile grazie a privilegi, permessi a tempo chiamati “condotte”, patenti o benefici che ne consentivano la presenza. Queste alterne vicende rendevano il peso economico o la loro concorrenza assai labili. Nelle zone in cui potevano stanziarsi il commercio di ben determinati prodotti era una delle poche possibilità lavorative che la loro condizione di “esclusi” poteva offrire. 

Stando all’iconografia medievale, rinascimentale, seicentesca, settecentesca otto e novecentesca sia di stampo antisemita che ebraica, riusciamo a farci un’idea dello stereotipo della presenza ebraica come ambulanti, ossia come potevano apparire abbigliati e come trasportavano le proprie merci. Nel corso del Medioevo lo stereotipo dell’ebreo era abbigliato secondo le norme sancite da Innocenzo III nel IV Concilio Lateranense del 1215, ossia alla levantina coi lunghi caftani stretti in vita da una cintura, oltre ai simboli dell’esclusione quali il pilleus cornutus giallo e il cerchio giallo cucito sul petto e sulla schiena per poter essere riconosciuti da lontano ed evitati.  Nelle epoche successive copricapi dalle fogge orientaleggianti si sostituirono al cappello a punta. Col fluire dei lustri ai caftani si aggiunsero i pantaloni, la redingotte, i tipici cappelli a bombetta o a tuba e l’ombrello. Nelle numerose cartoline antisemite d’epoca guglielmina, ad esempio, sono visibili gli stereotipi dei venditori ambulanti ebrei orientali con il caftano, le “peot”, ossia i tipici boccoli portati ai lati del volto, cappelli a cilindro ammaccati, e ombrelli malconci. Ed è sempre questa iconografia insieme a qualche statuina di porcellana inglese o di legno scolpito a mostrarci i modi in cui essi stivavano le proprie merci per poterle portare e proporle di casa in casa o ai mercati. Ceste di vimini di varia ampiezza da portare a mano o all’avambraccio, cassette di legno di varia dimensione legate a cinghie che venivano poste attorno al collo o a tracolla, zaini di stoffa robusta, cadreghe di legno soddisfacevano l’esigenza del trasporto e del cammino. 

La cassetta legata al collo è un oggetto che ha unito gli ambulanti al di là delle aree geografiche, al di là della fede religiosa e al di là del fluire del tempo: essa infatti attraversò le epoche, l’Europa, le tipologie merceologiche e le ritroviamo col nome di “schifetto” fra gli “urtisti” romani del passato e di oggi. Sono infatti circa duecento a tutt’oggi le famiglie ebraiche che fanno questo antico mestiere vendendo oggetti devozionali cattolici, rosari, santini e piccoli souvenir. A fine Ottocento l’editto papale consentiva ai “peromanti” del ghetto di Roma di uscirne e percorrere tutte le strade della città per vendere ai pellegrini e ai turisti questi oggetti. La vendita dei rosari ai pellegrini era infatti l’unica attività consentite agli ebrei romani al di fuori dei confini del Ghetto. Ciononostante non era consentito loro l’uso di carretti o banchetti. Da fermi lo schifetto veniva sorretto da un bastone che, tuttavia, doveva sempre poggiare sempre sul piede e mai poteva esser poggiato per terra poiché in tal caso avrebbero potuto incorrere in una multa per occupazione di suolo pubblico. Questa attività veniva tramandata all’interno della famiglia con la trasmissione delle licenze di generazione in generazione.

(continua)

Autrice: Rosanna Pruccoli

Werner Gasser

Werner Gasser, classe 69, allievo di Michelangelo Pistoletto dopo l’Accademia di Vienna ha affinato il proprio bagaglio esperienziale con un soggiorno a New York e uno a Berlino dove alla fine rimase a vivere per ben sedici anni. A tutt’oggi parte dell’anno lo trascorre in quella città dalla creatività contagiosa. 

