Un tram-treno per l’Oltradige

I sindaci di Appiano e Caldaro, con il supporto di diverse forze politiche, tornano a far sentire le proprie voci a favore del collegamento che risolverebbe il problema del traffico e ridurrebbe l’inquinamento. Ora occhi puntati sul Pums di gennaio.

I sindaci di Appiano e Caldaro, con il supporto di diverse forze politiche, tornano a far sentire le proprie voci a favore del collegamento che risolverebbe il problema del traffico e ridurrebbe l’inquinamento. Ora occhi puntati sul Pums di gennaio.
L’Oltradige torna a chiedere a gran voce un tram che colleghi i Comuni di Appiano e Caldaro con Bolzano attraverso la linea ferroviaria già esistente a Ponte Adige, che arriverebbe fino alla Stazione di Bolzano e non attraverserebbe quindi la città. 
Ogni giorno sono quasi 20.000 le vetture che dall’Oltradige si riversano nel capoluogo altoatesino per raggiungere soprattutto la zona industriale e il centro città. Di queste, oltre la metà provengono dai due comuni sopracitati, causando code e ingorghi nelle ore di punta. Il problema, rimasto irrisolto per tanti anni, è stato leggermente attenuato dall’entrata in scena del Metrobus che ha fornito sicuramente riscontri importanti. 
Ma ora i Sindaci dei due paesi coinvolti chiedono un impegno maggiore verso una mobilità sempre più green e puntano a realizzare quel tram che è sfuggito dalle loro mani nel 2019, quando il referendum consultivo bocciò la proposta a Bolzano. Anche se, a dire il vero, questo nuovo mezzo di trasporto non sarebbe un tram classico, bensì un tram-treno con alimentazione elettrica, una vera e propria metropolitana di superficie capace di immettersi e viaggiare anche sulle rotaie già presenti, per trasportare turisti e pendolari. “Credo che un mezzo su rotaia sia la soluzione ideale dal punto di vista della sostenibilità ma non solo. Sarebbe un aiuto concreto per risolvere il problema del sovraccarico di passeggeri sui mezzi di trasporto pubblici. Garantirebbe anche una maggiore puntualità perché non c’è il rischio di rimanere bloccato in coda. Spero vivamente che la Provincia capisca questa nostra necessità e prenda in carico la nostra richiesta” precisa Wilfried Trettl, sindaco di Appiano.

Il progetto “Hüsler”
A tal proposito, nel maggio di quest’anno, una grande coalizione formata dall’opposizione in Consiglio Provinciale aveva unito le proprie forze presentando una mozione – sottoscritta da Team K, Verdi, Freiheitlichen, Südtiroler Freinheit, Pd e M5S -, e bocciata qualche settimana fa dall’assessore alla mobilità Daniel Alfreider, che chiedeva di inserire nella lista delle opere infrastrutturali prioritarie l’idea del tram e di convocare un tavolo tecnico con STA e RFI. 
La mozione faceva seguito al progetto “Hüsler”, autorevole ipotesi progettuale il cui studio di fattibilità è stato commissionato dai Comuni di Appiano e Caldaro al famoso ingegnere svizzero Willy Hüsler, e che è stato già discusso nei rispettivi consigli e inserito nei piani urbanistici. 
In sintesi, il progetto prevedrebbe lo stesso tracciato su cui è presente oggi la ciclabile e che, da Caldaro passi per Appiano per poi, dopo il ristorante Pillhof, ricongiungersi ai binari della linea Merano-Bolzano a Ponte Adige, sempre con lo stesso mezzo. Da qui il tram proseguirebbe fino alla stazione di Bolzano, attirando, secondo i primi studi, almeno un 30% in più di passeggeri rispetto al metrobus, grazie anche ad un ipotizzato cadenzamento sotto i 15 minuti tra le stazioni di Bolzano centrale, piazza Bersaglio, Bolzano sud, Casanova e Ponte Adige.
“Un progetto con un doppio punto di forza, visto che collegherebbe in maniera funzionale e veloce la zona produttiva di Bolzano e non costringerebbe a posizionare dei binari all’interno della città, rispettando l’esito del referendum di due anni fa – spiega Matthias Cologna, coordinatore del Comitato Pro Tram e consigliere comunale a Bolzano. Il tram-treno risolverebbe il problema traffico intenso che si crea quotidianamente, creando una viabilità maggiormente sostenibile e sicura, rendendo più vivibile Bolzano e i paesi limitrofi, oltre che a ridurre la produzione delle quasi 100 tonnellate di CO2 emesse dalle vetture”.

Discussione nel Pums
Il vero grande nodo da risolvere è però quello legato alla normativa nazionale che per questo tipo di mezzo di trasporto ancora non c’è. Il progetto, per concretizzarsi, dovrebbe necessariamente passare attraverso il via libera del Ministero della Infrastrutture, motivo per cui in Italia, al momento, di tram-treno ne esiste soltanto uno, a Cagliari. “Per questo cercheremo di inserirlo all’interno dei punti del PUMS che verrà discusso in aula a gennaio prossimo. Sarà necessario prevedere questa opera a lungo termine per riuscire ad avviare tutte le procedure necessarie, dalla discussione con Roma all’adeguamento delle infrastrutture”, continua Cologna, che sottolinea anche l’importanza di cogliere opportunità dal punto di vista finanziario. “Solo pochi giorni fa il Ministero ha finanziato 240 milioni di euro alla città di Padova per una doppia tratta. I fondi statali ci sono, per ottenerli bisogna però elaborare piani di progettazione validi. In un’ottica futura, inoltre, questo collegamento ferroviario potrebbe anche essere un primo passo verso un ulteriore sviluppo del tracciato, collegandolo alla ferrovia statale nell’Unterland”. Una soluzione flessibile che potrà adattarsi a tutti gli altri progetti già completati delle amministrazioni, come il polo intermodale di Ponte Adige.

