Flavio Delladio e i Rolling Stones, una relazione di lungo corso


Non è proprio un disco appena uscito ma, lo ammettiamo, ci era sfuggita questa nuova eccellente produzione del chitarrista bolzanino: Flavio Delladio Band suona i Rolling Stones.

A dispetto del titolo, non si possono relegare band e disco nel pur dignitoso (ma non sempre) mondo delle cover band; oltre a rispettare lo spirito delle canzoni originali senza stravolgerle, il titolare ci mette del suo negli arrangiamenti. Dalle nostre parti sono davvero in pochi, oltre a lui, a conoscere davvero a fondo la musica dei Rolling Stones, sono meno delle dita di una mano e questi sono i loro nomi: Marco (il fratello di Flavio), Bobbi Gualtirolo e Agostino Accarrino. Per il resto, adattando un vecchio detto napoletano, il diritto di eseguire una cover dei Rolling Stones e una laurea in legge, non si negano a nessuno!

Da qui a fare una cover rollingstoniana come si deve però, la strada e lunga. Lunga come la frequentazione di Delladio con la musica del gruppo.

“Effettivamente è cominciato tutto un sacco di tempo fa – ci racconta l’artista –, con mio fratello Marco ascoltavamo non solo gli Stones, ma prevalentemente loro erano la nostra passion. A dodici anni circa abbiamo cominciato a voler fare una band che suonasse solo Rolling Stones, così sono nati i Tumbling Dice, il cui nome veniva ovviamente dal titolo di un brano dei nostri beniamini. Eravamo proprio piccoli, ma avevamo quella musica dentro, li ascoltavamo giorno e notte.”

Dei Tumbling Dice facevano parte il maggiore dei fratelli Delladio, Alessandro, un Mario Punzi quasi bambino, il bassista Sandro Garbin e il cantante Sandro Fonte. Ricordiamo un mitico concerto del gruppo a fine 1983, in un teatro tenda allestito in viale Trieste davanti allo stadio Druso. Flavio e Marco, con le loro chitarre avevano la stessa presenza scenica di Keith Richards e Ronnie Wood, mentre Fonte citava a piene mani il Mick Jagger ginnico di quegli anni. A parte il maggiore dei Delladio, gli altri erano ancora tutti minorenni.

“Questo disco è davvero un ritorno alle origini – prosegue Flavio –, perché prima o poi si ritorna lì dove tutto era cominciato. E non è un caso che nella mia band da qualche anno ci siano di nuovo Sandro Garbin e Sandro Fonte. Dal suonare ancora con loro due alla decisione di fare il disco, il passo è stato davvero breve. Poi, il nostro repertorio è fatto anche di altre cose, ma l’idea di dedicare un disco a questa musica ci è parso bello”.

E non si può dargli torto, il disco suona bene, ci sono giustamente quelle canzoni dei Rolling Stones di atmosfera country, che funzionano perfettamente con quello che il gruppo suona dal vivo, ma ci sono anche accostamenti al blues e a ballate come Angie e Wild Horses, interessante l’arrangiamento di Country Honk, in cui Delladio rifà col dobro la parte che nell’originale era stata affidata al violino di Byron Berline e interessanti sono anche alcuni duetti vocali tra Delladio (che rimane la voce principale) e Fonte. Uno dei pregi del prodotto è che né Delladio né Fonte tentano di scimmiottare Jagger al canto, e nell’uso della chitarra il capobanda ci mette sempre il proprio stile. Nel disco però, e la cosa è ben evidenziata in copertina, oltre alla Band di Flavio (che si completa con il percussionista Victor Santos e la chitarra ritmica di Roby Massa) ci sono anche una mezza dozzina di session man di grido, qui chiamati i Giganti del Rock Italiano, gente che ha suonato con Zucchero e Vasco Rossi, con gli Stadio. La produzione è di quel Simone Olivetti che recentemente ha preso parte anche al disco di Mirko Giocondo.