Grazie alla collaborazione della galleria berlinese artMbassy e il NIU Art Museum, Gasser ha trascorso un periodo anche a Chicago dove ha esposto una sua realizzazione video alla Galleria De Kalb/Chicago. 

Il filo conduttore dei suoi lavori è quello della diversità, sia essa identitaria, culturale o di genere. Grande attenzione è posta alle minoranze e ai gruppi socialmente emarginati. Utilizza la fotografia, il video, le scritte con le luci al neon ma anche la matita su carta. Nel corso degli anni dal 1995 ad oggi ha dato vita ad innumerevoli progetti artistici di grande interesse e capaci di entrare in tutti gli aspetti del vivere anche in quello della malattia e dello spazio adibito alla malattia e alla guarigione. Dotato di grande sensibilità ha anche intrapreso un difficile progetto artistico che lo ha portato per tre anni a seguire da vicino la quotidianità di un attore che, a seguito di un incidente, aveva perso la memoria. Il progetto artistico che ne è scaturito ha cercato di rappresentare con dei disegni a matita i momenti di amnesia che invadevano la memoria dell’amico. Ha così rappresentato un ambiente particolarmente famigliare a sé stesso come la montagna, frantumandolo e spargendo nel bianco “del vuoto” solo pochi lacerti efficacemente esemplificativi della memoria divorata dall’amnesia. 

Di tutt’altro genere è stato il progetto dedicato al lungo lavoro di riordino e catalogazione degli oggetti contenuti a Villa Freischutz. Le sue fotografie poetiche sono la testimonianza indelebile del lungo impegno encomiabile delle donne che vi si cimentarono. Numerosissime anche le mostre cui ha partecipato in Alto Adige, in Italia e all’estero. Attualmente è in mostra alla Kunsthalle di Darmstadt/Studio West con una “mostra-dialogo”, che coinvolge anche l’artista Anuschka Prossliner, dal titolo “Gegenwart ein Durchzugsort” cioè “Il presente un luogo di passaggio”.  Qui Werner Gasser pone l’accento sulle nuove forme di protesta nei regimi totalitari e in forma interattiva chiede al fruitore di prendere un foglio dalle risme di carta da lui esposte e fare l’atto di ribellione alzandolo.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Davide e le acrobazie in monopattino

Davide Marasca, diciannovenne di Bolzano, è uno dei rider emergenti nel monopattino freestyle. Sebbene abbia iniziato a praticare questo sport solo a quattordici anni, in poco tempo è riuscito a farsi notare, partecipando ai Campionati Mondiali di monopattino freestyle a Roma nel settembre 2024. Con una passione in continua crescita, Davide sta portando il nome di Bolzano sulla scena internazionale.

L’avventura di Davide nel monopattino freestyle è iniziata quasi per caso. “Ho visto alcuni ragazzi fare acrobazie nello skatepark di Bolzano e ho deciso di provarci anch’io”, racconta. Quella che inizialmente era una curiosità è diventata una vera passione. Partecipare alle prime gare locali è stato il suo primo passo, ma è stato con competizioni più impegnative che ha davvero iniziato a mettersi alla prova.

Oggi Davide si allena regolarmente allo skatepark di Bolzano, il suo punto di riferimento per allenamenti e sfide con altri rider. Le sue sessioni durano dalle due alle tre ore, durante le quali si concentra sul perfezionamento dei trick e sul miglioramento della tecnica. “Mi alleno duramente per migliorare la mia tecnica e superare i miei limiti. Lo skatepark è il posto dove posso davvero esprimermi”, afferma.

Settembre 2024 è stato un mese cruciale per Davide, che ha partecipato ai Campionati Mondiali di monopattino freestyle a Roma. Nonostante non sia riuscito a salire sul podio, l’esperienza è stata fondamentale. “Confrontarsi con i migliori rider del mondo è stato un sogno che si è avverato. Anche se non ho vinto, ho imparato tantissimo e mi ha dato la spinta per migliorare ancora di più”, dice con entusiasmo.