Autore: Alexander Ginestous

Un caldo bosco verticale a Vadena

A volte la natura sembra voler dare “schiaffi morali” anche alle opere di architettura più storiche e preziose.
È il caso dell’edera che ha rigogliosamente ricoperto di un caldo tappeto autunnale l’edificio al numero 105 di Vadena Centro. “
Si tratta di un edificio storico conosciuto come “Casa Mosna” dal nome della famiglia che governò a Vadena per ben 4 generazioni (Giuseppe Mosna 1945-1952, Alberto Mosna 1952-1974, Alfredo Mosna 1974-1990 e Carlo Mosna 1990-2005).
La casa segnava il vecchio ingresso al paese – il cui fulcro era il Maso Castello, sede anche il municipio del paese” ci ha riferito Martine Parise, vicesindaca di Vadena e autrice degli scatti. Immagini che lei definisce “Bosco verticale a Vadena”, citando i celebri palazzi progettati a Milano da Boeri Studio, due torri alte 80 e 112 m, che ospitano nel complesso 800 alberi distribuite sui prospetti, appunto “verticalmente”.
Insomma, una vegetazione equivalente a quella di 30.000 mq di bosco e sottobosco, concentrata su 3.000 mq di superficie urbana. Al contrario delle facciate “minerali” in vetro o pietra, lo schermo vegetale del Bosco filtra i raggi solari generando un accogliente microclima senza effetti dannosi sull’ambiente. ivo concetto del Bosco Verticale di Milano è l’essere “una casa per alberi che ospita anche umani e volatili”.
Anche se il Bosco verticale di Vadena non arriva a tanto, offre comunque una suggestiva visione di un abbraccio spontaneo, quello tra natura e architettura.

Autrice: Caterina Longo

I Piduni di Felice

INGREDIENTI

Per 8 persone:
1 Kg farina 00
110 g strutto
270 ml acqua
80 ml vino bianco secco
10 g sale
1 cucchiaino zucchero

Per il ripieno “tradizionale”
250 g tuma fresca o primo sale siciliano
Acciughe sott’olio
2 cespi di scarola riccia
Sale
Pepe nero
Olio di oliva
10 pomodorini

PREPARAZIONE

Versate su un piano da lavoro farina, sale e zucchero.
Unite a poco a poco a poco l’acqua e il vino e iniziate a impastare. Verrà fuori un impasto grossolano.
Aggiungete lo strutto e impastate per circa 15 minuti. L’impasto diventerà liscio ed elastico.
Avvolgete il panetto per l’impasto in uno strofinaccio e fatelo riposare, a temperatura ambiente, per circa 60 minuti. Mentre l’impasto lievita, preparate il ripieno.
Lavate la scarola, eliminate le foglie rovinate e staccate le altre. Asciugatele con un panno o una centrifuga.
Tagliate la scarola in pezzettini piccoli.
Conditela con olio di oliva abbondante (deve diventare lucida), sale, pepe nero e qualche pomodorino tagliato a cubetti.
Tagliate il formaggio a dadini.
Prendete il panetto e piegatelo su se stesso (questo passaggio, se fatto bene, darà una sfogliatura al pitone/pidone). Mettetelo su un piano da lavoro infarinato e appiattitelo con il matterello, ricavando un rettangolo.Ripiegate la pasta verso l’interno, e poi su se stessa. Ripetete questi passaggi per almeno 3 volte.
Tagliate la pasta a pezzi e appiattiteli con il matterello. Dovete preparare delle sfoglie sottili.
Adagiate al centro della pasta un po’ del ripieno a base di scarola, acciughe a pezzetti e tuma/formaggio.
Ripiegate la pasta, richiudendo il ripieno. Sigillate bene, pressando con il dito sull’impasto, e tagliate la pasta in eccesso con una rotella. Si dovranno ottenere dei ravioli giganti.
Chi vuole, può farcire i piduni con prosciutto cotto e formaggio, piacciono di più ai bambini.
Riscaldate abbondante olio di semi in una padella e friggete i piduni preparati, facendoli dorare da entrambi i lati. Li vedrete subito gonfiarsi e diventare pieni di bolle.
Fateli riposare su carta assorbente.
Serviteli ancora caldi e filanti.

Accompagnateli con Birra Messina o Birra dello Stretto, ideali per i cibi dello street food messinese.