“L’amicizia con questi musicisti – ci spiega Delladio – è di lunga data. Ho cominciato a frequentare alcuni di loro quando lavoravo in duo col bassista Pasquale Neri, e sono sempre rimasto in contatto con loro. Sono tutti presenti nel primo brano del CD: Gallo Golinelli suona il basso, Adriano Molinari la batteria, Fabrizio Foschini degli Stadio è alle tastiere, Andrea Cucchia al sax e Cicci Bagnoli alla chitarra. Io, ovviamente, canto e suono la solista”.

È notizia dell’ultima ora che la Flavio Delladio Band sarà uno dei tre gruppi che si contenderanno questo weekend nella piazza principale di Rovigo, il titolo di miglior gruppo blues italiano e la possibilità di rappresentarci all’International Blues Contest di Memphis!

Anche Laives aveva il suo Don Camillo


Laives divenne curazia nel 1711, precisamente il 3 agosto. Il primo curato fu Zacharias Hochleitner, che rimase in carica fino al 1718. Prima di allora i sacerdoti scendevano da Bolzano a Laives nel fine settimana o in occasione di ricorrenze particolari. Alloggiavano nella vecchia canonica accanto alla chiesa poi demolita.

Molti dei curati succedutisi nel corso dei decenni lasciarono un segno profondo nella comunità. Alcuni entrarono nella leggenda paesana: qualcuno per le sue virtù, altri per ragioni meno nobili. Tale Josef Grafer, per esempio, curato dal 1832 al 1856, era un omone gigantesco, tanto che dovettero fabbricargli un confessionale su misura. Anton Guggenberger, suo successore, rimase in carica fino al 1862 e si impegnò la costruzione della nuova chiesa. Leggendario anche il curato Thaddaeus von Elzenbaum, nato a Termeno nel 1849 e in servizio a Laives dal 1877 al 1905. Il più importante di tutti fu probabilmente Bartlme Clementi, attivo dal 1919 al 1947: dovette gestire i disastri della prima guerra mondiale, il passaggio del Sudtirolo dall’Austria all’Italia e, soprattutto, le infinite angherie del faascismo che a Laives era ben radicato. I funerali solenni di Clementi entrarono nella storia della città. A Clementi succedette un altro parroco leggendario, Alois Pfoestl, a Laives fino al 1973.

Il protagonista della nostra storia non è nessuno di costoro bensì il sacerdote che ereditò la carica da von Elezenbaum agli albori del XX secolo, ossia Benjamin Vescoli. Nativo di Redagno, arrivò a Laives poco più che trentenne da Luserna e vi rimase fino allo scoppio della grande guerra nel 1914. Era un uomo controverso, legati a valori d’altri tempi e, soprattutto, noto per la sua intolleranza nei riguardi dei “costumi” liberali del genere femminile. Questo Don Camillo locale fu spesso preso di mira dai liberali e anticlericali dell’epoca, tra cui spiccava il giornale socialdemocratico “Volkszeitung”.

Il 12 febbraio 1909 il periodico “dei lavoratori” pubblicò un articoletto di poche righe che forse sfuggì a molti lettori. Il titolo del pezzo suonava “Pfäffischer Größenwahn”, megalomania pretesca. “Del parroco di Laives ci siamo già occupati in diverse occasioni”, scrisse il giornale, “e di recente è avvenuto un altro fatto rimarchevole. Una maestra dell’asilo ha organizzato una festa per i suoi bambini e quando “Sua Eccellenza” l’ha saputo ha preteso che tutti i bambini peccaminosi che avevano partecipato all’innocente festa si scusassero con lui. In ginocchio”.

La storia poteva finire qui ma ovviamente il curato reagì alla sua maniera. “Se l’autore di queste righe è in grado di provare le sue affermazioni, può ritirare presso il sottoscritto la somma di 50 corone; in caso contrario è un vile mentitore”. Il giornale rispose a sua volta con un lungo pezzo che apparve il 12 marzo: “Caro amico Vescoli, l’appetito viene mangiando e perciò ti serviamo un’altra porzione che forse ti convincerà ad aumentare il premio a 100 corone. Dica il curato se corrisponde a verità che le 15 bambine che avevano partecipato alla festicciola dell’asilo siano state costrette a chiedere perdono in ginocchio; non solo, dica anche se corrisponde a verità che a tutte le partecipanti alla festicciola il curato pretese che venisse messo il voto tre in condotta (“Sitten” si chiamava la materia, ovvero “costumi”, più o meno come nell’odierno Iran, dove esiste la polizia morale)”.

