Josef Mayr-Nusser. Coscienze che sanno a chi dire di no

Ottant’anni fa, nell’aula cupa della caserma di Konitz, dove si stava concludendo il periodo di addestramento, il bolzanino Josef Mayr-Nusser, arruolato suo malgrado nelle SS, chiese la parola e, sotto lo sguardo atterrito dei compagni, disse che lui il giuramento di fedeltà a Adolf Hitler non lo avrebbe pronunciato.

Era consapevole, il giovane padre di famiglia, che avrebbe pagato caro quel “no”. Lo sapeva bene anche la moglie Hildegard, con la quale Josef aveva condiviso le motivazioni di una scelta che i più non avrebbero compreso o, meglio, avrebbero fatto finta di non capire. Nel nome di quella ideologia “etnica” che Mayr-Nusser, da dirigente dell’Azione cattolica, aveva stigmatizzato già nel luglio del 1938, l’anno delle leggi razziali. “Il singolo ha valore esclusivamente in quanto membro del corpo etnico”.

Josef Mayr-Nusser obiettore di coscienza. Di più: testimone della coscienza. È bene sottolineare che il suo “no” non fu contro l’uso della forza né contro gli eserciti in sé. La teoria e le pratiche della nonviolenza moderna stavano facendo allora i primi passi, lontano dall’Europa. Josef pronunciò quel “no” contro le ideologie di morte al servizio delle quali si pretendeva che uomini come lui prestassero giuramento promettendo “obbedienza fino alla morte”. Niente di più attuale.

Josef Mayr-Nusser, assieme ai giovani dell’Azione cattolica, aveva formato la sua coscienza al discernimento. A distinguere le idee e le scelte che conducono al bene comune da quelle che hanno come unico scopo il raggiungimento e il mantenimento del potere, come le farneticazioni che Adolf Hitler, ormai da vent’anni, aveva affidato alle pagine del Mein Kampf.

Anche oggi è quanto mai necessario sviluppare coscienze capaci di distinguere, attraverso le nebbie della propaganda, quegli elementi ideologici che vogliono tenere accesi i focolai di guerra, che inducono gli esseri umani alla violenza e alla sopraffazione, che negano la libertà, la dignità umana, l’uguaglianza e la vita.

Autore: Paolo Bill Valente

Valori

Recentemente mi è capitato di fare una riflessione personale sul significato della parola “valore”. Sono partito dai valori delle “cose” ma ben presto mi sono spostato sull’altro significato di questa parola, riflettendo sugli “ideali che orientano le nostre scelte morali”.
Ebbene: sono stato subito colpito da una ventata di anacronismo; ho avuto la sensazione che questo tipo di dimensione sia stata di fatto archiviata nel passato, quasi come se ce la fossimo lasciata definitivamente alle spalle. Non convinto – forse spinto dal mio innato anticonformismo – ho deciso di ricorrere ancora una volta all’enciclopedia Treccani – tra l’altro nella sua versione “ragazzi” – facilmente consultabile online, e ho trovato la seguente definizione.
“Valori sono i princìpi che i singoli individui o una collettività considerano superiori o preferibili. Essi vengono utilizzati come criterio per giudicare o valutare comportamenti e azioni. I valori si connettono in vario modo con la realtà sociale e politica, con l’organizzazione economica e giuridica, con le tradizioni, i costumi e i simboli di una collettività, e quindi mutano nelle varie culture ed epoche storiche.”
Ebbene: quali sono i nostri valori, oggi? E in quale misura sono condivisi?
Il nostro vivere comune, codificato dalle regole che ci diamo, man mano, recentemente deve fare sempre di più i conti con un approccio individualistico che tende a rimettere in discussione tutta una serie di principi che per decenni avevamo dato (quasi) per scontati. Si tratta di un individualismo diffuso che sta contagiando anche le nostre comunità, spingendole a ripiegarsi su sé stesse sulla difensiva, producendo sovranismi di ogni genere e ad ogni livello.
I conflitti in corso in Medio Oriente e in Ucraina, che ipocritamente non vengono nemmeno chiamati guerre, a mio avviso sono figli di questo passo indietro che ha reso ormai irrilevante ogni meccanismo che avevamo messo in atto per cercare di arginare questi pericoli globali (Onu).
Leggendo la Treccani dei ragazzi personalmente mi sono vergognato, immaginandomi i pensieri che possono fare i nostri figli e nipoti osservando i nodi irrisolti della nostra cosiddetta “civiltà”.
“Urge uno scatto d’orgoglio”, si sarebbe detto una volta. In realtà si tratta solo di tornare ad essere responsabili di quello che stiamo facendo. Individualmente e collettivamente.