Nel monopattino freestyle, la concentrazione è essenziale. Ogni errore può compromettere l’intera performance, quindi la capacità di mantenere calma e focalizzarsi sui trick è fondamentale. Il “Barspin”, una rotazione del monopattino a trecentosessanta gradi durante un salto, è uno dei trick più complessi e appaganti per Davide. “Quando riesco a fare un Barspin perfetto, mi sento soddisfatto del mio progresso”, racconta con un sorriso.

Davide Marasca ha le idee chiare sul suo futuro nel monopattino freestyle. Il suo obiettivo principale è partecipare a competizioni internazionali e conquistare un posto sul podio dei Campionati Mondiali. Oltre alla carriera agonistica, Davide aspira a entrare nel mondo del marketing sportivo, con l’intenzione di collaborare con marchi di monopattini per contribuire alla crescita di questo sport che tanto ama.

Per lui, il monopattino freestyle è molto più di un semplice sport: è una forma di espressione personale e creativa. Ogni acrobazia rappresenta una sfida contro sé stesso, e ogni trick che riesce a eseguire con successo è una conquista tecnica e emotiva.

Anche se Bolzano non è ancora un punto di riferimento per il monopattino freestyle in Italia, Davide è ottimista riguardo al futuro. Lo skatepark della città è già un ottimo punto di partenza, ma crede che ci sia un grande potenziale per far crescere questo sport anche in città. Il suo sogno è coinvolgere sempre più giovani e contribuire a dare maggiore visibilità al freestyle a Bolzano, con l’obiettivo di fare della città un centro di riferimento per gli appassionati di monopattino.

Con talento, determinazione e una visione chiara del futuro, Davide Marasca ha tutte le carte in regola per diventare una delle stelle del monopattino freestyle. Il suo percorso è appena iniziato e, con i suoi sogni e la sua passione, la strada verso il successo è senz’altro segnata.

Autore: Niccolò Dametto

Giada: la giovane promessa delle bocce


Giada Lombardo, ventidue anni, è una promessa delle bocce che ha sorpreso tutti con la sua vittoria al campionato italiano di serie C svoltosi a Zanè in Veneto, un titolo che a Bolzano mancava da diverse decine d’anni. Bolzanina, studentessa universitaria e appassionata di sport, Giada racconta la sua avventura in un mondo che l’ha conquistata, grazie alla serenità e concentrazione che riesce a mantenere in campo. Ambiziosa e determinata, sogna già un futuro con la maglia azzurra, senza dimenticare la sua passione per il miglioramento continuo. 

Ciao Giada, raccontaci un po’ di te… 

Mi chiamo Giada Lombardo, ho ventidue anni e sono nata e cresciuta a Bolzano. Studio all’Università di Rovereto, al corso di “Interfacce e Tecnologie della Comunicazione”, e sono al terzo anno. Prima ho frequentato il liceo delle scienze umane con indirizzo musicale e ho giocato per un sacco di anni a pallavolo, prima di cimentarmi con le bocce.

Quando ti sei avvicinata alle bocce?

Ho iniziato a giocare a bocce circa un anno e mezzo fa. I miei genitori praticano questo sport da oltre 30 anni e, un giorno, ho deciso di provarlo come hobby. Mi è piaciuto subito: mi rilassava e mi permetteva di svuotare la mente. Dopo un po’, i miei genitori mi hanno spinta a partecipare a delle gare. All’inizio ero scettica, ma man mano che miglioravo, mi sono appassionata sempre di più.

Com’è stata al campionato?

La vittoria al campionato è stata una sorpresa anche per me. Non pensavo di essere all’altezza: temevo di perdere subito. All’inizio la pressione era forte, perché mi sentivo sotto le aspettative di chi mi conosceva. Ma una volta entrata in campo, ho cercato di restare concentrata e di dare il massimo. Superato il girone, ho capito che ogni passo successivo sarebbe stato un bonus, quindi ho giocato con più serenità. Alla fine, ho vinto senza rendermene conto subito. I miei genitori erano entusiasti, io ho realizzato solo dopo quanto fosse accaduto.