Il giornale rimproverò anche al Vescoli di aver spostato il funerale di un bambino per poter partecipare a una festa sul Montelargo, dove rimase, in “gentile compagnia”, fino a mezzanotte. Come sia finita la vicenda non si sa. Fatto sta che dopo qualche anno il curato levò le tende e si spostò a Monte San Pietro. Concluse la sua carriera a Castelvecchio presso Caldaro, dove morì nel 1936 all’età di 62 anni.

Le pietre d’inciampo di Gunter Demnig

Il ruolo dell’arte oggi è spesso dibattuto insieme al quesito se essa debba esprimere bellezza o piuttosto irritazione e portare il fruitore a indignarsi, discutere, riflettere. Ebbene: lo scultore Gunter Demnig ha saputo trovare la propria risposta a questi quesiti amletici, facendo della Memoria la sua opera più importante e riconosciuta. 

Nato a Berlino nel 1947 ha fatto suo il concetto del Talmud secondo cui una persona viene dimenticata solo quando si scorda il suo nome. Nel 1992 creò e posizionò la prima delle sue pietre d’inciampo nella sua città natale e a tutt’oggi sono più di settanta mila le pietre che ricordano in tutta Europa altrettante vittime della Shoah. Si tratta di pietre cubiche molto simili a sanpietrini sulla cui sfaccettatura superiore viene fissata una lamina di ottone di 10 x 10 cm, con incisi il nome, l’anno di nascita, la data e il luogo della deportazione, il luogo e la data della morte della vittima.

Il 28 marzo 2014 anche a Merano furono collocate le pietre d’inciampo. L’idea di questo importante progetto fu della scuola alberghiera Savoy che contattò e tenne i contatti con l’artista; il lavoro di ricerca così come la lista dei nomi e degli edifici che furono l’ultimo domicilio degli ebrei meranesi dove sarebbero state posizionare le pietre, fu effettuata dagli studenti di due classi del Gymme e del Gandhi che lavorarono insieme per due anni scolastici, prima presso l’Archivio storico e poi a scuola per realizzare le biografie inedite e il libro che ne scaturì. Il progetto ha avuto come obiettivo il non lasciar cadere nell’oblio tutte quelle donne, quegli uomini e quei bambini che vissero e operarono in città e la mattina del 16 settembre 1943 furono strappati dalle loro case, deportati e uccisi nei campi di sterminio del Reich.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Luca Amoriello: nel profondo di sé

Luca Amoriello è un giovane artista, diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. L’abbiamo incontrato in occasione dell’apertura della sua mostra “Profondo me” per capire cosa si cela dietro alla ricerca artistica che produce pezzi unici dal sapore classico.

a mostra “Profondo me” di Luca Amoriello è stata inaugurata lo scorso 22 dicembre presso la sede di COOLtour a Bolzano, in Via Sassari 13/B. L’esposizione è ad ingresso libero e gratuito e resterà aperta fino a fine gennaio. orario 8-12, 15-17, sabato e domenica chiuso.

Quando hai scoperto la tua passione per l’arte?

La passione per l’arte l’ho sempre avuta, però la voglia di studiarla diciamo che mi è venuta molto tardi, poche settimane prima del mio diploma (nel 2019). è’ stato in realtà un cambio di programma, perché al liceo non avrei voluto studiare arte ma ingegneria poi però durante gli anni della scuola ho perso la passione per la matematica, la fisica e tutte le materie che mi sarebbero servite per ingegneria e ho scoperto la creatività che mi ha guidato nella scelta dell’università e fino a qui.

Qual è l’aspetto dell’arte che ti piace di più?