Autore: Luca Sticcotti

Singoli e scampoli

Vediamo insieme alcune piccole novità musicali da non sottovalutare, che sono giuste con l’ultimo scorcio della breve ma torrida estate 2024.

L’estate, nominalmente, è finita. A dire il vero era finita anche prima dei termini stabiliti per legge, ma tant’è dovremmo essercene fatti una ragione da un pezzo: che l’autunno sia diventato un’opinione, più che una stagione, sembra un dato di fatto.

Ma come? Una volta – per quanto riguardava il mondo delle sette note e nella fattispecie i dischi – l’autunno era la stagione foriera di novità, la gente tornava dalle vacanze e i tormentoni estivi si erano consumati, c’era bisogno di musica nuova con cui affrontare il futuro. Ma ora senza più autunno non ci sarà più musica?

È presto per dirlo, intanto ci possiamo ancora godere alcuni scampoli da non sottovalutare che sono arrivati con l’ultimo scorcio della breve ma torrida estate 2024.

Ecco quindi Carole il debutto a tutto tondo di Valentina Furegato. La cantautrice bolzanina in realtà aveva già pubblicato qualcosa su youtube durante il famigerato lockdown del 2020, quando molti artisti – non solo nella nostra regione – si davano da fare per non rimanere inattivi del tutto. Carole però è il suo primo vero singolo, con video professionale, produzione adeguata e una marcia in più. Il brano è stato composto insieme a Mario Punzi e la produzione è affidata ad un altro bolzanino, Valerio De Paola. Il risultato è una canzone gradevole, a modo suo estiva, leggera ma con una storia d’amicizia al femminile non scontata, come il video stesso ci racconta. Il brano prelude ad un intero EP che dovrebbe vedere la luce nei primi mesi del prossimo anno. Valore aggiunto, visto che Valentina Furegato è anche ballerina e coreografa, sono le coreografie create per il video insieme ad Anna Mattiuzzo, che tra l’altro nel video diventa la Carole della canzone.

Il 10 settembre è uscito anche il nuovo singolo di Alice Ravagnani, altra bolzanina frequentatrice del bel canto che lo scorso anno ci aveva consegnato un interessante EP con cinque brani, uno dei quali, WEH, era stato lanciato con un video in cui le coreografie erano opera proprio di Valentina Furegato. Rispetto al brano pop di quest’ultima però, la Ravagnani preferisce appoggiarsi a sonorità indie, con una chitarra acustica lo-fi su cui la sua voce dà vita ad una canzone d’amore tormentato e gridato in un refrain in cui la voce cresce disperatamente, facendo il paio con la chitarra elettrica.

A cavallo tra indie e pop c’è invece il singolo di un’altra cantautrice della nostra regione, di Lana per essere precisi, la giovanissima Thessa Longobardi che ha postato il singolo Time su youtube, dove è presente anche come flood blogger e video maker.

Chiudiamo questa breve rassegna dedicata ai singoli con la voce di un’altra donna della musica locale: Laura Coller, di Egna, è la voce acutissima della band heavy metal Sign of The Jackal, di base in parte nella Bassa Atesina e in parte a Rovereto. Il gruppo sulla breccia da parecchi anni, sta tornando con un nuovo disco che uscirà col titolo di Heavy Metal Survivors per l’etichetta germanica Dying Victims Productions. Il disco è anticipato da un singolo intitolato Breaking The Spell (anche in questo caso, come per gli altri qui citati, reperibile su youtube), e a giudicare dalla pasta di cui è fatto il singolo, il disco promette davvero di essere in tutto e per tutto nella scia di quell’heavy metal degli anni ottanta, tornato prepotentemente alla ribalta nell’ultimo decennio.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Le memorie di guerra dell’aviere Fratini

La storia la scrivono i vincitori e i veri protagonisti raramente hanno la possibilità di dire la loro. Non è questo il caso di un  cittadino di Laives, Giovanni Fratini, che ha raccolto in un breve diario le sue terribili esperienze di guerra e di prigionia. 

