La strada dedicata a Bruno Buozzi


L’arteria che da via Volta arriva fino a via  Altmann è dedicata a Bruno Buozzi. Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1882, trovò lavoro a Milano, alla Marelli, poi alla Bianchi. Non trascurava lo studio, leggendo di tutto, anche dopo le 10-12 ore di lavoro. Nel 1905 si iscrisse alla Fiom e aderì al Psi; del sindacato divenne presto membro del direttivo, nel partito si impegnò nella corrente riformista di Filippo Turati. Respingendo la violenza come mezzo di lotta politica, abbracciò l’ideale della gradualità delle conquiste sindacali. Eletto nel 1920 alla Camera per il Psi, rieletto nel  1921, seguì Matteotti e Turati nel nuovo Partito Socialista Unitario, nelle cui liste fu rieletto deputato nel 1924. Nel dicembre 1925, pur essendo perseguitato dal regime, divenne segretario generale della CgdL. Dovette però rifugiarsi in Francia, dove si prese cura dell’anziano leader socialista, Filippo Turati, il quale morì il 29 marzo 1932 proprio nella casa parigina di Buozzi. Arrestato dai tedeschi il 1° marzo 1941, Buozzi fu trasferito, con il collega sindacalista Giuseppe di Vittorio, prima in Germania poi in Italia. Fu confinato per due anni a Montefalco (Perugia). Liberato il 30 luglio 1943, formatosi il governo Badoglio, Buozzi fu nominato commissario dell’Organizzazione dei lavoratori dell’industria. Il 10 settembre 1943 fu con Sandro Pertini a Porta San Paolo, per contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma. Ma Roma fu occupata, e Buozzi rientrò in clandestinità, sotto il falso nome di Mario Alberti. Sorpreso dalla polizia fascista e fermato per accertamenti il 13 aprile 1944, nella prigione di via Tasso fu scoperta la sua vera identità. Il suo nome fu incluso dalle SS in un elenco di 160 prigionieri da evacuare; l’autocarro con Buozzi si fermò all’alba del 4 giugno presso la località “La Storta”. Rinchiusi in una rimessa, nel pomeriggio Buozzi e altri tredici furono brutalmente sospinti in una vicina valletta per essere uccisi ciascuno con un colpo alla nuca.

Autore: Leone Sticcotti

Peter Burchia: un cantautorecon chitarra e pennello


Ci aveva lasciati a bocca aperta Peter Burchia, quando a metà del 2022 se ne è uscito con un 33 giri (sì proprio un disco in vinile, come per dare più valore al progetto) che col titolo di Look Back si è rivelato uno dei più bei dischi realizzati in Alto Adige da quando i musicisti di questa regione hanno cominciato a registrarne. Non stiamo esagerando, Look Back, oltre ad una storia incredibile e unica per quanto riguarda la sua realizzazione, è davvero un disco incantevole, fragile e solido al tempo stesso, senza fronzoli ma con una forza unica, tutto realizzato nell’atelier in cui Burchia vive e realizza i suoi dipinti. Già, perché parallelamente all’attività musicale, Peter porta avanti un’interessante carriera nel campo della pittura.

“Sono due cose che non posso scindere – ci racconta –, nella mia vita ho bisogno che ci sia spazio per entrambe, anche se talvolta la pittura ha il sopravvento. È il motivo per cui alla fine degli anni dieci avevo lasciato gli Shanti Powa: la vita col gruppo non mi consentiva di dedicarmi alle cose mie, tour e concerti erano davvero impegnativi”.