Prima di tutto il fatto che non servano parole, che bastino delle figure per esprimere qualcosa e poi che ogni persona in base al proprio vissuto o alle proprie credenze interpreti, in questo caso una mia scultura, in maniera diversa. Credo che sia una specie di potere questo: lasciare ad ognuno di rivedersi dentro a un’opera d’arte, di cercarsi e (perché no?) trovarsi.

Hai già esposto da qualche parte le tue opere?

Sì, ho esposto una delle mie sculture in occasione di un concorso. A maggio scorso invece, ho esposto una scultura, in occasione della conferenza interazione degli infermieri a Bolzano.

Quale significato hai dato alla tua opera “Atoxic Thoughts?”

Diciamo che non mi piace dare un significato alle opere, perché sono molto convinto come ho già detto prima, che esso cambi in base alla persona quindi dire“ significa questo” significherebbe quasi sminuire l’interpretazione di un’alta persona.L’interpretazione che ho dato io era semplicemente cercare di ragionare con la testa propria, quindi filtrare tutte le cose negative del mondo. C’è infatti una maschera nella scultura ed è una maschera antigas, quindi lei fiata l’aria e ti fa arrivare solo l’aria pulita. È questo il significato che io ho associato ad Atoxic Troughts, filtrare tutte le cose che si sentono e che si vivono per poi ragionare con la propria testa.

Cosa vorresti fare da grande?

Per ora mi sono iscritto al corso di laurea magistrale, perché vorrei fare il professore di arte nelle scuole pubbliche e per farlo serve appunto la magistrale. Però, come per ogni opera d’arte c’è un’interpretazione personale che io non voglio guidare, lascio che la vita mi porti dove deve e non escludo nulla.

Sara Rosca COOLtour

Fermate del bus senza marciapiedi

Nei giorni scorsi il nostro lettore Carlo Rughetti ci ha scritto chiedendoci di interessarci in merito all’assenza di marciapiedi presso le fermate degli autobus di Piazza Domenicani e Corso Libertà nel tratto tra Piazza Vittoria e Piazza Mazzini. Il lettore si domandava con garbo se “gli amministratori pubblici siano a conoscenza del fatto che i viaggiatori del servizio pubblico sono per la maggior parte anziani e anche con difficoltà motorie”.

Ci siamo fatti carico di questa richiesta e abbiamo contattato l’assessore comunale Stefano Fattor, che ha la competenza per quanto riguarda la mobilità urbana, ma non per i lavori pubblici che competono al vicesindaco Luis Walcher. Ecco di seguito e in sintesi la risposta di Fattor.

“Sia Piazza Domenicani che Corso Libertà in futuro dovranno essere rifatte. Al momento Corso Libertà è fatta in quel modo perché durante il cantiere, speriamo prossimo, per la realizzazione del parcheggio interrato di Piazza Vittoria, dovrà ospitare il mercato. Quindi prima di 3/4 anni lì non si potranno fare i marciapiedi rialzati alle fermate che non solo sarebbero assolutamente giusti ma anche obbligatori.

Per Piazza Domenicani il discorso è più complesso, perché la piazza dovrebbe essere rifatta completamente, ma i soldi però non ci sono. Fare delle pedane provvisorie in quel caso però sarebbe praticamente impossibile, perché le fermate dei bus insistono sull’intera piazza. Per rifare Piazza Domenicani, per una serie di motivi, sarà anche necessario attendere il cantiere delle vicine scuole Von Auschneiter, ma anche lì si dovranno aspettare per lo meno tre anni”.

Il disagio dunque, purtroppo, è destinato a durare. Ma almeno ne conosciamo il motivo.

Il sogno infranto di Vanni, l’ottico “saltatore”

La prima storia che vi raccontiamo nel nuovo anno riguarda il sogno infranto, nel lontano 1984, di un professionista molto conosciuto a Bolzano, l’ottico Vanni Campanella. “Ormai è più il tempo della mia vita che ho passato a Bolzano, degli anni in cui ho vissuto a Ferrara, dove sono nato”, ricorda Campanella.

A Bolzano la si conosce per la attività di ottico, ma anche per la sua passione per lo sport, considerado il fatto che è il preparatore atletico del settore giovanile di alcune società sportive bolzanine.