Monticolo, il bosco e Col dell’Uomo

Benché si trovi alle porte di Bolzano e nei pressi di centri abitati come Appiano e Caldaro, il bosco di Monticolo, nel cuore del troncone settentrionale del Monte di Mezzo, mantiene una sua ancestrale “selvatichezza”.
Bisogna andarci, per assaporarla, camminare in silenzio lungo sentieri e strade forestali che, da Colterenzio e da S. Michele, dalla valle della Primavera e da Vadena l’attraversano in ogni direzione. Un labirinto tra cielo e terra, tra noto e ignoto, dove orientarsi non è mai facile. Accompagnati dal cinguettio e, a tratti, dallo stridio infernale degli uccelli, passo dopo passo si perdono le proprie certezze “urbane” per oltrepassare il velo che ci separa dal fantasmatico mondo del passato.
Strani vapori mattutini affiorano sulla superficie verde scuro del lago grande, un solitario pescatore sembra cercare la pace dell’anima nella sua immobile attesa. Noi andiamo per la nostra strada e, dopo il lago piccolo, svoltiamo verso una collina che qualche millennio fa (tra il bronzo e il ferro, a quanto pare – ovvero tra le culture di Lugo e Fritzens-Sanzeno) era piuttosto frequentata.
Cosa ci facessero, lassù, i nostri “selvaggi” predecessori, non è dato sapere. Riti religiosi? Rievocazione degli antenati? Difesa di antiche consuetudini? Come nella lontana Machu Picchu, si è più vicini agli dei che agli uomini, su quella vetta appartata e, soprattutto, ad un modello di economia basato su caccia, pesca e raccolta piuttosto che sull’agricoltura stanziale introdotta dalla rivoluzione neolitica che ha trasformato anche il fertile Oltradige in un giardino.
Wilder-Mann-Bühel, Col dell’Uomo (selvaggio) è chiamato, non a caso, il luogo: forse proprio in memoria degli ultimi “selvaggi” insediati per millenni in queste arcane aree tra Castel Firmiano (sito di ritrovamento di un’antichissima sepoltura) e Gmund, tra i laghi di Monticolo e quello di Caldaro.
D’altronde, ancora oggi il territorio esibisce evidenti le tracce dell’eterna lotta tra boschi e campi coltivati, tra natura e “cultura”, con quest’ultima che anno dopo anno continua a erodere spazi vitali alla prima.
Le leggende del posto narrano di un tale Peter Wöth, “der Amerikaner”, uomo anch’egli selvaggio nato nel 1824 e poi emigrato verso le Americhe in cerca di fortuna. Dopo aver vissuto come cercatore d’oro con gli indiani, tornò in patria e si ritirò proprio quassù, in una capanna di pietre. Su una di queste sono ancora incise le sue iniziali e la sua data di nascita.
Poco è rimasto dell’antico castelliere con vista sul Penegal e il gruppo del Tessa, scoperto cento anni fa dal maestro Josef Saxl: migliaia di pietre di porfido sparse sui 280 metri quadri dell’area, qua e là qualche frammento di muro, le basi di una torre quadrangolare, alcune fosse scavate nel terreno.
Sotto la cupola, un terrazzamento che poteva ospitare qualche rudimentale capanna anche nella stagione fredda: giacché, malgrado le apparenze, ci troviamo ad un’altezza di soli 650 metri ed il clima è mite tutto l’anno.
Il Col dell”Uomo è, con il Joben- e l’Hohenbühel, una delle colline maggiori che si elevano nei 100 ettari di bosco di larici, latifoglie, pini e abeti che offrono al visitatore, accanto alle testimonianze di un passato ancora tutto da scoprire, l’occasione di una immersione completa in un ambiente antico e affascinante. Scriveva nel 1886 l’esploratore Heinrich Noë: “Dal paesino di Monticolo, si gode la vista di una grandiosa “Waldeinsamkeit” (idillio silvestre), inimmaginabile dai lussureggianti vigneti di Appiano o dal profondo della valle dell’Adige”. E ancora: “Dopo venti minuti di cammino si raggiunge il lago piccolo incastonato nel fitto del bosco. A nord, est e ovest non si vede null’altro che la vetta del Corno del Renon – una scena di singolare abbandono”.
Parole che condividiamo appieno.

Autore: Reinhard Christanell

Reati in provincia, percezione e realtà

L’Alto Adige è in fondo alle classifiche per numero di crimini e anche le ultime statistiche lo confermano: i reati sono in calo. Ma com’è percepita la sicurezza nella nostra provincia? Ne abbiamo parlato con Raffaele Rivola, Comandante Provinciale dei Carabinieri. “Se confrontata con il resto d’Italia, quella altoatesina è una situazione estremamente sana e invidiabile. In questo contesto, qualsiasi cosa accade viene percepita come una turbativa e provoca allarme sociale”, ci ha detto. Tra i temi affrontati nell’intervista ci sono anche i giovani, l’alcol e guida e le truffe online.

Nello scorso numero abbiamo parlato dell’intenzione, da parte del comune di Egna, di dotare la polizia municipale di armi nel servizio notturno, nell’ottica della creazione di una polizia intercomunale.
Dopo aver dato la parola alla sindaca di Egna, Karin Jost e ai comandanti dei vigili di Laives e Bolzano, allarghiamo lo sguardo sulla situazione della criminalità in Bassa atesina e in Alto Adige.
Ne abbiamo parlato con Raffaele Rivola, Comandante Provinciale Carabinieri di Bolzano. Con ottanta stazioni a livello provinciale, i carabinieri hanno una presenza capillare e ramificata su tutto il territorio altoatesino, che permette loro di avere “il polso della situazione”.
Anche la Bassa non fa eccezione: il comando compagnia di Egna ha dieci stazioni alle dipendenze. “Procediamo per la stragrande maggioranza dei reati in Bassa atesina” – ci dice Rivola, che, romagnolo, ha assunto il comando provinciale dallo scorso settembre. Il Colonnello può vantare una vasta esperienza: nel suo percorso professionale ha svolto numerosi incarichi di stato maggiore, investigativi e internazionali – ad esempio in Calabria si è occupato di lotta alla ‘ndrangheta, a Tropea e Taurianova. A Bolzano è arrivato direttamente dall’Ambasciata d’Italia negli Emirati Arabi Uniti ad Abu Dhabi, dove ha svolto dal gennaio 2018 l’incarico di Addetto Aggiunto per la Difesa.