Così il nostro ha scelto di proporsi come musicista di strada, suonando ed esibendosi principalmente quando ne aveva voglia, viaggiando, dipingendo e assemblando i brani finiti poi nel disco di cui sopra. Nel frattempo, un po’ per colpa della pandemia un po’ per le scelte personali dei suoi componenti, gli Shanti Powa, pur rimanendo in auge, hanno diradato l’attività live e Peter ne è ora tornato a far parte da un paio d’anni (è tra l’altro sua la splendida copertina del loro terzo album, Til’ Insanity). In attesa di un nuovo lavoro del gruppo, che potrebbe concretizzarsi il prossimo anno, Peter ha messo per breve tempo in stand by i pennelli per uscire, nello scorso luglio, con un nuovo lavoro, stavolta su musicassetta, dimostrando di prediligere i vecchi sistemi all’insipido digitale, ovunque imperante.

“L’ LP mi aveva portato via molto più tempo – prosegue Peter – sia per la composizione che per la registrazione. Stavolta è stato più veloce, i brani erano solo due e ho cercato di farli in maniera più tradizionale possibile. Sono due brani praticamente acustici, ho messo da parte il computer e per registrarli, visto che per la diffusione ho scelto la musicassetta, li ho registrati direttamente su quel tipo di supporto, collegando il registratore al mixer. La musicassetta sta vivendo un periodo di riscoperta, seppur di nicchia, ma la maggior parte di coloro che pubblicano la loro musica in questo formato, lo fanno registrando digitalmente. Io ho voluto essere analogico il più possibile. È evidente che dal punto di vista dell’audio ci si perde, ma questo mi ha permesso di fare il sound che volevo”.

Nella fattispecie i due brani che appaiono rispettivamente sui due lati della musicassetta, uscita per la Riff Records di Paolo Izzo con mastering di Jürgen Winkler, “avrebbero potuto figurare bene anche sul vinile del 2022, solo che – spiega l’autore –, sono venuti dopo. Avrebbero potuto anche attendere un nuovo disco ma, spesso mi accade che se non fisso subito l’idea, rischio di perderne l’immediatezza e il mood cambia. Il brano che intitola la cassetta, The Rain, l’ho scritto in Senegal nel 2021, quando, zaino in spalla ero partito da Bolzano per andare a trascorrere in quel paese tutto l’inverno. Per quanto riguarda la grafica, è opera mia: l’idea di base è che quando do a qualcuno un mio prodotto mi piace che sia un po’ un pezzo unico, così in questo caso ho fatto in modo che le copie stampate del nastro abbiano tutte una copertina differente. Ho fatto una serie di disegni e ritagliandoli, da ognuno ho ricavato dieci diverse copertine”.

Per quanta riguarda il futuro, per ora nei progetti di Peter ci sono la pittura e gli Shanti Powa, sul tornare a suonare per strada, l’artista non esita ad esprimere un certo scetticismo:

“Devo essere sincero – conclude – mi è un po’ passata la voglia, non escludo di tornare a farlo se cambierà qualcosa, per ora la città Unesco della musica ha dei regolamenti assurdi per quanto riguarda gli artisti di strada, i cosiddetti busker. Per noi non sembra esserci spazio. Una revisione dei regolamenti cittadini è in progetto, staremo a vedere, certo che come stanno le cose adesso non ho proprio voglia di essere visto come un criminale per il fatto che mi esibisco in questo modo”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

In visita all’ospizio di San Floriano a Laghetti di Egna


Da sempre il viaggio era fonte di insidie e preoccupazioni: oltre al problema della condizione delle strade, il viaggiatore si interrogava quotidianamente sul dove e come superare la notte ma soprattutto sul come sarebbe stato accolto come forestiero. Nell’antichità e nel Medioevo infatti lo straniero era visto con sospetto fino ad essere considerato un nemico o un portatore di malattie. I monasteri o gli eremi, spesso ubicati in zone totalmente disabitate, costituivano l’unica ancora di salvezza per quei viaggiatori che si trovavano per via cercando di raggiungere le mete del pellegrinaggio medievale e di frequente erano organizzati per l’accoglienza di massa.

