I “nuovi” poveri

Nei giorni scorsi ho letto con interesse e con una certa preoccupazione il manifesto “contro le povertà” elaborato e sottoscritto da una serie di realtà del territorio. Wirtschaftsring, Centro di competenza per il lavoro e le politiche sociali di Unibz,  Alleanza della Cultura, Federazione per il Sociale e la Sanità, Istituto per la promozione dei lavoratori, Volontari e Associazione Ambientalisti, hanno proposto la creazione di un “osservatorio” che nel prossimo futuro dovrebbe monitorare e garantire la continuità e il coordinamento delle misure di prevenzione alla povertà.

La mia preoccupazione deriva dai dati che in occasione della presentazione del manifesto sono stati resi noti, dati assolutamente non il linea con l’idea che l’Alto Adige sia un’isola di benessere,  in Italia e in Europa. Eccoli: il 17% delle famiglie (quasi una su cinque!) riesce a fatica ad arrivare a fine mese, mentre il 60% delle stesse non è più nelle condizioni di risparmiare (almeno una su due). Non basta: più di un dipendente su dieci non arriva a 9 euro l’ora come compenso per il lavoro che fa. 

Particolarmente a rischio sono naturalmente i lavoratori a basso reddito, i pensionati, le famiglie monogenitoriali, le perone socialmente svantaggiate come i disabili e le persone soggette a malattie croniche, nonché i gruppi emarginati e le famiglie dei lavoratori immigrati. Per loro la politica – per voce dell’assessora provinciale al sociale Rosmarie Pamer e del presidente della giunta Arno Kompatscher – ha promesso di alzare il suo impegno di spesa. 

Ma va considerato che la delicatezza della situazione per quanto riguarda lo squilibrio tra costo della vita e salari mette da qualche tempo in difficoltà anche la classe media, soprattutto perché esclusa dai sostegni riservati ai più poveri (il dato del 60% che non riesce a risparmiare riguarda anche e soprattutto queste realtà). Per non parlare dei giovani che nella maggior parte dei casi vedono la sostenibilità della futura formazione di una loro famiglia in Alto Adige un vero e proprio miraggio, se non vengono sostenuti economicamente e in maniera significativa dalla famiglia d’origine. Per questi motivi mi auguro che l’osservatorio di cui abbiamo parlato all’inizio si trasformi in un tavolo in grado di proporre soluzioni concrete e a breve termine. E sono sicuro che a questo augurio si unirà una gran parte di voi lettori. 

Autore: Luca Sticcotti

Prisca, la “mamma” del mercatino

La settimana scorsa si è registrato in incredibile boom di iscritti alle vendite e di compratori da ogni angolo della regione, per l’edizione invernale dell’ormai famoso e attesissimo “Mercatino delle Mamme” di Laives, un evento nato solo due anni fa dalla fantasia di Prisca Schievenin, che ci parla della genesi di questa fortunata iniziativa.

È un mercatino dell’usato dedicato agli articoli per bambini e ragazzi, ma è ormai conosciuto ovunque come il “Mercatino delle Mamme”. Già, perché quello che ormai va in scena regolarmente due volte l’anno negli spazi del Centro Don Bosco di Laives è un mercatino che soprattutto nasce dall’idea di una mamma. 
Ed è proprio a lei, Prisca Schievenin, che abbiamo voluto fare qualche domanda per saperne di più di quello che è ormai a tutti gli effetti uno degli appuntamenti più attesi dalle famiglie nel calendario laivesotto.

Prisca, innanzitutto: come è andata l’ultima edizione, che si è svolta nel week end del 12 e 13 ottobre appena trascorsi, dedicata in particolare agli articoli per l’inverno?

È stato un successone, con ben 180 iscritti alle vendite e addirittura una lista d’attesa per ottenere uno spazio. E, al sabato, perfino alla cassa si è formata una fila costante. Il fatto che più ci ha stupiti e soddisfatti, però, è stata la provenienza dei compratori: sono arrivati acquirenti da Renon, Val d’Ega, Merano, e addirittura da Vipiteno e Trento.

Si tratta di un successo che, a distanza di due anni dalla prima edizione targata ottobre 2022, forse nemmeno lei e gli altri collaboratori si aspettavano. Ma da dove è partita l’idea di questo fortunato mercatino? 

A dire il vero io frequentavo da anni altri mercatini, come quello di Ora, per esempio. E a un certo punto ho pensato: ma perché non provarci a Laives? Così un giorno ne ho parlato con Giancarlo Schiavon, l’attuale presidente del Don Bosco, allora membro del direttivo, e lui ha da subito appoggiato l’idea. Così, grazie al patrocinio del Centro Don Bosco, abbiamo anche da subito ottenuto degli spazi adeguati al progetto. All’inizio le idee non erano molto chiare e infatti la prima edizione – che aveva comunque registrato un successo con 150 venditori – è stata una faticaccia, perché il mercatino durò tre giorni in cui i volontari, pochi, erano sempre gli stessi, senza possibilità di darsi il cambio. Inoltre avevo grandi idee, come la proposta di lasciare l’invenduto per fare beneficenza, ma senza tenere conto degli spazi che richiedeva stivare tutta quella merce ingombrante fino allo smaltimento. Ma l’esperienza è servita a capire dove migliorare, e infatti già dall’edizione successiva il cammino è stato in discesa.