Sono sempre stato un grandissimo appassionato di sport, in tutte le sue forme. Mi piace lavorare con i giovani, che oggi forse hanno meno possibilità, o anche meno capacità, per poter sviluppare la dote innata che hanno per il movimento fisico. Mi piace molto valorizzarla e penso sia questo che mi ha fatto rimanere sempre dentro allo sport.

Lo sport le ha procurato anche delusioni…

Era l’estate del 1984 e sarei dovuto andare con la Nazionale italiana di atletica ai Giochi Olimpici di Los Angeles. Ero bravino, ma ero bravino un po’ in tutte le specialità. L’amore per lo sport mi portava a provare tante discipline. Questa mia esuberanza nel cercare di fare tutti gli sport e non concentrarmi sul salto in lungo, è stato anche causa della mia esclusione dalla squadra per i Giochi. Avevo superato la qualificazione per poter accedere come riserva alle Olimpiadi con un bellissimo salto di 7,98 m. – il mio record personale era un po’ più alto, ma comunque nulla di certificato.

Tra compagni avevamo deciso di giocare l’ennesima partita di pallacanestro. Ora, io sono alto un metro ottanta, che non è chissà cosa, ma avevo una elevazione spaventosa. Presi per andare a schiacciare e in fase di atterraggio sono caduto, procurandomi una leggera distorsione, che nel giro di pochi minuti era diventata una grande distorsione, che mi costrinse a rimanere a casa a curarla, mentre gli altri prendevano l’aereo per andare a Los Angeles.

Mi è sempre rimasto l’amaro in bocca per un infortunio stupido, che comunque è una cosa che succede a tante persone che sono state incapaci di valorizzare i propri talenti. All’epoca non c’erano le persone che ti seguivano e che riparavano gli errori cercando di esaltare le tue caratteristiche e i tuoi punti di forza. Ed è per questo che oggi voglio dare il mio contributo in questo ambito. Oggi se vedo una dote in un atleta, so che posso lavorare per aumentarla, e lo devo fare nel settore giovanile, all’interno di qualsiasi sport, che sia la pallavolo, che sia l’atletica o che sia il calcio. Per me è principalmente nel calcio, perché conosco tantissimi bravi ragazzi giovani e mi piace, in questi ultimi dieci anni, aver dato il mio contributo al loro miglioramento. Vorrei fare in modo che a questi ragazzi non succeda la sfortuna che è occorsa a me, perché è una cosa a cui, a distanza di 40 anni, continuo a pensare.

Si tratta di un grande rammarico, quindi…

È la delusione per aver sprecato un’occasione. Quando ti si rompe veramente il vetro, sai che irreparabile. Ne rimarrà sempre un bel ricordo e per quanto tu poi cerchi di analizzare le cause, sperando che ti aiutino a digerire questa cosa, tu non la digerisci. Quando si infrange un sogno forte, non lo digerisci… Per quanto ce la si possa raccontare, rimane sempre un po’ il retrogusto amaro di questo sogno infranto, è proprio un rimpianto che non se ne va.

Till Antonio Mola

Scaglie di cirmolo

è nata in Austria (vicino a Graz) da una famiglia di optanti. Quando lei aveva 5 anni i suoi genitori hanno fatto ritorno in Italia. Molto giovane (non aveva ancora 15 anni) ha conosciuto il giovanotto italiano di cui parla nell’intervista. Con lui ha incontrato ed imparato ad amare la sua famiglia, il suo mondo, la sua cultura (italiana), e questa è stata la sua fortuna. Anche grazie a questo oggi è la persona che è, e cioè un perfetto mix di due lingue e due culture. Sindacalista di lungo corso (dal 1975), è impegnata in ruoli di responsabilità sia a livello locale che anche a livello nazionale. Da sempre è impegnata socialmente e politicamente schierata in maniera chiara.

La cosa di me che mi piace di più.

Essere sempre diretta e sincera (non è sempre facile).

Il mio principale difetto.

Per quanto mi sforzi… fatico a trovarne.

Il mio momento più felice.

L’incontro con il ragazzo che da 50 anni è il mio marito.

La mia occupazione preferita.