Comandante, com’è la situazione riguardo alla criminalità a Bolzano e in provincia? In particolare, sa darci indicazioni sulla criminalità nella Bassa atesina?
Dall’andamento generale registriamo un calo sensibile dei reati: nel periodo da gennaio ad ottobre 2021 erano il 14% in meno rispetto agli stessi mesi del 2019 – il 2020 è un’eccezione e non lo consideriamo a causa dei lockdown imposti dalla pandemia. Guardando ai dati relativi ai reati per cui procedono i Carabinieri nella Bassa Atesina, ed esaminando in particolare quelli che destano maggiore allarme sociale, come i furti, abbiamo un 76% in meno di furti nelle abitazioni, un 56% in meno di furti di automobili e un -38% dei furti con destrezza. Tra i casi particolari, le segnalo quello di un giovane rapinatore, che si è “fatto notare” per numerosi reati tra Appiano e Caldaro, commessi a danno di minorenni, anche a bordo degli autobus. A proposito di giovani, c’è un aspetto che ci preme.

Sono emersi aspetti particolari riguardo ai giovani?
Si, registriamo episodi di delinquenza giovanile, in particolare nel capoluogo, ma anche a Laives, con cui c’è contiguità territoriale e nei centri urbani, come Merano, Bressanone e, in misura minore, Brunico. Si tratta di reati a scapito dei coetanei – parliamo di minori e giovani dai 18 ai 24 anni.

Di che reati si tratta?
Furti e rapine, anche con caratteristiche violente, con angherie e sopraffazione. Lo potremmo definire un bullismo portato all’estremo.

Che estrazione sociale hanno questi ragazzi?
La provenienza sociale è trasversale. Non si tratta solo di giovani provenienti da situazioni di disagio, indigenza o con un retroterra migratorio, ma anche di ragazzi di famiglie che definiremmo “normali”. Insomma, non parliamo di una situazione da banlieue francese e non abbiamo difficoltà a identificarli. È importante notare che, anche se questi episodi sono in calo nel 2021 rispetto al 2019, teniamo alta l’attenzione perché si tratta di un disagio sociale su cui intervenire, non con misure repressive, ma attraverso un lavoro di rete a stretto contatto con gli enti locali.

Rispetto al resto del paese, come valuta la situazione sulla criminalità in Alto Adige?
Rispetto al resto d’Italia, parliamo di dati confortanti, e di una situazione estremamente sana ed invidiabile. Siamo in un contesto abituato a standard altissimi per efficienza e qualità e quindi qualsiasi cosa accade è percepita come una turbativa e provoca allarme sociale. è un po’ come una parete bianca, su cui anche una macchiolina balza subito all’occhio. Il nostro compito è comunque darci sempre da fare perché la situazione migliori ulteriormente.

Il contesto quindi gioca un ruolo fondamentale anche nella percezione dei reati…
Certamente. A seconda del tipo di persona e della fascia d’età un furto con intrusione può provocare un trauma significativo. Vale anche per i turisti: l’Alto Adige ha una reputazione altissima a livello di sicurezza – se il turista subisce il furto di una bicicletta elettrica o della macchina qui, durante le ferie, l’impatto è molto più traumatico rispetto allo stesso furto avvenuto a casa. In questo senso, la percezione del danno subito trascende il valore economico, perché tocca la fiducia del trovarsi in un luogo sicuro. Noi cerchiamo sempre di metterci nei panni della vittima e, soprattutto, abbiamo una grande responsabilità nel mantenere alta la reputazione dell’Alto Adige come luogo sicuro.

Avete registrato dei cambiamenti nel tipo di reato/ denunce/percezione della sicurezza con la situazione dovuta alla pandemia?
Registriamo un aumento di truffe online, legate al fatto che con il lockdown molte persone si sono avvicinate agli acquisti sul web. Un altro ambito su cui focalizzare l’attenzione è quello della violenza di genere e domestica – terreno delicato, su cui ci muoviamo in stretta collaborazione con gli operatori sociali e gli enti locali.

Capitolo alcol, com’è la situazione?
Purtroppo abbiamo continue segnalazioni di persone colte alla guida in stato di ebbrezza, che, ricordo, può avere anche pesanti conseguenze penali, oltre a mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini e degli stessi automobilisti.
Da quello che vedono gli operatori sulla strada, le persone fermate non ne percepiscono assolutamente la gravità. Una mancanza di consapevolezza che riscontriamo in maniera diffusa, tra cittadini di tutte le estrazioni sociali, e che desta preoccupazione.