Oggi c’è una folta schiera di collaboratori che permettono che tutto fili liscio: dal gruppo di uomini che si occupa di montare e smontare tavoli e stand, fino al banco del mercato di Bolzano che ad ogni edizione fornisce i supporti necessari a esporre la merce. E’ un team affiatato, che consente a Prisca e tutto il gruppo di valutare importanti progetti per il futuro.

Ogni volta cerchiamo di trovare spunti e migliorare. La nostra speranza è quella di poter rimanere a Laives, e nello specifico al Don Bosco, dove ci sentiamo a casa. Qui conosciamo gli spazi, le persone, e questo ci consente di fare progetti di miglioramento.

Quali sono questi progetti per l’edizione primavera – estate prevista per il week end del 29 e 30 marzo del prossimo anno?

In effetti sto cercando di mettere in piedi uno spazio sorvegliato da persone qualificate per poter lasciare i bambini a giocare e permettere ai genitori di fare shopping in tranquillità o di fare la fila alla cassa senza lo stress di bimbi annoiati dall’attesa. Questa idea spero di poterla concretizzare per la prossima edizione. E poi ci sono altre idee che ronzano in testa, come un mercatino dell’usato dedicato agli adulti, oppure solo ai costumi di carnevale. Insomma, carne al fuoco ce n’è, e l’interesse e la partecipazione delle persone ci stimola a portare avanti questi progetti.

Autrice: Raffaella Trimarchi

La Merano dei fratelli Bucci

Riccardo e Giovanni Bucci, classe 1943, per certi aspetti “gemelli diversi”, hanno raccontato alcune sere fa a Merano, per iniziativa del Circolo Culturale Meranese, la “loro” Merano. Quella vista attraverso gli occhi del primo – che ne è stato cronista fedele sulle pagine dell’Alto Adige prima e poi de L’Adige e del Mattino – e del secondo che, abile pittore, ne ha inquadrato gli aspetti più interessanti fissandoli su tela. 

I Bucci a Merano sono un’istituzione così come lo fu la loro madre, la dottoressa Giuseppina, pediatra che ancora oggi molti ricordano per la sua genuinità, competenza e grande disponibilità, in tempi in cui i medici non conoscevano orario ed erano sempre a disposizione dei loro pazienti. Riccardo più incline alla narrazione, con la favella facile, e Giovanni di poche parole che si esprime attraverso le sue tele, hanno dato vita ad una serata “amarcord” accompagnata da una pubblicazione dal titolo “Lettere e Cartoline” che mette insieme scritti del primo e immagini del secondo. Della loro storia abbiamo parlato con Riccardo in una gustosa intervista.

Partiamo dalle origini, Riccardo. Come è arrivata la vostra famiglia a Merano?

Mio fratello Cesare e noi gemelli arrivammo con la mamma che aveva iniziato la propria attività come pediatra presso l’allora Opera nazionale maternità e infanzia. Ci stabilimmo in via Schaffer che allora si chiamava via Miramonti, di fonte all’attuale Zarenbrunn che allora era un convento di suore alle quali rubavamo le ciliegie.

Rubavate le ciliegie?

Sì. Quando le ciliegie maturavano, le suore sguinzagliavano due cani per tenerci a bada e noi escogitammo uno stratagemma per “aggirare l’ostacolo”. Memori di come erano fatti i sacchetti porta offerte che da chierichetti si usavano in chiesa, fissammo un sacchetto ad un lungo bastone con in cima una lametta per prelevare le ciliegie e così gabbammo le suore.

Quella era un’infanzia spensierata davvero…

Fuori casa tutto il giorno con le fionde fatte con camere d’aria di bicicletta, archi con le canne del canneto di via Fluggi e tanta fantasia. Una cartolina tra i raggi di bicicletta per simulare il rumore del motore, le barchette di carta nella roggia che correva lungo la via. Si giocava a “darsela”, campanone, palla avvelenata, e poi c’erano le palline immancabili con cui giocavamo a “cicca e spanna”. Poi c’era e c’è ancora, l’albero “elefante” nel parco di via Winkel al cui ramo sporgente in orizzontale, attaccavamo una corda e una tavoletta di legno per fare l’altalena e la sera immancabilmente la guardia campestre ce la tagliava.