Cosa ti ha aiutato a vincere?

La chiave è stata mantenere la calma, soprattutto nelle prime partite. Le bocce sono uno sport di precisione, e ogni errore può fare la differenza. Ho cercato di non farmi influenzare dal risultato e di restare concentrata sul gioco, senza lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento. Quando il gioco diventa mentale, riuscire a mantenere lucidità è fondamentale.

Cosa ti aspetti per il futuro?

Mi alleno regolarmente, tre volte a settimana, e mi concentro su costanza e concentrazione. L’anno prossimo entrerò nella categoria B e spero di venire convocata per il campionato di B. Un giorno, il mio sogno sarebbe giocare per la Nazionale, ma al momento mi concentro sul miglioramento continuo, senza crearmi troppe aspettative.

Come descriveresti il tuo stile di gioco?

Il mio punto forte è la freddezza in campo. Non lascio trasparire emozioni, sia quando sono in vantaggio che quando sono in svantaggio. La concentrazione è fondamentale: se ti agiti, rischi di perdere lucidità e commettere errori.

Ti manca qualcosa della pallavolo?

La pallavolo mi ha dato emozioni forti, soprattutto nei momenti in cui riuscivo a fare una difesa spettacolare o a recuperare un pallone difficile. Però, nelle bocce trovo un altro tipo di soddisfazione, più legata alla concentrazione e alla calma. Non c’è la stessa pressione, e questo mi permette di giocare con più serenità.

Com’è la situazione delle bocce a Bolzano?

A Bolzano le bocce sono ancora viste come uno sport per anziani. Tuttavia, in altre regioni d’Italia, ci sono molti più giovani che praticano questo sport. Ci sono scuole di bocce e una vera e propria cultura intorno a questo gioco. Qui, purtroppo, c’è meno visibilità, ma spero che le cose possano cambiare: abbiamo un bocciodromo con dieci campi e sarebbe bello se ci fossero più opportunità per i ragazzi.

Autore: Niccolò Dametto

La chiesa di San Nicolò a Cleran, sopra Bressanone


Alta sulla conca brissinese e ricca di splendidi affreschi, la chiesetta di Cleran sorge fra le poche case del piccolo agglomerato. Arrivando da Millan in macchina o a piedi è proprio il piccolo campanile barocco, affiancato al corpo di fabbrica gotico, ad accoglierci.

Varcato il portale ad arco acuto è il mondo dell’antico testamento contrapposto alle storie cristologiche a schiudersi davanti ai nostri occhi e a catapultarci in un universo di colori e di forme tra il fantasioso e l’ingenuo, se pur di raffinata fattura. Sono i riquadri della parete nord che catturano il nostro interesse. Essi sono un’importante testimonianza di come per i fedeli analfabeti fosse possibile seguire tanto la lettura del vangelo quanto quella di alcuni episodi biblici. La decorazione si dispiega su due strisce sovrapposte e suddivise in riquadri di diversa dimensione: più ampio lo spazio dedicato alle scene cristologiche, notevolmente più limitato quello previsto per i paragoni biblici. Ognuno dei tre arconi di cui è composta la navata contiene così quattro riquadri. La lettura di ogni episodio però segue un ordine specifico che si struttura attraverso la sequenza orizzontale, secondo uno schema salvifico che veniva utilizzato spesso dalla bottega brissinese di Mastro Leonardo da Bressanone, cui le dipinture sono attribuite e datate intorno al 1470. È molto interessante notare come nelle scene cristologiche l’abbigliamento dei personaggi sia in massima parte costituito di tuniche anticheggianti, mentre nelle scene veterotestamentarie i protagonisti siano abbigliati come in uso nella seconda metà del Quattrocento. 

Nel primo riquadro in alto, il tavolo è imbandito per la solenne cena pasquale, Gesù è attorniato dagli Apostoli. Giuda, che nasconde il pesce dietro la schiena, parla ispirato però dal diavoletto che, lungi dall’essere spaventoso, è posto fra il bicchiere e le sue labbra. 