Autrice: Caterina Longo

Viaggiatori a Laives, la visita di Beda Weber

Molti sono stati i viaggiatori noti e meno noti passati dal nostro comune. Imperatori, condottieri, semplici pellegrini e, per fortuna, anche ricercatori interessati alle specificità di questo territorio.
Tra i più importanti va annoverato lo scrittore e sacerdote Beda Weber, che nel suo “Die Stadt Bozen und ihre Umgebungen”, pubblicato nel 1849, raccolse studi e impressioni di viaggio sulla città di Bolzano e i comuni del circondario.
Abbandonando Bolzano in carrozza per un’esplorazione allora avventurosa “nel selvaggio sud”, rimase colpito dai pioppi che cingevano la polverosa “via postale”. Il paesaggio, plasmato dall’attività alluvionale di Adige e Isarco, “fiumi che tengono in pugno il destino degli uomini con la loro furia”, versava in stato di abbandono. Pochi gli alberi e i cespugli.
“Una vera piaga dato che in quelle lande si annida ogni sorta di malfattori”, commentò. Ma poi apprezzò le siepi di prugnolo e gelsi che delimitavano le proprietà, “a differenza degli orribili muri di pietra che circondano i campi a Bolzano e Merano”. Ovviamente si faceva sentire “l’aria del sud” e Weber ne rimase affascinato. A S. Giacomo ammirò la chiesa eretta “nel 1477 grazie alla generosità dei signori Hans e Konrad Ellinger”.
Lo stupirono per i minuscoli vigneti “che certamente producono poco vino perlopiù malsano”. Il conducente lo tranquillizzò affermando che si trattava comunque di vino bevuto dai soli “indigeni”.
Dopo S. Giacomo, la strada continuava ancora sotto la montagna e “le magnifiche rocce di porfido sotto i masi di Seit”. Sull’altro versante, una distesa di campi di mais e i di gelsi”. Qua e là s’intravedevano anche piante “tra cui il dolce mandorlo”.
Poi l’agognato arrivo a Laives. “Il paese si trova 770 piedi sopra il mare dove la valle raggiunge un’ora di larghezza e conta 280 abitanti rispetto ai 790 complessivi di questo comune.” Weber, ammirata la bella scuola nuova, visitò la Vallarsa e il Peterköfele (interessante la tesi secondo la quale il castello distrutto dei Lichtenstein venne abbandonato poiché i proprietari avevano trovato di meglio altrove) e incontrò molti pellegrini “di ogni dove nei loro costumi tradizionali” diretti a Pietralba.
La permanenza della sacra immagine, contesa tra Laives e Pietralba, era l’argomento del giorno, come del resto la più volte annunciata regolazione dell’Adige che continuava a distruggere ciò che gli uomini faticosamente creavano. Ma da lì a poco sarebbe arrivata, nel 1859, la ferrovia e “con questa una nuova barriera contro le inondazioni”.
Quando accennò con disappunto al “noto” clima insalubre del paese, dovuto ai terreni acquitrinosi, venne vivacemente contraddetto dall’oste (del Casagrande?) che criticò aspramente coloro “che denigrano il nostro comune senza conoscerlo mentre in realtà è migliore di quelli montani”.
Partì quindi alla volta di Bronzolo, dove gran parte della popolazione era occupata presso il porto sull’Adige. Osservò meravigliato i portatori d’acqua con le lunghe pertiche e i due secchi alle estremità che andavano e venivano dalle fontane pubbliche. Era arrivato in Italia.

Autore: Reinhard Christanell

Libertà e diritti in tempo di pandemia

Durante tutta l’emergenza legata al Covid-19 si è molto discusso in merito alla legittimità delle restrizioni adottate e all’obbligatorietà o meno dei trattamenti sanitari. Ne abbiamo parlato con il costituzionalista ed ex senatore Francesco Palermo.

Francesco Palermo: lei questo momento come lo sta vivendo?  
Stiamo oscillando tra estremi opposti. Da una parte va molto di moda il termine resilienza con il quale si finisce per accettare tutto, mentre da un’altra prendono piede le reazioni sconsiderate contro tutto e tutti. 

Ma cosa dice la nostra Costituzione? Le misure adottate negli ultimi 18 mesi in che modo sono “legittime”?
Il grande problema di fondo è stato quello di bilanciare il diritto alla salute pubblica quale bene superiore con i numerosi altri diritti garantiti in Costituzione, che sono stati “compressi”. Lo stato di diritto è una sorta di ring dentro il quale ci si può muovere e dal quale non si può uscire. Negli stati a controllare il perimetro del ring sono normalmente degli attori terzi; nel nostro sistema soprattutto la Corte Costituzionale. E il nostro problema sta nel fatto che per vari motivi in questo periodo la Corte praticamente non è mai intervenuta, suscitando una certa incertezza, a differenza di quanto invece è avvenuto in tanti altri ordinamenti che hanno strumenti di accesso più semplici alla giustizia costituzionale e dove le corti hanno posto dei paletti segnalando superamenti del ring. L’ultimo caso è avvenuto in Francia dove è stato dichiarato legittimo l’obbligo del Green pass in tutta una serie di ambiti. Invece in Austria la corte ha dichiarato addirittura illegittime retroattivamente norme che erano in vigore durante il lockdown, perché considerate non proporzionate.  