Poi venne il tempo del collegio, della scuola superiore all’istituto d’arte e della naja…

Che siccome ero raccomandato, mi mandarono a Palermo! Figuriamoci se non fossi stato raccomandato! L’arte e la pittura rimasero patrimonio di mio fratello Giovanni mentre io, dopo un anno da insegnante di disegno, rimasi folgorato sulla via di Damasco da Vittorio Cavini ed entrai all’Alto Adige per una sostituzione di un mese. Sarà stata la vanità di vedere il mio nome in calce ad un articolo, ma venni preso dalla spirale del giornalismo e non ne uscii più.

Qual è stata la vicenda che giornalisticamente ti ha maggiormente gratificato?

Lavoravo all’Eco di Padova quando venni a sapere di una persona che stava scontando una quarantina d’anni di prigione per un omicidio di due soldati tedeschi alla fine della guerra nel 1945. In realtà scoprimmo che non si trattava di un omicidio ma legittima difesa in guerra, perché i due militari volevano imprigionarlo e lui che non sapeva che da pochi giorni era finita la guerra, aveva reagito. Riuscimmo così a dimostrare che si trattava ancora di un fatto bellico e a quella persona fu consentito di chiedere ed ottenere la grazia. Per me fu uno scoop al pari di quello che feci quando si scoprì che a Castel Labers le SS in guerra stampavano le sterline false per indebolire l’economia inglese.

Ma i Bucci erano anche un trio musicale di valore…

Beh, chitarra e batteria ci avevano travolti e ci fecero diventare “il trio Bucci”. Raggiungemmo anche la vittoria in un lontanissimo festival beat ma poi i destini ci portarono su strade diverse e tutto finì.

Per chiudere, racconta ai nostri lettori la storia del ceffone di Luisa…

Avevamo marinato la scuola a Ravenna al primo anno di liceo artistico. Andammo all’Upim appena inaugurato. Facevamo gli spavaldi con le commesse che non ci filavano proprio. Ce n’era una che portava una targhetta col nome Luisa sulla parte destra del petto. Tentando la carta della battuta ironica, indicando l’altro le chiesi “e questo come si chiama?”. Non terminai la frase che il ceffone era già arrivato.

Autore: Enzo Coco

“L’eterogeneità a scuola è un valore aggiunto” 

Negli ultimi mesi ha suscitato un vivace dibattito pubblico la formazione delle nuove classi presso la scuola primaria in lingua tedesca Goethe di Bolzano, soprattutto a causa dei nuovi ventilati criteri di suddivisione degli alunni all’interno delle classi. Molti degli allievi della scuola infatti sono di origine straniera e non conoscono la lingua tedesca e per loro erano stati ipotizzati  dei percorsi comuni, separati dagli altri bambini. Per approfondire questi temi, abbiamo interpellato il professor Dario Ianes, uno dei massimi esperti in pedagogia inclusiva in Italia. Ianes, che ha insegnato a lungo alla Libera Università di Bolzano, nell’intervista che vi proponiamo ci offre una riflessione approfondita sulla recente polemica e sui significati che assumono i concetti di “eterogeneità” e “inclusione” all’interno del sistema scolastico.

Professor Ianes, sulla vicenda della formazione delle nuove classi nella scuola primaria in lingua tedesca Goethe, è stato scritto di tutto. Da pedagogista lei questo dibattito come l’ha vissuto?

La vicenda l’ho vissuta ricordando che lo schema omogeneità-eterogeneità è ormai parte integrante dei nostri sistemi educativi. Il sistema italiano inclusivo vede l’eterogeneità, cioè il mescolare competenze e provenienze diverse, come un valore aggiunto, capace di stimolare identità condivisa, consapevolezza reciproca, solidarietà e sviluppo collettivo tra gli alunni.
Separare gli studenti in base all’omogeneità, come per lingua o capacità, non è dal mio punto di vista solo politicamente sbagliato, ma anche pedagogicamente errato. La ricerca scientifica dimostra chiaramente che l’eterogeneità produce risultati migliori in apprendimento, socialità e competenze socio-emotive, e trovo sorprendente che questi dati siano stati ignorati.

Lei ha accennato anche alla lingua: quando un alunno non conosce affatto la lingua di insegnamento, come si procede da un punto di vista pedagogico? Può essere considerato un bisogno educativo speciale, anche se temporaneo?

Da un certo punto di vista sì. Perché se ho un bisogno educativo normale – come comunicare con i miei insegnanti e compagni, ma non posso farlo perché, ad esempio, vengo dall’Ucraina e non conosco la lingua – questo bisogno diventa speciale. Serve dunque un supporto aggiuntivo per aiutarmi a sviluppare le competenze linguistiche, così che il mio bisogno diventi normale. Il punto è: dove trovo questo supporto speciale? Lo trovo in qualcosa di separato e isolante? O all’interno del processo naturale di apprendimento e socialità? Ogni bambino impara la lingua in un contesto normale, assorbendo i dialoghi, non in una classe separata. L’immersione in un contesto naturale è più efficace pedagogicamente. Possiamo senz’altro aggiungere un sostegno extra, come la mediazione culturale o l’arricchimento del contesto, ma sempre all’interno di un ambiente normale, non separato. La logica abilista, invece, dice: puoi partecipare solo se sei abile. Se non lo sei, devi acquisire l’abilità fuori, e solo allora entri. Ma questo approccio esclude, invece di integrare.