Nel riquadro accanto, la scena biblica e tratta dall’Esodo e parla della pioggia della manna che Dio inviò al popolo di Israele quando, partiti da Elim giunsero nel deserto del Sin, affamati e stremati pronti ad inveire contro Mosè ed Aron che ve li avevano condotti. Mosè è raffigurato, secondo l’iconografia cristiana, con le tradizionali corna e con abiti da dignitario. La manna reca erroneamente la croce tipica dell’ostia, mentre la figura inginocchiata reca sulle spalle una gerla tirolese. 

Nell’arcone successivo nel primo riquadro (sempre in senso orizzontale), in un tutt’uno armonico sono rappresentati, in un’unica scena, tre momenti cruciali delle ultime ore di Gesù. Si tratta della Preghiera nell’Orto degli Ulivi, del Tradimento di Giuda, e di Gesù riattacca l’orecchio al servo, e l’Arresto di Gesù. Particolarmente interessante e la resa prospettica dell’incalzare degli eventi. Belle e al tempo stesso capaci di trasmettere un brivido di paura sono le armature dei soldati che sono sopraggiunti guidati da Giuda per arrestare il Nazareno e condurlo via. Nel quadro successivo, siamo ormai giunti al terzo arcone, troviamo Cristo davanti a Pilato.

Come arrivarci

Una volta arrivati a Bressanone bisogna dirigersi verso l’altipiano della Plose. Dopo aver superato il paese di Millan, duecento metri dopo il terzo tornante, si devono quindi seguire le indicazioni a destra per arrivare a Cleran.

Per visitare


La chiesa abitualmente è aperta da primavera sino in autunno, soprattutto nei giorni festivi. Per la chiave rivolgersi alla famiglia Fischer, civico 191 (a sinistra della chiesa, casa con grande veranda in legno). Per info: Associazione turistica di Sant’Andrea, tel. 0472 850008.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La strada dedicata a Ressel, l’inventore


Via Joseph Ressel: via minore della zona industriale, collega via Innsbruck a via Werner von Siemens. Joseph Ludwig Franz Ressel era nato il 29 giugno 1793 a Chrudim (Boemia); dopo un corso (1809-1811) di artiglieria di terra, dal 1812 al 1814, oltre al corso di medicina all’Università di Vienna, si appassionò alla matematica, coltivando nel contempo fisica, chimica, botanica e tecnologia. Risale al 1812 il disegno autografo di elica per nave. Nel 1814 entrò nella Scuola forestale a Mariabrunn presso Vienna. Nominato nel 1816 Agente forestale nella Carniola inferiore, nel 1817 prestò servizio come guardia forestale distrettuale a Pletriach. Ebbe incarichi in varie località, tra esse Venezia, e Trieste, dove nel 1821 fu trasferito in qualità di imperial regio conservatore forestale. Dal 1838 fu al servizio dell’imperial regia Marina da guerra come intendente forestale. Tra le invenzioni su cui Ressel lavorò nel corso degli anni, la più importante fu l’elica, l’applicazione della vite di Archimede alla navigazione a vapore; grande esperimento di messa alla prova fu quello nell’ottobre 1829 sul piroscafo “Civetta” nel porto di Trieste. L’uso dell’elica per la propulsione delle navi si diffuse intorno al 1840, man mano sostituendo il propulsore a ruote. Ressel si applicò su altre invenzioni: una nuova specie di cuscinetti economici applicabili agli assi delle macchine; una nuova bussola; una vettura a vapore per trasporto di persone e merci; un molino a vapore cilindro per la macinazione del grano; un nuovo aratro; un torchio a vite senza madre per spremere le olive e altre sostanze; un nuovo metodo per la produzione di saponi; un combustibile chimico per macchine a vapore. Con le sue invenzioni Ressel era per lo più in anticipo sui tempi; alcune, come il cuscinetto, trovarono applicazione soltanto dopo la sua morte. Ammalatosi di febbre tifoidea, Joseph Ressel morì la notte del 9 ottobre 1857 a Laibach (Lubiana).