La prima menzione di una chiesa e di un prete in zona San Floriano risale al 1188, cosa che potrebbe indurre a datare la chiesetta al XII secolo. Risale al 1316 la testimonianza dell’attività di una Compagnia di San Floriano, facendo così risalire il Conventino al XIII secolo. Un documento del 1316 attesterebbe invece l’opera di una confraternita di padri domenicani. 

L’ospizio di San Floriano ha conservato intatta nei secoli la sua antica fisionomia. È costituito da tre edifici posti a quadrato intorno ad un cortile ed un muro difensivo nel lato privo di costruzione. Proprio per la necessità pratica e funzionale dell’insieme abitativo, le finestre, le porte ed ogni altro dettaglio non recano né cornici né decorazioni aggettanti di sorta. Un lato era occupato dalla chiesa, la cui navata fungeva da supporto ad un ampio dormitorio. Dal dormitorio, attraverso una apertura a forma d’arcata praticata sul muro orientale, si poteva guardare nell’abside ed assistere alla messa. Molti ospiti si trovavano costretti a letto stremati dalle fatiche del lungo viaggio a piedi, oppure colpiti dalla malattia, così per dar modo anche a loro di seguire con attenzione la liturgia furono sistemati nel muro del presbiterio numerosi vasi acustici, vere e proprie casse di risonanza. Il corpo principale della fabbrica era affiancato da un altro braccio abitativo disposto su due piani. A pianterreno si trovavano locali adibiti a diversi usi come ripostigli, magazzini ecc., al primo piano invece si sviluppava un ulteriore vasto dormitorio. Alle due estremità opposte di quest’ultimo ambiente si trovavano alcune stanzette per i sorveglianti e per i viaggiatori di riguardo come ad esempio prelati, nobili e autorità. Sul lato opposto, a est, si trovavano le stalle, i fienili, le cantine e le dispense. Nel XVI e nel XVII secolo il complesso subì una ristrutturazione: vi fu l’aggiunta di un piano nel tratto occidentale, e degli abbellimenti come ad esempio le scritte latine del 1501 e del 1514 che probabilmente decoravano la sala da pranzo. 

COME ARRIVARCI

Laghetti è una frazione di Egna, posta lungo la statale che collega Bolzano a Trento. Dista circa 30 km da Bolzano e altrettanti da Trento. Il conventino è posto poco a nord del paese, vicino alla centrale elettrica.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La nascita della comunità russo – ortodossa nella città termale


Fin dagli esordi della Merano città di cura, la clientela russa vi giunse copiosa spinta dalla ricerca del tepore primaverile e autunnale e del “sole caldo del sud”. Fra i numerosi villeggianti e convalescenti non mancavano i medici in viaggio per cercare nuove cure da sperimentare oppure per far conoscere i propri rimedi, fra cui il dottor Levsin, un russo.

Il dottor Levsin, inventore del Kumys, ossia il siero di latte di cavalla, fermentato, frizzante ed alcolico, fu uno tra i primi ad arrivare in riva al Passirio. Giunto in città per un periodo di villeggiatura, aveva ceduto la propria ricetta di questa bevanda a due farmacie meranesi. Qui infatti non si conosceva ancora questa cura, né le sue proprietà terapeutiche contro malattie come lo scorbuto, l’anemia ed altri disturbi del ricambio sanguigno. Levsin morì però a Monte San Giuseppe nel 1874 e fu sepolto nel cimitero evangelico di Merano. 

Un altro medico che si era nel frattempo stabilito in città, Michael von Messing, di origine russo-tedesca, si era subito impegnato nella ricerca e nell’ulteriore sviluppo della cura del siero di latte di cavalla. Nel 1874 sul “Meraner Kurzeitung” era apparso un suo articolo sui benefici del kumys, inventato appunto dal compianto compatriota. 