Qui entrano in campo i famosi principi di “prevenzione, precauzione, proporzionalità e adeguatezza”, fondamentali nell’attività amministrativa sia nelle situazioni ordinarie che nell’emergenza.
Si tratta di principi astratti – alcuni presenti in Costituzione ed altri ricavati in via interpretativa – che il legislatore cerca di bilanciare, ma poi può succedere che la Corte Costituzionale intervenga, appunto.

Francesco Palermo

In ogni caso l’effetto del non pronunciamento da parte della Corte Costituzionale in merito alle misure adottate in tempo di pandemia è la legittimità delle procedure stesse.
Sì, salvo alcuni casi individuali collegati a pronunce giudiziarie, come ad esempio la recente sentenza del Tar del Lazio che ha giustificato l’esenzione per una bambina dall’obbligo di portare la mascherina a scuola. 

Questo vuol dire che è stata legittima anche la scelta di procedere quali esclusivamente con i cosiddetti DPCM (decreti ministeriali emanati direttamente dal Presidente del Consiglio dei ministri)?
Sì. Anche se si potrebbe discutere sul fatto che il legislatore ha scelto una procedura che rende molto difficile il controllo giudiziario. Di per sé l’autorizzazione alla limitazione dei diritti può avvenire soltanto con una legge, non solo per la salute citata all’articolo 32 della Costituzione, ma anche per altri diritti come quello alla libera circolazione. I decreti legge adottati durante la pandemia sono “atti aventi forza di legge” di natura sufficientemente generica per essere incontestabili, ma poi le concrete misure sono state assunte per mezzo di atti amministrativi (i DCPM) che non possono direttamente passare per la Corte Costituzionale e devono eventualmente transitare per i Tribunali Amministrativi, attraverso una procedura particolarmente complessa…

Sta di fatto che nella cittadinanza le misure adottate hanno assunto le sembianze di decreti d’emergenza e sono state vissute con perplessità e in molti casi come delle ingiuste imposizioni. 
Ci sono state diverse fasi. In un primo momento la situazione ha colto tutti di sorpresa e c’è stato un forte accentramento di decisioni in capo al governo, con un sostanziale avvallo da parte delle regioni. In quella prima fase il bilanciamento ha privilegiato in modo probabilmente sproporzionato la sicurezza pubblica rispetto alle libertà fondamentali. Lo dico perché nella seconda fase (autunno 2020) il governo, meno impreparato, ha adottato delle misure che conciliavano meglio le cose. Si è tenuto conto di tutta una serie di deroghe che potevano essere accettate per meglio bilanciare i diversi diritti in gioco. Non stati utilizzati strumenti troppo invasivi e alcune limitazioni sono state superate, rispettando una serie di regole, ad esempio utilizzando le mascherine in certe situazioni.  

Da un certo momento in poi sono quindi scesi in campo i vaccini, con la grande campagna per la somministrazione alla maggior parte della popolazione…
Sì. Da questo punto di vista occorre ricordare il fatto che il nostro sistema prevede da tempo le vaccinazioni obbligatorie. Esiste sempre la possibilità di mettere in dubbio le cose, ma il punto che in questo caso può essere discusso riguarda il fatto che i vaccini contro il Covid sono stati elaborati più in fretta. Ma – a quanto dicono gli esperti – non è che i vaccini siano sbucati dal nulla. Con l’attuale stato di avanzamento della ricerca scientifica è infatti altamente improbabile il fatto di trovarsi all’interno di una mega sperimentazione di massa, per “vedere come va”. Di fatto ci basiamo sullo stato attuale della ricerca ed è stata fatta una valutazione, anche in questo caso bilanciata. Quindi è stata evitata l’obbligatorietà della vaccinazione, salvo che per alcune categorie come ad esempio la mia, quella degli insegnanti. Io ad esempio ho un paio di colleghi all’università che non si sono vaccinati. Non per motivi ideologici, bensì perché hanno paura. Occorre sempre considerare che le scelte non possono che essere collettive, in una società. Anche se questo è un problema, perché nella società che si pluralizza occorrono decisioni che comunque tengano il più possibile conto delle esigenze dei diversi soggetti. Però poi le scelte collettive sono fatte di regole astratte e anche la medicina funziona così, con i protocolli. La medicina non è sufficientemente individualizzata e anche lì come nel diritto esiste il dibattito sulla necessità di individualizzare. In ogni caso va detto che se un sistema va bene nel 90% dei casi, si tratta senz’altro di un sistema buono. 

Il 10% rimanente dei casi infatti in questo periodo sta ponendo la questione. Si tratta soprattutto di operatori del mondo della sanità e della scuola, gli unici contesti di lavoro dove l’obbligo di vaccinazione è stato imposto. 
In merito è stata fatta appunto una valutazione di proporzionalità. Le alternative sarebbero state vaccinazione facoltativa per tutti oppure obbligatoria per tutti. Il paradosso è che si criticano delle disposizioni che sono già più “sfumate” rispetto all’obbligatorietà dei vaccini contro il tetano o il vaiolo, ad esempio. Di per sé la normativa oggi adottata è più sofisticata e quindi migliore rispetto a quelle normalmente in vigore per gli altri vaccini. 