Autore: Leone Sticcotti

Gli occhi sulla stradache danno voce agli invisibili


L’Infopoint è uno sportello dell’associazione Volontarius ODV, ente del Gruppo Volontarius che fornisce informazione e orientamento e si rivolge alle persone senza fissa dimora, senza tetto, alle persone migranti, richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati di recente arrivo in città e alle persone autoctone o residenti sul territorio con particolari esigenze e bisogni primari. Valeria Tomasi, referente del servizio, racconta che cos’è e perché è importante.

Qual è il lavoro di un operatore dell’Infopoint?

Siamo uno sportello aperto al pubblico 365 giorni dalle 9 alle 23.45 con reperibilità notturna. Quando il progetto è nato, la principale attività era l’assistenza umanitaria e si svolgeva direttamente in stazione. Con il cambiamento del fenomeno migratorio il servizio si è evoluto in quello che è oggi: uno sportello sempre aperto a cui può accedere chiunque e che ha come utenza principale i primi arrivi. Qunado le persone giungono noi, dopo averle identificate, capiamo qual è la loro necessità  e, in base a essa, indichiamo loro i servizi presenti sul territorio lavorando in sinergia con i servizi sociali, le istituzioni, la questura, l’ospedale… 

Perché è importante che ci sia un ufficio come il vostro?

Perché siamo un punto di riferimento. Siamo sempre aperti e siamo un po’ “gli occhi sulla strada”, la lucina sempre accesa. Le persone in transito o anche stabili in città sanno che possono rivolgersi a noi. Noi ci siamo e ascoltiamo, per noi ogni persona c’è e non è invisibile. Anche i cittadini residenti possono rivolgersi a noi sia per segnalare qualcuno che ha bisogno d’aiuto sia per chiedere informazioni. Avere la certezza che c’è sempre qualcuno che risponde a questo tipo di esigenze dà molto sicurezza. 

Le problematicità  come le affrontate? 

È un lavoro che si occupa di tematiche delicate, ma il nostro approccio rimane sempre quello di trovare una soluzione e far sapere quando qualcosa non funziona. Da referente le difficoltà che trovo più spesso sono quelle legate in realtà a una parte bella del nostro lavoro: la coordinazione e il dialogo con la rete di istituzioni e associazioni del territorio e le segnalazioni da fare per trovare delle soluzioni. In realtà funziona tutto molto bene e la collaborazione è sempre propositiva e improntata sull’ascolto. Il nostro approccio è quello di guardare ciò che c’è e lavorare per creare nuove soluzioni. Facciamo molta sensibilizzazione su queste tematiche, raccogliamo le critiche e sappiamo come rispondere e come comunicarle a chi può lavorare per migliorare la situazione.

Quali sono le parti migliori e peggiori del vostro lavoro?

Il brutto è che ti sembra di non fare mai abbastanza. Il bello, anche se a volte può essere difficile, è che siamo sempre attivi nell’ascolto delle storie di chi arriva. Ti deve piacer ascoltare, trovare soluzioni e stare con le persone. È impegnativo, ma il bello è che ciò che facciamo è davvero importante e diamo voce agli “invisibili”, fornendo loro gli strumenti per riuscire ad integrarsi sul territorio. 

Avete un rapporto attivo con la cittadinanza? 

Il periodo invernale è il periodo in cui le persone si attivano maggiormente. Ci sono vari eventi organizzati dal Gruppo Volontarius come quello di raccolta delle coperte in cui ripresentiamo i progetti. Arrivano anche molte persone a farci domande. Sul territorio altoatesino c’è già molta sensibilità e attivazione e nell’ultimo anno ho notato una crescita nella partecipazione attiva dei giovani.