Nel dibattito pubblico si parla spesso di integrazione e inclusione come se fossero la stessa cosa. Può chiarire quali sono le differenze tra questi due concetti?

Negli anni ‘70, in Italia, il concetto di “inserimento” prevedeva che gli alunni con disabilità fossero semplicemente collocati in un contesto scolastico senza che questo fosse adeguatamente preparato. Con l’evoluzione verso “l’integrazione,” si è fatto un passo avanti: il contesto iniziava ad adattarsi, offrendo supporti specifici, come insegnanti di sostegno e percorsi individualizzati, ma la struttura scolastica restava sostanzialmente quella tradizionale. L’approccio inclusivo, invece, amplia questa visione. Non si tratta più solo di creare percorsi speciali per chi ha disabilità certificate o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, ovvero DSA (come dislessia, disgrafia e discalculia), ma di pensare una didattica aperta e modulabile per tutti gli alunni. L’inclusione parte dalle differenze umane, valorizzando le unicità di ciascun individuo, siano esse talenti, difficoltà linguistiche o diversi stili di apprendimento. In questo modo, la didattica si universalizza, permettendo percorsi personalizzati per tutti, non solo per chi ha problematiche specifiche.

Questi passaggi avvengono all’interno di un quadro normativo?

Sì, lo fanno a partire dalla legge 104 del ‘92, la legge quadro sulla disabilità, che però andrebbe aggiornata. Nel 2010 c’è stata una svolta per gli alunni con DSA, riconosciuti finalmente come aventi diritto a una didattica personalizzata. Nel 2012-2013 è stato introdotto il concetto di “Bisogno Educativo Speciale”, che include chiunque abbia difficoltà a soddisfare i propri bisogni educativi, a causa di disabilità, problemi familiari o linguistici. Esistono diversi fattori che influenzano il nostro modo di ‘funzionare’, e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo concetto va oltre il corpo e dipende fortemente dal contesto in cui viviamo, che può offrire certezze o barriere.

Ci può fare un esempio concreto?

Sì, le fornisco un esempio nell’ambito dei disturbi specifici di apprendimento. Se ho bisogno di un computer per leggere e comprendere un testo in tempi ragionevoli, quella è la mia modalità di funzionamento; ma se non posso usarlo, incontro una barriera non solo interna, ma anche relazionale con il contesto. Al contrario, un contesto che fornisce tecnologie integrate, come un computer, valorizza le mie differenze e mi offre pari opportunità rispetto a chi legge senza ausili. La condizione di svantaggio, emarginazione o discriminazione è sempre legata al rapporto con il contesto, che può facilitare il mio funzionamento o porre limitazioni. Alcuni insegnanti vedono l’uso del computer per far leggere come un aiuto indebito, ma in realtà serve a livellare le opportunità per alunni con DSA, consentendo a tutti di dimostrare le proprie conoscenze.

LA VICENDA DELLA SCUOLA GOETHE

All’inizio dell’anno scolastico, la proposta della dirigente scolastica Christina Holzer della scuola primaria in lingua tedesca “Goethe” nel centro storico di Bolzano, di formare una classe prima composta esclusivamente da ragazzi migranti e di madrelingua italiana, ha suscitato un ampio dibattito e una forte opposizione. 
La dirigente aveva giustificato questa scelta affermando che serve (serviva, considerato che è stata bloccata) a garantire un ambiente didattico appropriato sia per i bambini madrelingua tedesca che per quelli che devono iniziare da zero con la lingua. 
Si era trattato di una decisione in apparenza solo organizzativa, ma che evidenzia la pressione (anche politica) cui sono sottoposte le scuole di lingua tedesca, dove cresce il numero di bambini non di madrelingua.
L’assessore provinciale alla scuola tedesca Philipp Achammer aveva fermamente respinto e bocciato l’iniziativa della dirigente scolastica, considerandola una violazione delle leggi provinciali e nazionali, che mirano a promuovere una scuola aperta a tutti e vietano la creazione di classi “ghetto”. 
Gli aveva fatto eco l’intendente scolastica per le scuole di lingua tedesca Sigrun Falkensteiner, affermando che la scuola ha il compito di promuovere l’inclusione e di favorire il rispetto della diversità. 
Achammer ha ribadito che una gestione efficace della presenza di studenti di origine straniera richiede il loro inserimento nelle classi esistenti, piuttosto che una separazione in gruppi distinti, una scelta sostenuta anche da altri esponenti politici e dall’opinione pubblica, che hanno criticato duramente la proposta per il rischio di stigmatizzazione e isolamento.