Giovanni Fratini nacque a Civitella d’Agliano (VT) nel 1922. Orfano di entrambi i genitori, nel 1933 raggiunse a Laives la sorella Lina, sposata con Quinto Dallapiazza, bracciante presso la tenuta agricola dei Campofranco. 

Il ragazzo trovò impiego presso il negozio di generi alimentari delle sorelle Conci di San Giacomo ma nel 1942 venne arruolato come aviere a La Spezia. Rifiutatosi di aderire alla Repubblica di Salò, il 10 settembre 1943 venne fatto prigioniero e internato in Germania. 

Rientrò a Laives solo dopo tre anni per riprendere il suo lavoro in bottega. Nel 1953 sposò la maestra Livia Joris, insegnante di italiano a Laives e Seit (che doveva raggiungere a piedi). Morì a San Giacomo nel 2009.

Il manoscritto porta il titolo “Piccolo Diario e Appunti su quella che fu la mia movimentata vita militare e conseguente prigionia di guerra”. 

Inizia l’11 giugno 1942: “Nelle ore antimeridiane mi presentai al centro affluenza dell’aeroporto di Bolzano, ove verso sera abbiamo avuto in consegna il corredo”. Il giorno seguente la compagnia raggiunge La Spezia. I due mesi di addestramento sono segnati dalla nostalgia di casa “sopportata con rassegnazione”.  Manca il cibo, la debolezza inizia a farsi sentire. Il 20 luglio “Giuramento, giorno di festa (povera festa però)”. 

Il 6 Agosto si parte per Bologna, aeroporto di Borgo Panigale. Il servizio consiste nelle “ronde attorno al campo di aviazione”. Finalmente il 25 agosto arriva il primo permesso di due giorni. Verso la fine di ottobre cambia il servizio: “Si monta di sentinella agli apparecchi decentrati”. Con l’arrivo dell’inverno, il servizio si fa duro. La nebbia e il gelo segnano le notti. Dopo un periodo di malattia e convalescenza, Giovanni trascorre un mese a casa (“che sogno”). il 16 luglio Bologna viene bombardata, la paura è tanta.

Il 24 luglio nuovo bombardamento, poi continui allarmi per tutta la prima metà del mese di settembre. 

“8 settembre: alle 8 di sera ci giunge la notizia della resa da parte italiana; riceviamo immediatamente l’ordine di smontare dal servizio e riunirci per far fronte a qualunque forza estranea tentasse di entrare nel campo. Il 9 settembre alle 6.10 carri armati tedeschi penetrano in varie parti del campo. Breve sparatoria”.

 Si depongono le armi, qualcuno tenta la fuga in campagna. “Incolonnati e scortati raggiungiamo la città.” Inizia la lunga, terribile prigionia. Verso la fine di luglio e nel mese di agosto le incursioni anglo-americane si susseguono giorno e notte. Il 10 settembre Giovanni scrive: “Questa notte si ha dormito così così… fuori, qualche raffica di mitra e vari colpi di altre armi da fuoco”. 

Il 15 settembre si parte da Bologna: “destinazione ignota”. “È  questo uno dei momenti più dolorosi – scrive commosso Giovanni – quanto strazio nel nostro cuore”. 

Saliti sui vagoni merci in 40-50 per vagone, inizia “quel viaggio triste… la popolazione accorre al nostro passaggio facendoci dono di cose preziose come pane, salame e uova.” Il 16 settembre si arriva in Germania, la sete si fa sentire e si beve l’acqua “che scola dal tetto del nostro vagone: sporca, sabbiosa ma comunque buona”.