Non furono pochi nemmeno i cittadini russi che decisero poi di stabilirsi in città, tanto che a partire dal 1875 essi fondarono il “Comitato russo”. Si trattava di un’associazione privata fondata da cittadini russi, facoltosi e di religione ortodossa. Il Comitato si manteneva con le offerte e la beneficenza degli stessi soci e aveva come scopo l’aiuto e il soccorso di tutti quei correligionari che si trovavano in difficoltà economica, e permettere ai meno abbienti, malati di tubercolosi, di trascorrere a Merano lunghi periodi di convalescenza.

Allo scopo era necessario fondare un pensionato, dove accogliere i correligionari che non fossero allo stadio terminale della malattia, ed offrir loro le migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che religioso e, perché no, dove la cucina fosse quella tradizionale russa. 

Fra i primi passi avanzati dai membri del Comitato ci fu quello di richiedere al governo austriaco il permesso per la fondazione della Comunità e soprattutto l’autorizzazione per costruire una chiesa ortodossa in città. Contemporaneamente dovettero assicurarsi il consenso del metropolita di San Pietroburgo, Isidoro, sovrintendente alle chiese ortodosse all’estero e ricevere il suo permesso di costruire una chiesa e celebrare messe a Merano. 

La formazione di una Comunità significava adempiere a tutta una serie di esigenze anche burocratiche, da assolvere sia nei confronti della propria nazione d’origine, sia con il comune e la nazione ospitante; bisognava insomma attenersi a due legislazioni e render conto ad entrambe in ogni momento. Aprire ad esempio un pensionato per malati non abbienti significava anche provvedere alla loro sepoltura poiché né loro né i loro parenti avrebbero potuto sostenere le costose spese del rimpatrio della salma, come invece avveniva in genere per i benestanti e l’aristocrazia. 

La preoccupazione di trovare quindi un cimitero dove offrir degna sepoltura ai propri compatrioti non era un problema da poco vista l’impossibilità di condividere il cimitero cattolico che, per tradizione, non prevedeva una mescolanza di tombe nemmeno se cristiane. Fu invece il cimitero evangelico a condividere con la Comunità russo-ortodossa e con quella anglicana gli spazi per le tombe e i monumenti funebri.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Una canzone che cura

Recentemente ho fatto una serie di riflessioni, leggendo sui giornali della fatica che fa la sanità altoatesina a venire incontro alle esigenze dei suoi pazienti. Mi è venuto in mente un viaggio che feci in Brasile, una quindicina di anni fa. Lì, tra gli altri, ebbi occasione di visitare un missionario altoatesino allora attivo nella città di San Paolo, una megalopoli di decine di milioni di abitanti. Si occupava di una parrocchia di quartiere ed era molto brillante e amato dai suoi fedeli, ma viveva “asserragliato”, una condizione molto normale in una città nella quale ai semafori non ci si ferma col rosso per paura di essere rapinati. Quando gli chiesi cosa sarebbe successo se fosse stato male e avessero dovuto soccorrerlo con l’ambulanza, lui mi disse che questa cosa lì… non esisteva. Ebbene: questo avviene nella maggior parte del terzo mondo; lì il suono delle ambulanze tace… in partenza. Insomma: nel nostro primo mondo facciamo bene a lamentarci se i servizi non funzionano come promesso a fronte di tanti investimenti pubblici, ma è anche utile pensare che siamo comunque dei privilegiati, rispetto alla maggior parte degli altri abitanti sul pianeta terra.
Un’altra mia riflessione, in questi giorni, ha riguardato il significato più esteso della parola “cura”.
Tale termine nella nostra lingua va ben oltre al trattamento delle malattie. Ce lo ha insegnato ad esempio don Lorenzo Milani che, negli anni ’60 scrisse il suo motto “I care” sui muri della scuola di Barbiana, da lui fondata per strappare dall’analfabetismo i bambini del paese dove era stato esiliato dai vertici della sua diocesi fiorentina. In quel caso la parola stava a significare mi importa, mi interessa, ho a cuore, e tale messaggio successivamente è stato adottato da quella larga parte del mondo ecclesiale che si interessa alla promozione della persona umana e alla giustizia sociale.
“La cura” è anche il titolo di una bellissima canzone in cui Franco Battiato nel 1996 prosegue nel solco di un altro brano da lui scritto otto anni prima e intitolato “E ti vengo a cercare”. Entrambe le canzoni parlano d’amore, ma è proprio in “La cura” che Battiato, grazie anche ad una bellissima melodia, ci spiega con grande poesia quanto prendersi cura di se stessi e coltivare la propria anima possa diventare (anche) un instancabile accudimento dell’altro che ci sta a fianco. La canzone inizia dicendo “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie” e si conclude con un impegno: “Io sì, avrò cura di te”. è una canzone che cura.