Autore: Till Antonio Mola

I giorni della speranza. E il traguardo che riguarda tutti

Sono i giorni in cui si ricordano le persone che se ne sono andate. Le giornate si fanno brevi e ci si riscopre tutti “come d’autunno sugli alberi le foglie”. Ma non è ancora giunto l’inverno e la stagione offre, pur nella malinconia, meravigliosi colori e profumi che parlano di speranza. Di vita malgrado la morte.

Fin dai tempi più antichi l’essere umano, di fronte all’esperienza della morte, si è posto la domanda sul senso della vita. Tutte le culture hanno elaborato risposte, accomunate dalla persuasione che ogni vita non svanisce nel nulla quando arriva al capolinea, ma ha un prima e ha un dopo.

I nostri progenitori svilupparono il culto degli antenati, fondato sull’idea che chi ha vissuto pienamente la propria vita, chi ci ha generato fisicamente o spiritualmente, sta continuando il suo percorso altrove e non si è dimenticato di noi. Una pratica ancora oggi presente in diverse religioni tradizionali, ad esempio dell’Africa.

È innata nell’essere umano l’idea della continuità della vita, ovvero la fiducia nel fatto che le cose importanti non smettono di esserci. Così come la convinzione che, in ultima analisi, siamo chiamati solo a essere felici.

Quando, sulla via cristiana, si incontra l’espressione “vita eterna”, è proprio della felicità che si parla.

Nella sua bolla per il Giubileo della speranza, che si aprirà a Natale, papa Francesco se lo chiede: “Cosa sarà dunque di noi dopo la morte?” Se è vero che “al di là di questa soglia c’è la vita eterna”, la pienezza di vita in altro non consiste se non nell’“essere felici”. Perché “la felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti”.

“Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto»”.

Autore: Paolo Bill Valente

Moritz Gamper: bozzetti d’immaginazione e oltre

Per quanto Moritz Gamper sia giovane e al suo debutto a proprio nome, l’autore bazzica il mondo musicale da parecchio tempo ed ha maturato una certa esperienza con la rock band Desert May Bloom (bellissimo nome per altro). Meranese di nascita, ma da tempo residente a Vienna, Mortiz ha deciso di mettersi in proprio, un po’ per via delle difficoltà nel tenere in attività una band di questi tempi, un po’ per l’impellenza di percorrere nuove vie e mettere su un supporto le sue nuove canzoni.

“Da un lato – ci racconta – in cinque è difficile mantenersi suonando se si vuol vivere di musica, che è quello che volevo fare io, dall’altro volevo provare a mettermi in gioco come solista. Io non riesco a fermarmi, ho bisogno di creare musica in continuazione, non con un computer, ma con uno strumento tra le mani. Sono molto determinato in questo, mi ero messo in testa di fare un disco, questo disco, e per due settimane non ho fatto altro che scrivere canzoni: l’obiettivo era scriverne una al giorno, fatta e finita, senza lasciare nulla di incompleto da terminare il giorno successivo”. 

Sketches Of Imagination And Beyond, questo il titolo del vinile (il disco è uscito solo in questo formato), è indubbiamente una delle produzioni più interessanti realizzate da un musicista della nostra regione negli ultimi anni, da tenere a portata di mano sullo scaffale col CD dei Morisco e col vinile di Peter Burchia uscito un paio di anni fa. Tutto sorretto su chitarra e voce, viene indicato genericamente come disco blues, ma in realtà va oltre le definizioni, Gamper racconta storie più o meno brevi – degli sketch dell’immaginazione come recita il titolo –, sfoggia un buon fingerpicking e si cimenta anche con la slide, ma il suo è una sorta di folk contemporaneo o moderno che dir si voglia che emana bellezza, suona con freschezza, c’è l’influenza blues ma non suona mai datata.

“Si tratta di un lavoro fatto tutto da me – prosegue Mortiz – mi sono registrato, mixato, ho fatto anche il master da solo e ad essere sincero devo ammettere che il mix e il master sono stati pesanti da fare. Si tratta di una cosa che non avevo mai fatto e non so se in futuro la rifarei, perché nel momento in cui sei tu a fare tutto, ad un certo punto non senti più gli errori, perché nella tua testa la musica suona in un certo modo, come l’hai pensata e non più come l’hai suonata. Dopo aver deciso che il lavoro andava bene così, non l’ho più riascoltato per un mese perché avevo bisogno di lasciarlo decantare. In realtà una canzone non è mai finita, è solo la fotografia di un momento.”

Il disco, pubblicato dalla Blind Rope Records, che ne ha già chiesto a Gamper un nuovo per l’anno prossimo, è molto curato nella veste grafica con un dipinto di sua moglie Maria Ibba che si rifà alla canzone d’apertura, The Bandit; la tiratura, invece, è di 333 copie numerate a mano.