Il viaggio prosegue fino al 18 quando si raggiunge un campo di concentramento a 60 chilometri da Hannover. La vita è durissima, mancano i viveri. Poi il trasferimento a Barum, a 18 chilometri da Braunschweig. Si lavora in una fabbrica di zucchero. “I giorni eternamente lunghi passano lentamente senza poter vedere alcuna via d’uscita”, si dispera Giovanni. Scrive diverse lettere ai familiari e rimane in attesa della risposta. Cambiano le mansioni, ci sono da sgomberare le macerie di una fabbrica bombardata o levare le tegole da un tetto. Da casa arriva un primo pacco, la gioia è grande. I bombardamenti si fanno  sempre più intensi, si cerca di procurarsi quale tozzo di pane lavorando negli orti delle famiglie del paese. Le mansioni dei prigionieri cambiano continuamente, il cibo non è mai sufficiente. “Solo la fede ci sorregge ancora”, scrive Giovanni mentre inizia il secondo inverno di prigionia. Il 15 gennaio si registra “un violento bombardamento”. Poi la nota più attesa: “Giovedì Santo, siamo alla stazione in attesa di rientrare in Italia: la prova più dura alla quale sono stato sottoposto sta per terminare con un bombardamento degli alleati che causa diversi feriti”. Nel 1966 Giovanni Fratini sarà insignito della “Croce al Merito di Guerra per l’internamento in Germania”.

Autore: Reinhard Christanell

Festa delle associazioni: via alle danze

Anche quest’anno la Festa delle associazioni a San Giacomo ha dato il la all’apertura della stagione di iniziative. Tanti sono stati l’entusiasmo e la varietà.

Ormai gli abitanti della frazione di San Giacomo sanno che quando arriva settembre una domenica è dedicata alla Festa delle associazioni che, in un clima di allegria e divertimento, illustrano le proposte per la stagione che sta per cominciare.

Con una popolazione in costante crescita grazie alle nuove costruzioni, che hanno consentito a tante famiglie di spostarsi dalla città per trovare un clima più familiare e accogliente, è anche sempre maggiore l’entusiasmo con cui le associazioni presenti sul territorio costruiscono il proprio programma di attività e intrattenimento per ogni fascia di età. Ecco allora – con la festa proprio nel piazzale della chiesa, l’Oratorio Santiago che, come sempre, propone iniziative di ogni genere – dal pilates ai corsi di cucina e serate creative – solo per dirne alcune.

Presente come sempre anche l’ormai storica “Strapaes”, che ha intrattenuto il folto pubblico con cabaret e karaoke, e molto altro. A far trattenere il fiato sono state le esercitazioni dei vigili del fuoco volontari, presenza immancabile di ogni iniziativa a San Giacomo e quanto mai benvoluti in paese, così come gli alpini che, come sempre, si sono occupati di deliziare i palati dei presenti, tanto quanto gli irrinunciabili strauben di Giuliana e Loredana.

Non sono mancati gli spazi dedicati ai più piccoli: tanti laboratori creativi ricchi di colori, ma anche lo spazio di lettura proposto dalle biblioteche del paese, non solo per intrattenere durante la festa, ma soprattutto per avvicinare grandi e piccoli al dono della lettura, anche in vista della futura biblioteca che troverà spazio nel nuovo polo scolastico. Un appuntamento davvero atteso dalla popolazione.

La festa ha visto la partecipazione, assieme ai residenti “storici”, di moltissime delle nuove famiglie arrivate a San Giacomo, offrendo quindi l’opportunità di uno spazio di aggregazione, conoscenza e integrazione per chi si trova in paese da poco tempo. 

Con la festa delle associazioni si apre una stagione ricca di eventi: nei prossimi mesi e settimane non mancano gli appuntamenti da segnare in calendario per gli abitanti, a cominciare dalla ormai consueta Festa dei Nonni presso l’Oratorio il giorno 3 ottobre, che precede di poco la grande festa della parrocchia prevista invece per domenica 6. 

Tra gli appuntamenti sempre molto attesi c’è senz’altro la castagnata, come sempre organizzata in concomitanza con la festività di San Martino, il 10 novembre. 

Con l’arrivo del nuovo quartiere e di nuove attività commerciali, San Giacomo si sta riscoprendo come zona viva, dove sono sempre di più le persone che hanno voglia di mettersi in gioco per creare tra gli abitanti un senso di comunità e far sì che il paese non si trasformi in un semplice “dormitorio” del vicino capoluogo. Per questo, anche nel caso della festa delle associazioni, un sentito ringraziamento va a tutti i volontari – grandi e piccoli – che, come sempre, hanno dato il massimo.