Alcuni contrari al vaccino parlano di presunto trattamento sanitario obbligatorio, mentre altri non si fidano e dicono che si tratta di una procedura pericolosa. 
Sono due diverse argomentazioni. L’idea che il vaccino sia pericoloso di per sé può valere, ma alla luce di quello che ci dice l’odierna ricerca medica, a parte alcune voci decisamente minoritarie, esiste invece la ragionevole aspettativa che i vaccini siano una misura proporzionata e giustificata. 
Anche per quanto riguarda il discorso del trattamento sanitario obbligatorio in realtà secondo me stiamo nell’ambito del ring. Il governo spinge verso la vaccinazione ma resta in realtà in vigore il diritto a non vaccinarsi, salvo le categorie che vengono considerate di particolare interesse pubblico. Va ricordato che sia il diritto alla salute che quello all’istruzione scuola sono valori costituzionali.

L’ultimo anno e mezzo è stato all’insegna della straordinarietà e dell’emergenza. Secondo lei necessita anche un adeguamento della Costituzione, per poter governare in maniera più chiara anche questo tipo di situazioni? 
Assolutamente sì. Su questa cosa – soprattutto a livello della procedura di attivazione dello stato di emergenza –  occorrerà lavorare, ma solo una volta conclusa l’emergenza stessa. In secondo luogo si potrà discutere anche in merito alla possibilità di sottrarre uno o più diritti fondamentali alla possibilità di essere limitati. In terzo luogo occorrerà chiarirsi le idee in merito al rapporto stato-regioni, in situazioni di emergenza come quella  che ci siamo trovati ad affrontare. In merito al momento non c’è scritto nulla, né in Costituzione né negli statuti di autonomia. E dobbiamo riuscire ad evitare la situazione in cui ci siamo ritrovati in cui con una legge ordinaria, anzi sulla base di atti amministrativi approvati sulla base di un decreto legge molto generico, il riparto delle competenze stabilito in Costituzione tra stato e regioni è saltato completamente. Il tutto con l’avvallo della Corte Costituzionale.

In questa emergenza abbiamo avuto un attore in gioco, la comunità scientifica, che ha avuto un grande peso nell’orientare le decisioni che sono state prese. Non tutti hanno apprezzato. Dal punto di vista del diritto la scienza che ruolo ha?
Nella Costituzione la scienza con questo ruolo non è presente, ma è chiaro che nel processo decisionale politico per valutare la proporzionalità e l’adeguatezza delle scelte occorre avere dei parametri che spesso sono di tipo tecnico-scientifico. In ogni caso c’è stata una grande differenza nel peso che la comunità scientifica ha avuto nelle decisioni prese tra la prima e la seconda ondata. Nella prima il peso è stato molto più importante. 
In ogni caso sono deleteri sia la demonizzazione che la sacralizzazione della scienza. 

LA “VIA ALTOATESINA”

“Anche in Alto Adige non è stato facile capire quali erano le decisioni giuste da adottare. In aggiunta rispetto ad altre regioni da noi esiste l’affermazione (e la difesa) dell’autonomia, quale vero e proprio elemento costitutivo. Recentemente si è deciso un ricorso contro il garante per la privacy per quanto riguarda il Corona Pass. Ritengo sia una cosa sacrosanta, vanno messi dei paletti. Poi naturalmente c’è modo e modo di metterli, questi paletti. Le scelte compiute sotto Natale con ogni probabilità si sono rivelate controproducenti, come abbiamo visto. Gli errori si possono fare, ma non va persa la bussola – che per noi è data da Costituzione e Statuto di autonomia – per mantenere in piedi il sistema. La nostra provincia comunque è un ponte, quello del Brennero per noi non è un confine qualunque per cui per noi sono state ancora più importanti le scelte autonome assunte, a più riprese. Va anche ricordato che anche il nostro Statuto necessita di un restyling, anche più della Costituzione.”

Autore: Luca Sticcotti

Mariangela, una vita dedicata al prossimo

Dopo 41 anni alla presidenza dell’Associazione assistenza tumori della Bassa Atesina, con sede a Egna, la fondatrice Mariangela Berlanda Poles rassegna le dimissioni, ma rassicura “la mia porta sarà sempre aperta.” Si tratta di una donna e figura importante per il territorio, che è riuscita farsi voler bene facendo del bene. Mariangela si racconta con tranquillità e vede nei giovani il futuro dell’Associazione. 

La sua è una lunga storia all’interno dell’Associazione; una storia che però ora giunge al termine. 
Sì. Lascio il posto ai giovani, perché spero che ci siano delle persone che vogliano entrare all’interno dell’Associazione e magari pensare di candidarsi alla presidenza. 
Però me ne andrò in febbraio, quando ci saranno le nuove votazioni, fino ad allora sono ancora presidente.

Con che umore lascia la presidenza?
Guardi, sinceramente non lo so. Sono tranquilla, spero di aver di aver fatto il mio dovere. 

Lascia la presidenza, ma non le persone. 
Senz’altro, la mia porta per i pazienti è sempre aperta. È aperta anche per chiunque avesse bisogno di un consiglio. Ma ho una certa età, consigli io ne posso dare pochi, perché ormai sono altri i modi di portare avanti un’associazione. Sono più che sicura che i nuovi collaboratori svolgeranno questo compito nel migliore dei modi. 

Ha un ricordo particolare, di tutti questi anni?
Io le cose le faccio e poi le dimentico, perché le faccio talmente volentieri e con la sicurezza di fare una cosa buona che dopo mi dimentico, ecco.