“È stata un’idea della casa discografica – ci spiega Gamper – siccome il blues è la musica del diavolo e 666 è il numero del diavolo, hanno diviso a metà facendo un po’ più delle copie che si stampano di solito, che sono 250. Trovare qualcuno che si interessi e sia disposto ad investire in progetti del genere è abbastanza difficile. Io sono stato fortunato perché i miei amici bluesmen austriaci mi hanno indirizzato a Dietmar Hoscher, che è il proprietario dell’etichetta ed è un’autorità in materia, lo definiscono il Papa del Blues autriaco. Quando l’ho contattato, lui sapeva già chi ero perché almeno un paio di chitarristi austriaci lo avevano incuriosito parlandogli di me.”

Dopo il primo incontro è stato chiaro sia per Moritz che per il Papa del Blues che c’era del materiale su cui lavorare e c’era anche il feeling per farlo bene insieme. Nel frattempo, Moritz Gamper, la sua chitarra e la sua musica saranno protagonisti di una serata al Sudwerk il 7 novembre e di una all’Est/Ovest di Merano il 9.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Quando dall’albergo si votò il “ribaltone”

Il comune di Laives nacque ufficialmente nel 1819 grazie al nuovo ordinamento asburgico dei comuni. Da sempre collegato al capoluogo, il piccolo paese decise di staccarsi (anche se non… troppo) da Bolzano nel corso di una riunione tenuta all’albergo Casagrande.

Nel 1823 il preposto Johann von Reich pubblicò un rapporto sullo stato della popolazione, che consisteva complessivamente in 736 persone, di cui 569 residenti e 167 non residenti (soprattutto braccianti agricoli, domestiche e apprendisti artigiani). 128 persone abitavano a Unterau / S. Giacomo, 151 a Seit, 96 a Montelargo e 361 a Laives paese. Di questi, solo 53 erano possidenti e perciò ammessi al voto. Insomma, un mondo decisamente diverso da quello attuale.

I primi sindaci vennero dalla potente famiglia Kurzel. Il capostipite Lorenzo fu capocomune dal 1836 al 1846, suo figlio Anton dal 1870 al 1875, il nipote Caesar dal 1879 al 1907. Al termine della battaglia elettorale del 1907, prevalse un nome nuovo, Josef Ebner, che rimase in carica fino al 1926, quando fu sostituito da Alfred(o) Gerber.

Nel dopoguerra, le prime elezioni democratiche si tennero nel 1952. Fu eletto nuovamente Alfred Gerber, sostituito nel 1956 dal democristiano Ennio Janeselli. Nel frattempo la popolazione di Laives era passata dai  3200 abitanti del 1921 a 8400, di cui 6500 del gruppo linguistico italiano. 

Il “ribaltone” che scosse il mondo politico sudtirolese avvenne nel 1960, quando un giovane politico rampante della Svp di nome Eduard Weis riuscì del tutto inaspettatamente a impadronirsi delle redini del comune grazie a un accordo con una lista civica e i socialisti. Fu il primo e per molti anni unico sindaco “tedesco” in un comune italiano. Il consiglio comunale era composto da 20 consiglieri, la maggioranza risicatissima poteva contare solo su 11 voti. 

Rimasero all’opposizione la DC, il PSDI, il MSI e il PCI. 

Chi erano quei 20 eletti? Per la DC, maggior partito italiano, Ennio Janeselli (sindaco uscente), Luigi Ornaghi (mitico maestro), Carlo Gioia, Orlando Pristerà (entrambi sindaci in anni successivi), Giovanni Tonazzoli, Armando Polonioli (anche lui sindaco). 

Il PCI mandò in consiglio il medico Tito Vezio Grazi, la lista civica Albino Loner e Mario Tabarelli. 

Il PSDI Armando di Anselmo, il PSI Renato Corrarati, Ottorino Muzzana e Giuseppe Corbella. Il MSI elesse Aurelio Poliandri, mentre i consiglieri SVP (che nel giro di 8 anni a causa della forte immigrazione italiana perse un terzo dei seggi) furono Adolf Hafner, Franz Warasin, Eduard Weis, Josef Clementi, Josef Pircher e Antonio (Toni) Espen. 

Dunque 14 italiani e 6 tedeschi. Il 2 luglio Eduard Weis fu eletto sindaco con 11 voti su 13 presenti. 7 consiglieri non si presentarono in aula. Loner, Corrarati, Corbella e Espen furono nominati assessori. Nel 1961 a Corrarati subentrò un altro nome notissimo a Laives, Pio Pegolotti. Nel 1962 entrò in consiglio un esponente storico del MSI, Gaetano Borin, padre di Bruno, a sua volta consigliere di lungo corso. Nel 1962, in seguito a dissidi con i socialisti, Weis si dimise per permettere un “ribaltone nel ribaltone”: uscirono dalla giunta i socialisti ed entrarono la DC con Gioia e Pristerà oltre a Di Anselmo e Primo Loner. 