Autrice: Anna Michelazzi

Marciano e il suo “Echo”


A inizio ottobre il giovane regista altoatesino Thomas Marciano ha vinto il “First Steps Award” di Berlino con il suo mediometraggio ‘Echo’. Abbiamo avuto occasione di incontrarlo per raccontare com’è nato questo film e cosa vuol dire diventare registi cinematografici nel 2024. 

La storia di oggi ci conduce idealmente a Vienna, dove il giovane regista bolzanino Thomas Marciano, 27 anni, ha studiato e scelto di ambientare il suo mediometraggio “Echo”, recentemente premiato ai prestigiosi First Steps Awards di Berlino. Questo riconoscimento, assegnato ogni anno dalle principali case di produzione tedesche, celebra i talenti emergenti nel cinema, premiando opere realizzate da studenti di regia e cinematografia in Germania, Austria e Svizzera.

Nell’intervista che abbiamo realizzato con Marciano, emerge con forza quanto sia per lui fondamentale il valore della squadra, quel team affiatato che lo ha accompagnato nella creazione di questo progetto ambizioso. La collaborazione e la sintonia con i membri della propria cerchia si rivelano per lui elementi essenziali, e la condivisione di questa esperienza con persone che comprendono profondamente la sua visione e i suoi obiettivi è stata, senza dubbio, una delle chiavi di questo successo.

L’INTERVISTA

Le nostre congratulazioni per questo importante riconoscimento! Quali sono le sensazioni, le ispirazioni e gli insegnamenti che porta con sé da questa esperienza intensa e significativa vissuta a Berlino?

È stata per me un’esperienza meravigliosa, dove ho provato tante emozioni e mi sento grato soprattutto verso le persone che hanno collaborato a questo progetto e senza le quali non sarei mai arrivato dove sono.

Di cosa parla il film?

“Echo” racconta la storia di una giovane ragazza di nome Zoe, che in una notte a Vienna si pone la domanda se esiste qualcosa al di là della realtà tangibile; passo per passo, impara a seguire la propria intuizione per trovare una risposta a questa domanda e, quindi, in un certo senso, anche a trovare se stessa.

Nei suoi lavori lei si allontana dalla fiction mainstream, scegliendo un approccio più introspettivo. Crede che questa modalità le permetta di connettersi anche con chi poi guarderà il film, creando un’empatia più profonda?

Sì. Si tratta di temi che mi appassionano sempre di più. Questo cortometraggio, ad esempio, esplora quello che io chiamo magico realismo, riscoprendo e sottolineando gli aspetti magici che la realtà ci offre ogni giorno. Credo che guardare la vita con occhi nuovi possa rivelare bellezze straordinarie intorno a noi, se siamo disposti a lasciarci stupire.

Nonostante il fatto che Echo, il film premiato a Berlino, sia stato interamente girato a Vienna, la sua scelta linguistica non è caduta sul tedesco. Questa particolarità aggiunge un ulteriore strato di originalità al progetto, riflettendo forse una visione che va oltre i confini geografici e linguistici tradizionali, per abbracciare un’espressività più universale e personale.

Il film è in italiano, un elemento che aggiunge un tocco un po’ surreale a tutta la storia, che è ambientata nella città di Vienna. In una notte dove tutto sembra possibile, anche le persone a un certo punto si rivolgono infatti alla protagonista in un’altra lingua.

Nelle motivazioni del suo premio, la giuria ha sottolineato l’uso magistrale del sound design e della fotografia. Come concepisce un film con queste caratteristiche? E quanto è importante per lei la creazione del team che la affianchi nella realizzazione?

L’obiettivo principale era proprio quello di creare un team affiatato, una sorta di famiglia con cui lavorare in piena sintonia. Questo è valso anche per il direttore della fotografia Benjamin Pieber  e il compositore delle musiche Raimund Hepp: abbiamo trovato subito una forte intesa, sin dai primi incontri. In particolare, Raimund Hepp ha partecipato attivamente, fin dalla fase di scrittura della sceneggiatura. Prima ancora che completassi il testo, lui aveva già iniziato a comporre, intrecciando musica e narrazione in modo che ogni elemento si fondesse con naturalezza e armonia, per dare al progetto una coesione autentica e coinvolgente fin dall’inizio.