Leggere e viaggiare.

Il luogo dove vorrei vivere.

Napoli.

Non sopporto…

La falsità e l’opportunismo.

Per un giorno vorrei essere…

Un uomo.

Nel mio frigorifero non manca mai…

Lo yogurt.

Se fossi un animale sarei…

Un gatto.

Sono stata orgogliosa di me stessa quella volta che…

In realtà io mi vogliono bene e mi piaccio quasi sempre.

Tre aggettivi per definirmi.

Attenta agli altri, curiosa, non banale.

La prima cosa che faccio al mattino.

Prendo una pasticca salvavita.

La disgrazia più grande.

La perdita di persone care e importanti.

Il mio ultimo acquisto.

Scaglie di cirmolo per favorire il buon sonno.

Amo il mio lavoro perché…

Mi piacciono le persone, mi piace tutto ciò che è “vita vera”. Mi permette di aiutare chi ha bisogno.

L’errore che non rifarei.

Gli errori fatti mi hanno fatto crescere. Quindi li rifarei tutti.

La massima stravaganza della mia vita..

Scarpe, scarpe e ancora scarpe.

Del mio aspetto non mi piace…

L’altezza.

Il mio primo ricordo.

Mia nonna (gran bella donna, alta ed altezzosa) con il capo coperto da un fazzoletto…

Il libro che non potrebbe mancare nella mia libreria.

“Die Walsche” di Josef Zoderer.

La sommelier e il calcio

Lea Casal ha solo 21 anni, ma ha le idee ben chiare su quello che potrebbe essere il suo domani. Quando non lavora come sommelier, è attiva in diverse società ed associazioni, prestando il suo servizio nel comune di Magrè, paese dove attualmente vive con la propria famiglia.

La cosa che più mi piace di me e il mio principale difetto.

Devo dire che sono i due lati di una stessa cosa. Quando ci tengo ad un idea, a una cosa o a una persona do tutto quello che ho, con tutto il mio cuore… Ma si tratta di una cosa che spesso non è solo positiva.

Il mio momento più felice.

I concerti di Ultimo.

Un libro da portare sull’isola deserta.

“Io sono più amore”.

La mia occupazione preferita.

Cantare e stare con le mie amiche e la mia famiglia.

Il paese dove vorrei vivere.

In Spagna, sull’isola dove c’è Palma di Maiorca.

Il mio piatto preferito.

La pizza.

Non sopporto…

L’ingiustizia, le bugie.

Per un giorno vorrei essere…

Ultimo.

La mia paura maggiore.

I serpenti.

Nel mio frigo non manca mai…

La fantastica marmellata di mia mamma.

Se fossi un animale sarei…

Penso un cane.

Il mio motto.

“Abbi il coraggio di splendere”.

Il giocattolo che ho amato di più.

Il pallone da calcio.

I miei poeti preferiti.

Gio Evan e Simone Carponi.

Il mio pittore preferito.

Michelangelo.

Il dono di natura che vorrei avere.

Fregarmene ancora di più.

Come mi vedo fra dieci anni.

Importante, felice e in piena salute.

Il colore che preferisco.

Il verde.

L’ultima volta che ho perso la calma.

In una situazione al lavoro.

Da bambina sognavo…

Di diventare una calciatrice professionista.

Daniele Bebber

(I crediti fotografici della foto di Lea Casal sono: Meike Hollnaicher / Alois Lageder)

Gli esperti a difesa del Gallo cedrone

Molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare per impedire la scomparsa del Gallo cedrone anche dal Parco Naturale Monte Corno, dove già da diversi anni sono in corso azioni di sostegno per questa specie.

Il Gallo cedrone e il Francolino di monte sono due specie di uccelli di bosco; rifuggono l’uomo, abitano l’arco alpino da millenni e sono soggette a forte regressione. Nel parco naturale del Monte Corno, in Bassa Atesina, è presente una piccola colonia di Galli cedroni: “È una specie sensibile ai cambiamenti climatici, ambientali e alla predazione naturale. Quindi è esposta ad una serie di problemi, in parte causati anche dall’uomo, che ne determinano la regressione”, spiega Walter Eccli, esperto in contatto con l’ispettorato forestale Bolzano1 e che tiene d’occhio la sopravvivenza di questi animali. “In primavera vado a vedere se ci sono maschi e quanti sono – rivela l’esperto -. Nel corso dell’estate e dell’autunno verifico il successo riproduttivo. Ovvero se ci sono femmine con prole”.