Il caso Laives suscitò scalpore non solo in Alto Adige. I nazionalisti italiani allora guidati dal quotidiano Alto Adige gridarono allo scandalo a causa di quel giovane sindaco sudtirolese. Attaccò perfino il rappresentante del MSI che aveva votato a favore del bilancio scrivendo: “Quello che resta inspiegabile è invece il voto favorevole dato al bilancio ed alla Giunta dal consigliere del MSI…” 

La Giunta di Weis terminò la legislatura ma restò un fatto isolato (fino ai giorni nostri): nel 1964 i rapporti di forza rimasero più o meno gli stessi ma sindaco fu eletto l’emergente democristiano Armando Polonioli (a sua volta padre di un altro sindaco, Giovanni), allora primo cittadino più giovane d’Italia.

Autore: Reinhard Christanell

Il rugby meranese al Trofeo Coni in Sicilia

Guardare avanti, passare indietro, ginocchia alte e placcare. Poche regole per un gioco appassionante, il rugby: uno di quegli sport che chi lo ha provato non riesce a smettere di amare, anche in età avanzata. Ma è dalle giovani leve che dipende il futuro dello sport, e a Merano un gruppo di atlete ha dimostrato che il futuro della palla ovale è roseo, tornando entusiaste e vittoriose dalla nona edizione del Trofeo Coni 2024 a Catania.

Alto Adige, terra di sport invernali e di calcio. Ma a Merano la palla è ovale, non tonda, e si prende con le mani, a meno che non si voglia effettuare un drop o portare il XV più vicino alla meta. Lo sanno bene i vertici della sezione rugby della Polisportiva Asm, che ha visto partire per la Sicilia dieci ragazze per quella che nell’ambiente viene comunemente definita l’Olimpiade degli Under 14. 

La manifestazione, che ha avuto l’onore della presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di apertura, nasce con l’intento di diffondere i valori universali della pratica sportiva quali elementi fondamentali per un equilibrato percorso di crescita della persona e dell’atleta. E quest’anno in Sicilia c’era un totale di circa 250 persone tra giocatori e staff, con una significativa maggioranza di partecipazione femminile. 

Fra queste, dunque, le dieci rugbiste altoatesine: alcune provenienti da Merano, altre da Bolzano, alcune di lingue tedesca, altre di lingua italiana, ma tutte unite dall’amore per la palla ovale. 

A Catania, poi – a detta di tutti, anche dagli allenatori Federali rappresentanti della Federazione Rugby, – le ragazze altoatesine hanno sfoggiato un’ottima forma e sono tornate tutte con una meravigliosa medaglia: la certezza di aver giocato dell’ottimo rugby e di aver dato il meglio di loro stesse, facendo nuove amicizie e  ampliando i propri orizzonti. “Hanno ottenuto una nuova certezza – spiegano dalla dirigenza – ovvero che il rugby insegna che si è avversari solo in campo: fuori ci si diverte tutti assieme”.

Autore: Luca Masiello

Oltre il pubblico elegante: la classe operaia e l’immigrazione

Se il turismo aveva significato la “mobilità” delle classi elitarie ed agiate, in viaggio per le cure o per diporto, e se spontaneamente si rimane affascinati dalle mille storie di eleganti dame in cappello, guanti ed ombrellino, non si può però dimenticare che la città aveva anche un’altra anima, quella più facilmente pronta a scivolare nell’oblio della coscienza e della memoria: gli immigrati e la classe operaia.

La mobilità che da sempre aveva portato uomini e donne ad attraversare le nostre contrade, fu riattivata durante gli sconvolgimenti politici dell’età napoleonica, a cavallo fra XVIII e XIX secolo. 

Non solo, nel periodo dell’occupazione bavarese, nel primo decennio dell’Ottocento, anche i confini di stato e quelli delle diocesi subirono continui mutamenti. In questo turbinio di avvenimenti, mentre il Tirolo veniva smembrato e il confine tra Regno di Baviera e Regno d’Italia correva tra Gargazzone e Nalles, Merano divenne un fiorente centro commerciale e di contrabbando attraverso la val di Non. Per un breve periodo, dunque, fino alle nuove risoluzioni del Congresso di Vienna (1815), Merano fu la meta di un consistente numero di immigrati trentini, ma il nuovo declino che aveva reinghiottito la città determinò una battuta d’arresto nella mobilità. 

Dettata dal terrore del colera che nel 1836 dilagava da sud, ci fu una nuova e massiccia immigrazione dalle valli trentine.

Nel XIX secolo i lunghi periodi di guerra, le carestie, le epidemie abbattutesi con diversa intensità sugli stati asburgici, indussero numerosi tirolesi e trentini ad unirsi al movimento migratorio diretto oltreoceano, oppure a cercare stagionalmente, fuori dei propri confini, una qualche forma di sostentamento. 