Redattore: Luca Sticcotti

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Pensieri dal bosco 2


Primavera e quarantacinque giorni d’estate – quella meteorologica inizia il 1° giugno – sono risultati particolarmente piovosi, tanto che i nostri amati boschi scintillano di tutti i tipi di verde. La terra è bagnata e scura ed emana quell’intenso profumo di humus. Dopo essere tornato dalla Liguria, ho perlustrato zone piuttosto impervie e poco battute, a bassa quota, intorno agli 800m, fino a raggiungere i 1300m.

Le ricerche e le determinazioni che mi sono appuntato sono avvenute a scopo puramente personale, ergo senza l’uso di lenti di ingrandimento, libri, chiavi, senza l’ausilio del microscopio e dei reagenti. Considerate le T notturne lievemente sotto media per la prima decade del mese e che, di solito, non si palesano crescite abbondanti, come avviene in autunno, ho optato per inerpicarmi lungo versanti esposti a sud di bosco termofilo misto, in cui bastano le giuste ore di sole per stimolare il micelio (con precipitazioni abbondanti). Generalmente per termofilo s’intende un bosco di quercia, cerro, castagno, faggio o di caducifoglie miste, purché situato in area riparata, ben soleggiata e a microclima caldo; in Alto Adige, patria egemone del peccio (e del bostrico, sigh), queste fasce boschive miste si trovano solo lungo parti di una isoipsa ben definita, che non supera i 1100/1400 metri di quota a seconda delle zone e all’esposizione dei versanti, al netto di esemplari solitari di latifoglie a quote appena superiori, eccezion fatta per le betulle. Naturalmente a querce, cerri e caducifoglie miste, pressoché assenti, o presenti in preziose e sparute nicchie, da noi c’è il bellissimo pino silvestre (tana prediletta della processionaria, sigh); ma, a quote di montagna, di bosco a microclima caldo ne troviamo ben poco. Questa multi-varietà di specie, tra abeti, pini e latifoglie, che dopo l’epidemia di bostrico, dovrebbe divenire più costante, preservando gli abeti sopravvissuti e aumentando la biodiversità, avrà pure il pregio di incrementare le specie fungine simbionti o micorriziche, legate al singolo albero. Peraltro, a titolo informativo, tutte le specie arboree e le loro quote ideali di crescita valgono per la zona alpina, che però aumenta di altitudine quando scendiamo di latitudine. Tra le specie fungine osservate troviamo: Russule virescens, aurea, vesca, cyanoxantha, Agaricus augustus, Boletus aestivalis o reticolatus, Neoboletus praestigiator, Tylopilus felleus, Amanita gemmata, Suillus grevillei (larice), Caloboletus calopus, Infundibulicybe gibba, Laetiporus montanus, Amanita rubescens, Marasmius alliaceus (latifoglia), Mycetinis scorodonius (abete) e l’inconfondibile marea gialla dei Cantharellus pallens.

Donatello Vallotta

La Chiesa evangelica del Salvatore sulle Passeggiate Lungo Passirio


Il 7 febbraio 1876 il governo viennese concedeva il permesso di dar vita a una Comunità evangelica a Merano e costruire una vera e propria chiesa. Ora spettava ai membri della Comunità realizzare questo sogno, iniziando col reperire fondi, sovvenzioni e dando vita ad una raccolta di offerte fra i residenti, gli ospiti di cura e i benefattori vicini e lontani. In capo a pochi anni la Comunità riuscì ad accumulare la considerevole cifra di 50.000 fiorini.