Thomas Marciano, traspare una forte emozione dai suoi occhi quando parla di questa esperienza di squadra. Il film non è in distribuzione, quindi dovremo aspettare un po’ per vederlo. Ma per lei dopo questo premio cosa accadrà? Si comincia a fare sul serio, adesso?

Certamente, questo premio ha avuto un ruolo fondamentale nell’aprirmi molte porte, offrendomi la possibilità di accedere a contatti preziosi che altrimenti sarebbero stati difficili da raggiungere. Ritengo che uno degli obiettivi principali di eventi di questo tipo sia proprio quello di creare un ponte tra giovani registi e registe emergenti e le realtà produttive già consolidate, costruendo connessioni che possano dare origine a collaborazioni future. Ho già avuto modo di incontrare alcune persone con cui ho sentito una sintonia immediata, e questo mi fa sperare di poter instaurare, passo dopo passo, una collaborazione solida e duratura. Per me, infatti, è essenziale trovare dei partner con cui esista un’autentica comprensione reciproca, persone con cui condividere davvero la stessa visione creativa e che, parlino la mia stessa lingua (in senso metaforico), perché solo così si può creare qualcosa di realmente significativo.

Autore: Till Antonio Mola

Darsi il giusto valore

Tanti anni fa si è ripromesso di non smettere mai con il rap. Si ritrova quindi ad essere un rapper di mezza età con ancora tanta passione, entusiasmo e con poco tempo per fare tutto quello che vorrebbe fare. Fa parte di quella cerchia di 3 o 4 persone a Bolzano che hanno contribuito in maniera importante a creare una scena hip hop sul territorio, organizzando tantissimi eventi e concerti e pubblicando tantissima musica.

La cosa di me che mi piace di più.

Sono una persona educata.

Il mio principale difetto.

Tendo a parlare troppo. In passato sapevo ascoltare di più. Ci sto lavorando.

Il mio momento più felice.

La nascita delle mie figlie.

Da bambino sognavo di diventare..

Un pilota di aerei militari.

La mia occupazione preferita.

Fare freestyle (improvvisare rap in rima sulla musica).

Il mio piatto preferito.

La pizza.

Non sopporto…

I bambini, quando sono maleducati (e di conseguenza i loro genitori).

Sono stato orgoglioso di me stesso quella volta  che…

Ho saputo gestire e metabolizzare una brutta situazione personale.

L’ultima volta che ho perso la calma.

Non me la ricordo. La perdo raramente.

La prima cosa che faccio al mattino.

Sveglio mia moglie, le mie figlie e poi vado in bagno.

Il mio film preferito.

A Brox tale.

Il superpotere che vorrei avere.

Non dover dormire.

La disgrazia più grande.

La morte di Fabio, uno dei miei più cari amici. Oltre ad avermi insegnato a fare rap, la sua storia mi ha insegnato altre cose molto più importanti.

La cosa che apprezzo di più del luogo in cui vivo. 

La convivenza italiani-tedeschi. Sono da sempre un sudtirolese italiano molto orgoglioso.

Amo il mio lavoro perché…

Difficilmente mi annoio, conosco molte persone interessanti e ho un bellissimo rapporto con colleghi e colleghe.

L’errore che non rifarei.

Essere troppo autocritico. Con molte difficoltà ho imparato ad esserlo di meno. Sto provando a insegnare alle mie figlie a darsi il giusto valore.

Il mio motto.

C’è di peggio.

La massima stravaganza della mia vita.

Non sono stravagante di natura. Forse il fatto di fare ancora rap a 41 anni. Percepisco che per molte persone sia una cosa strana.

Del mio aspetto non mi piacciono…

I capelli bianchi. Mi invecchiano più del dovuto.