Walter Eccli, qual è la situazione attuale?

Da una decina d’anni viviamo una situazione di stabilità; nel parco vive una trentina di esemplari, fra maschi e femmine. Le cose potrebbero andare anche meglio se la predazione naturale fosse un po’ più contenuta.

Può spiegare meglio?

La “gallina” cova a terra per 25 giorni, ma in questo periodo spesso le uova spariscono a causa della volpe, della faina o della martora. Sarebbe importante riuscire a ridurre l’influenza negativa dei predatori naturali, perché dove le popolazioni sono più piccole, come nel nostro caso, la predazione incide in maniera più pesante che altrove. Dei 6.000 ettari di estensione del parco naturale del Monte Corno, solo circa 2.000 sono adatti al Gallo cedrone. E sul territorio c’è una presenza importante di faine, di volpi e corvidi, altri predatori importanti.

Come operate per salvaguardare questa specie?

Serve molta cura, bisogna soprattutto di salvaguardare l’habitat, cercando quindi di non avere boschi troppo fitti. È poi molto importante ridurre al minimo il disturbo antropico: fortunatamente i visitatori stanno sulle strade e sui sentieri, il disturbo è quindi abbastanza contenuto.

In zona ci sono altre realtà che stanno svolgendo un lavoro simile?

In Val di Sole: già una trentina d’anni fa l’ispettore forestale con sede a Malè Fabio Angeli ha iniziato delle opere di miglioramento dell’habitat. Qui in Alto Adige c’è l’ispettore forestale Rainer Ploner: laureato in scienze forestali, da diversi anni si occupa di queste opere di miglioramento ambientale.

C’è qualche nuova leva che, in futuro, potrebbe seguire questo tema?

Una delle mie preoccupazioni è proprio questa: mi piacerebbe che nella nostra regione, come un po’ su tutto l’arco alpino, nascesse la figura dell’addetto custode alla selvaggina, come già esiste in Baviera.

Ma come si possono coinvolgere i giovani?

Conosco qualche giovane interessato alla tematica: mi auguro che, in futuro, qualcuno prosegua il mio lavoro, non solo nel nostro Parco, ma anche negli altri parchi naturali della nostra provincia.

Daniele Bebber

Beati (noi) poveri. Una giornata per cambiare prospettiva

La Giornata dei poveri si celebra in tutto il mondo questa domenica. Istituita da papa Francesco nel 2016, essa serve a ricordare che “fino a quando Lazzaro – ovvero il povero – giace alla porta della nostra casa, non potrà esserci giustizia né pace sociale”. Una verifica di fine anno che può portare a scelte di cambiamento.

Papa Francesco mette in guardia rispetto all’abitudine di considerare i “poveri” come semplice oggetto della beneficenza dei “ricchi”. “Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre a un vero incontro con i poveri e dare luogo a una condivisione che diventi stile di vita”.

Al centro non c’è la condizione di povertà, ma la persona che si incontra. Nell’incontro autentico entrambi, quelli che definiremmo il donatore e il beneficiario, si riconoscono “poveri”. Toccano con mano una grande verità: nessuno basta a se stesso. Ognuno ha bisogno degli altri. Se la povertà è una realtà condivisa, allora anche la ricchezza di doni porta naturalmente alla condivisione.
“Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce”. Uscire dalle certezze e comodità. “Non distogliere lo sguardo dal povero”.
Che la povertà sia un valore è un’affermazione che potrà far sorridere (o irritare) chi non sa o non vuole guardare le cose in profondità. Ma lo è, un valore: è la chiave necessaria a riprendere in mano la nostra vita e a vederla come un dono. Un dono da condividere.
Beati i poveri.

Autore: Paolo Bill Valente