Un terreno, conveniente per il prezzo ma soprattutto per la posizione, fu reperito nella zona di espansione ottocentesca lungo l’allora Stephanie Promenade, molto vicino alla Gisela Promenade, il centro della mondanità cittadina. Il 20 gennaio 1882 fu indetta una gara per il progetto rivolta agli architetti tedeschi ed austriaci. Fra le caratteristiche imprescindibili, volute dalla Comunità, c’era la considerazione che la chiesa sarebbe stata frequentata soprattutto da malati di tubercolosi e bisognava quindi facilitare gli ospiti nei movimenti, lasciare un ampio corridoio nella navata per le sedie a rotelle, evitare giochi di corrente d’aria, offrire sedili comodi e un pavimento caldo. I posti a sedere dovevano essere 250, mentre, a misura igienica, si richiedeva di lasciare uno spazio di un metro tra le bancate.

Per quanto riguardava invece l’aspetto esteriore dell’edificio, esso non doveva risultare fastoso. Alla Commissione giunsero ben dodici progetti e furono scelti i tre giudicati più interessanti. La Comunità decise poi di affidare i lavori al secondo classificato, l’architetto Johann Vollmer di Berlino, assistente di uno degli architetti più importanti di chiese evangeliche e a sua volta esperto di costruzioni sacre e profane. Per seguire in loco i lavori la Comunità cittadina caldeggiò il nome del capomastro Adolf Leyn, correligionario ed esperto del settore per aver lavorato alla costruzione di una chiesa ad Hannover e per aver costruito alcune ville private a Merano. Il 6 ottobre seguente si procedette alla cerimonia della posa della prima pietra e due anni dopo, il 13 dicembre 1885, la chiesa poté essere consacrata al Salvatore.

All’interno, la decorazione lignea a rilievo dell’altare e del pulpito fu affidata al noto Franz Xaver Pendl, che si occupò anche del corpo del Cristo in croce. La finestra nell’abside, che rappresenta Gesù come il buon pastore fu realizzata insieme alle finestre della navata sud nel 1885 da una bottega di Monaco di Baviera. Il fonte battesimale di marmo policromo con foggia neogotica, dono dell’imperatore tedesco Guglielmo I, aveva trovato posto in posizione privilegiata proprio davanti l’altare. Sulla facciata, subito sopra l’ingresso mancava la figura del Cristo benedicente, ma il bozzetto realizzato dallo scultore Fuchs non piacque e l’idea di affidare l’opera ad Emanuel Pendl non trovava risposta nei conteggi finanziari e si decise quindi di rimandare. Certo l’attesa non fu brevissima: passarono infatti dieci anni, quando nel febbraio del 1896 si commissionò una statua di un Cristo benedicente, sul modello di quello più famoso del Thorwaldsen, alla società della cava di Lasa, che consegnò il pezzo nella primavera del 1897.

Flavio Delladio e i Rolling Stones, una relazione di lungo corso


Non è proprio un disco appena uscito ma, lo ammettiamo, ci era sfuggita questa nuova eccellente produzione del chitarrista bolzanino: Flavio Delladio Band suona i Rolling Stones.

A dispetto del titolo, non si possono relegare band e disco nel pur dignitoso (ma non sempre) mondo delle cover band; oltre a rispettare lo spirito delle canzoni originali senza stravolgerle, il titolare ci mette del suo negli arrangiamenti. Dalle nostre parti sono davvero in pochi, oltre a lui, a conoscere davvero a fondo la musica dei Rolling Stones, sono meno delle dita di una mano e questi sono i loro nomi: Marco (il fratello di Flavio), Bobbi Gualtirolo e Agostino Accarrino. Per il resto, adattando un vecchio detto napoletano, il diritto di eseguire una cover dei Rolling Stones e una laurea in legge, non si negano a nessuno!