Ci sono già dei probabili candidati alla presidenza?
Che io sappia no, non ho ancora sentito nomi. Ma senz’altro ci saranno delle persone anche più in gamba di me, perché quando ho cominciato io era tutto più facile. Chi arriverà adesso avrà delle difficoltà perché è cambiato tutto il modo di fare. Però sono sicura che saranno tutte persone intelligenti e giovani, quelle che da adesso si prenderanno queste responsabilità, e le porteranno avanti anche meglio di me. Di una cosa sono più che certa: coloro che si prendono la responsabilità di entrare in un’associazione come la nostra hanno la possibilità di dimostrare la loro disponibilità verso il prossimo, e quindi non possono essere persone cattive.

Cosa ha lasciato a quest’associazione?
Devo essere sincera? Tutta me stessa. Ho cercato di dare il massimo. Naturalmente sempre con la complicità di tutti i miei collaboratori, perché da sola non avrei fatto niente. Siamo sempre andati tutti d’accordo e credo stia tutto lì: quando si ha una buona collaborazione va tutto bene. 

Cosa pensa di fare, dopo? 
Niente. Sono contenta di amare i miei figli, e ho la fortuna di averli tutti e cinque attorno, e di fare quello che riesco a fare. A 86 anni penso che si possa dare poco, però quel poco che do, cerco di darlo con amore.

Rimpiange qualcosa?
Io? No. Non rimpiango niente, perché quello che ho dato e ho fatto – anzi, quello che abbiamo fatto, con i miei collaboratori, lo abbiamo fatto assieme e veramente dal profondo del nostro cuore, convinti di fare la cosa giusta.

Autrice: Ana Andros, COOLtour

Vendo

due velieri del 1600 uno spagnolo, il SAN PHILIPE e l‘altro francese, LA COURONNE costruiti da me in circa due anni, con materiali di primissima qualità al migliore offerente a partire da 1750 euro.
La somma comprende le due unità. Per Bolzano e paesi limitrofi, consegna gratuita. Tel. 371 1652399

Quando il fantasy scorre nell’inchiostro

“Nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione”, sancì Hegel; una frase che sembra calzare a pennello con la vita di Andrea Zanotti, un giovane – ha da poco passato la quarantina – scrittore di Bolzano che con una produzione letteraria decisamente prolifica sta diventando un nome nel mondo del fantasy. 

È uscita da poco la sua ultima fatica, “Voodoo” (edito dalla Dark Zone di Roma), ma nei prossimi mesi usciranno altri due suoi libri. E il fatto curioso è che in questo scrittore vivono due anime: quella dell’artista e quella dell’economista.

Come nasce Andrea Zanotti?
Ho una formazione scientifico-economica. Ho frequentato il liceo scientifico, ho una laurea in economia e commercio, ho lavorato tre anni presso alcuni commercialisti, in azienda elettrica e oggi mi occupo di investimenti in borsa, in particolare della compravendita di certificati finanziari. E ho sempre avuto la passione per la mitologia, per le religioni antiche collegate anche alla letteratura fantastica, quindi il fantasy e la fantascienza.

Come riesce a conciliare il suo spirito economista con quello umanista?
Quando uno ha una passione, alla fine riesce a trovare il tempo per tutto, perché è giusto seguirla. Mi ritengo fortunato: una passione mi permette di vivere, l’altra di seguire i miei interessi per la scrittura, per la mistica e per la mitologia.

Una mitologia che, leggendo i suoi libri, pare frutto della sua fantasia…
Alla fine sì, ma credo che sia una sorta di rielaborazione di tutto quello che ho letto; qualcosa rimane sempre nel cervello, sia a livello conscio che a livello inconscio. E poi c’è lo studio: per “Voodoo”, per esempio, mi sono informato, ho studiato i vari rituali di questa religione e li ho descritti.

Quanti libri ha pubblicato?
Ho iniziato dieci anni fa autopubblicando le mie opere: avevo scritto la mia prima trilogia, “Mondo 1”, e ho messo in internet il primo libro gratis, a disposizione di tutti. Ho notato che in tanti lo hanno letto, così ho messo in vendita il secondo, a un prezzo simbolico di 1 euro e 99, e anche in quel caso ho visto che c’era pubblico. Così ho proposto la seconda trilogia, “Mondo 2”, con la stessa modalità.   

E come è passato alle case editrici?
Ho iniziato a pensare che sarebbe stato meglio cambiare, anche per avere un marchio dietro che garantisse un minimo di qualità. Ho mandato allora un mio scritto alla Delos digital, la casa editrice di Franco Forte, un autore blasonato che scrive dei romanzi storici ed è anche un grande  appassionato di fantascienza. A lui il libro è piaciuto, così è iniziata la mia avventura nella carta stampata. Poi sono approdato alla casa editrice Plesio Editore, specializzata proprio in fantasy, con la quale ho pubblicato “Dracophobia”. E infine ho pubblicato “Voodoo” con la Dark Zone, una grossa casa editrice di Roma. 

Ha altri libri nel cassetto?
Il prossimo mese con la Dark zone uscirà un weird western che mi ha davvero soddisfatto scrivere. Doveva uscire al Salone del libro di Torino, ma purtoppo la kermesse è stata annullata a causa della pandemia. E poi ho un altro romanzo che avevo scritto qualche tempo fa, si intitola “Il mesmerista” e dovrebbe uscire entro il prossimo trimestre con la Mezzelane editore.