Muratori, braccianti agricoli e artigiani lasciavano le proprie case per recarsi in Svizzera, addirittura in Sassonia, in Turingia, in Vestfalia Altri ancora si mettevano in cammino per piazzare la propria merce, generalmente minutaglia, da vendere di villaggio in villaggio.

L’attività del venditore ambulante era particolarmente esercitata dagli abitanti delle valli Gardena e Stubai, che giravano l’Europa vendendo oggetti anche di loro stessa produzione come tappeti, guanti, cappelli, sculture lignee, utensili e casalinghi. Simile destino era riservato ai braccianti delle valli trentine: i paroloti si mettevano in cammino per vendere e riparare paioli, i moleta per arrotare coltelli e lame, mentre i venditori di stampe del Tesino, ad esempio, facevano sognare ed arricchivano l’immaginario delle genti che incontravano. 

Le povere condizioni di vita in molte valli determinarono il particolare destino di una parte della popolazione venostana o meglio di uno specifico gruppo marginale di quella zona e dell’Alta Valle dell’Inn, che potremo indicare come girovaghi costretti dalla povertà a questo stile di vita: il fenomeno dei Karrner o Karrenzieher, trascinatori di carri. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

Giornate europee dei Cortinari 2024

Nel comune svizzero di Quarten, nel Canton San Gallo, distretto di Sarganserland, sul lago di Walenstadt, e presso il nuovo centro di Schönstatt s’è tenuto il 40° congresso europeo dei Cortinari, organizzato dall’associazione micologica JEC. Dopo la prima trasferta parmense dello scorso anno, raggiungere Quarten da Merano è stata un’esperienza decisamente importante; – in primis – perché vissuta al di fuori di una sorta di zona di confort; e, in secondo luogo a causa del fatto che sono stato ufficialmente incaricato di realizzare fotografie e video delle attività sociali, godendo di ampia autonomia, intento a catturare sfumature, particolari e dettagli in una zona ancora sconosciuta agli occhi. Non mi sono dunque limitato a ritrarre i carpofori in habitat (a mano libera s’intende, perché predisporre un set, nel bosco, necessiterebbe di troppo tempo), ma di descrivere e regalare, sia ai soci presenti, sia a quelli che non hanno potuto aderire quest’anno, testimonianze e ricordi della settimana elvetica. Anche al Nord delle Alpi sono state giornate meteorologicamente frizzanti, condite da tanta pioggia, vento e poco sole. Mercoledì 9, dai resti dell’uragano Kirk, abbiamo provato sulla nostra pelle gli effetti del favonio da Sud con raffiche davvero costanti e imponenti fino a notte fonda. Il vociare dei rami flessi dal vento sormontava i nostri richiami! Purtroppo la speranza di immortalare l’aurora boreale e la SAR del 10/11 ottobre è svanita a causa della copertura nuvolosa e della pioggia incessante; mentre in Italia le condizioni erano ottimali. Il nuovo centro di Schönstatt aveva tutto l’occorrente a portata di mano, quindi ogni attività, dal pernottamento, alle determinazioni, alle riunioni, al rifocillamento la si è potuta svolgere comodamente in sede, eccetto, naturalmente le gite. Ogni mattina, infatti, dalle ore 9, tre gruppi di diversi colori (escursioni rossa, verde e blu) partivano verso i boschi prescelti per raccogliere miceti. Il Direttivo ha vagliato luoghi dalle molteplici quote (da 450m in su), variegate varietà arboree e tipi di suolo (acido/calcareo); nello specifico Arvenbühl, Amden, Elm, Obersee, Klöntal, Mollis, Chapfensee e Wichlen. Da Wichlen, e dai boschi di conifere a 1600m di quota, abbiamo ammirato tutta la Valle del Sernf, circondata ambo i lati da incantevoli vette alpine quali Kärpf 2794m, Hausstock 3158m, Blistock 2448m, Vorab 3028m, Laaxer Stöckli 2898m, Piz Segnas 3099m, Piz Sardona 3056m. Evidenti le differenze di vegetazione rispetto all’Alto Adige, come boschi misti fino a 1500 metri di quota (perlomeno nelle zone visitate), con faggi e aceri a spadroneggiare, e già con un foliage avanzato. Ho riscontrato un grado maggiore di civiltà, di pulizia e rispetto assoluto nei confronti della Natura, rispetto ai nostri boschi. Il ritorno a casa percorso mediante strade di montagna ha confermato ancor di più questa considerazione, specie al momento di attraversare il Passo Flüela, 2383m, un valico montano di rara bellezza che collega Davos a Susch e poi, ancora, da Zernez, tramite il passo del Forno, 2149m, a Müstair e a Tubre, fino al suolo italico. La Svizzera orientale è una zona poco abitata, un luogo aspro e selvaggio e di una magnificenza naturale incredibile.

Autore: Donatello Vallotta