Da qui a fare una cover rollingstoniana come si deve però, la strada e lunga. Lunga come la frequentazione di Delladio con la musica del gruppo.

“Effettivamente è cominciato tutto un sacco di tempo fa – ci racconta l’artista –, con mio fratello Marco ascoltavamo non solo gli Stones, ma prevalentemente loro erano la nostra passion. A dodici anni circa abbiamo cominciato a voler fare una band che suonasse solo Rolling Stones, così sono nati i Tumbling Dice, il cui nome veniva ovviamente dal titolo di un brano dei nostri beniamini. Eravamo proprio piccoli, ma avevamo quella musica dentro, li ascoltavamo giorno e notte.”

Dei Tumbling Dice facevano parte il maggiore dei fratelli Delladio, Alessandro, un Mario Punzi quasi bambino, il bassista Sandro Garbin e il cantante Sandro Fonte. Ricordiamo un mitico concerto del gruppo a fine 1983, in un teatro tenda allestito in viale Trieste davanti allo stadio Druso. Flavio e Marco, con le loro chitarre avevano la stessa presenza scenica di Keith Richards e Ronnie Wood, mentre Fonte citava a piene mani il Mick Jagger ginnico di quegli anni. A parte il maggiore dei Delladio, gli altri erano ancora tutti minorenni.

“Questo disco è davvero un ritorno alle origini – prosegue Flavio –, perché prima o poi si ritorna lì dove tutto era cominciato. E non è un caso che nella mia band da qualche anno ci siano di nuovo Sandro Garbin e Sandro Fonte. Dal suonare ancora con loro due alla decisione di fare il disco, il passo è stato davvero breve. Poi, il nostro repertorio è fatto anche di altre cose, ma l’idea di dedicare un disco a questa musica ci è parso bello”.

E non si può dargli torto, il disco suona bene, ci sono giustamente quelle canzoni dei Rolling Stones di atmosfera country, che funzionano perfettamente con quello che il gruppo suona dal vivo, ma ci sono anche accostamenti al blues e a ballate come Angie e Wild Horses, interessante l’arrangiamento di Country Honk, in cui Delladio rifà col dobro la parte che nell’originale era stata affidata al violino di Byron Berline e interessanti sono anche alcuni duetti vocali tra Delladio (che rimane la voce principale) e Fonte. Uno dei pregi del prodotto è che né Delladio né Fonte tentano di scimmiottare Jagger al canto, e nell’uso della chitarra il capobanda ci mette sempre il proprio stile. Nel disco però, e la cosa è ben evidenziata in copertina, oltre alla Band di Flavio (che si completa con il percussionista Victor Santos e la chitarra ritmica di Roby Massa) ci sono anche una mezza dozzina di session man di grido, qui chiamati i Giganti del Rock Italiano, gente che ha suonato con Zucchero e Vasco Rossi, con gli Stadio. La produzione è di quel Simone Olivetti che recentemente ha preso parte anche al disco di Mirko Giocondo.

“L’amicizia con questi musicisti – ci spiega Delladio – è di lunga data. Ho cominciato a frequentare alcuni di loro quando lavoravo in duo col bassista Pasquale Neri, e sono sempre rimasto in contatto con loro. Sono tutti presenti nel primo brano del CD: Gallo Golinelli suona il basso, Adriano Molinari la batteria, Fabrizio Foschini degli Stadio è alle tastiere, Andrea Cucchia al sax e Cicci Bagnoli alla chitarra. Io, ovviamente, canto e suono la solista”.

È notizia dell’ultima ora che la Flavio Delladio Band sarà uno dei tre gruppi che si contenderanno questo weekend nella piazza principale di Rovigo, il titolo di miglior gruppo blues italiano e la possibilità di rappresentarci all’International Blues Contest di Memphis!