Autrice: Raffaella Trimarchi

Il rinnovamento urbano e la costruzione della stazione ferroviaria

Tra il 1836 e il 1850, come sappiamo, il sindaco Haller aveva dato l’avvio ad una serie di migliorie urbane atte a rinnovare l’assetto della città. Fece abbattere una parte delle mura medievali, migliorò il sistema di canalizzazione, provvedendo all’approvvigionamento dell’acqua potabile con nuove fontane.

Un più fattivo impulso si ottenne dalla creazione, nel 1858, dell’Azienda di cura e soggiorno che provvide a creare le premesse per una vera e propria trasformazione della città. Molte vecchie case furono ristrutturate ed altre costruite ex novo. L’abbattimento negli anni Sessanta dell’ultimo tratto di mura compreso tra porta Bolzano e porta d’Ultimo, aprì completamente la città verso il Passirio, creando nuovi spazi e nuove possibilità di sviluppo.

Il flusso turistico, peraltro in costante aumento, subì un’impennata all’indomani della creazione della linea ferroviaria del valico del Brennero. Si risolveva così il problema del postiglione, delle frequenti soste per il cambio dei cavalli e la scomodità del viaggio, rendendolo più confortevole e velocizzando le comunicazioni. Le ansie che avevano accompagnato per secoli i viaggiatori provenienti dal nord nell’attraversare la cosiddetta “porta d’Italia” trovavano finalmente posa. Per raggiungere la nostra città restava un unico scoglio: il tragitto da Bolzano a Merano che andava ancora affrontato in carrozza con tempi che raggiungevano le tre ore. Cionondimeno nella stagione 1867-68 si raggiunsero le 2.400 presenze. Questa cifra delineò come irrinunciabile una riorganizzazione della ricezione turistica. Gli alloggi dei privati sotto i Portici e piccole locande come la Zur Rose non potevano più bastare. Fra i residenti si sviluppò un sano spirito imprenditoriale e così tra il 1865 e il 1875 si ristrutturarono numerosi edifici e si aprirono pensioni che assunsero la fisionomia di vere e proprie ville con giardino. Altre furono costruite lungo la Landesstrasse, l’odierno corso Libertà, anticipando quella che sarebbe stata più tardi la zona di espansione ovest della città. 

L’ulteriore conferma di Merano come luogo di cura e di vacanza diede una spinta positiva alla città, trasformandola nell’ultimo ventennio in un vero e proprio cantiere. Siccome la stazione era stata costruita su pascoli, a ovest del centro storico, quella zona sarebbe divenuta la zona d’espansione, trasformando l’area agricola in area edificabile. Il nuovo piano di sviluppo, redatto nel 1881 da Josef Musch, prevedeva la nascita di una zona residenziale con ampi viali alberati, ville e alberghi immersi in verdi parchi ed ampi giardini, secondo la tipologia delle città termali tedesche come ad esempio Wiesbaden.

Con l’andare del tempo anche a Merano iniziò a farsi strada l’idea di un congiungimento ferroviario con Bolzano e la costruzione di una stazione e nel 1872 si iniziarono le pratiche burocratiche in questo senso.

Visti gli interessi non solo turistici ma anche economici e commerciali in genere, il richiesto permesso giunse dal Ministero solo tre anni più tardi e subito si iniziarono i lavori di arginatura dell’Adige. L’opera fu condotta del consorzio delle ferrovie sostenuto anche dal lauto finanziamento dei fratelli Schwarz, fra i primi ebrei giunti in zona negli anni Trenta e proprietari di tre fabbriche di birra tra il Brennero, Bolzano e Vilpiano. Ai lavori di bonifica, arginatura e posa delle rotaie lavorarono anche numerosi italiani immigrati dal Trentino e dal Veneto.

La stazione, posta al centro di una piazza elissoidale era al contempo fulcro del nuovo assetto urbano e della vita turistica. Viali e strade vi si congiungevano, unendola ai punti principali del centro storico. La Beda Weber Strasse, l’odierna via Rezia, univa la stazione alla Stephanie Promenade. L’originaria Landstrasse, prolungata sacrificando la porta d’Ultimo, la metteva in comunicazione con la Ruffinplatz, oggi piazza Teatro, e con la piazza della Rena all’estremo opposto. In seguito la strada prese il nome di Habsburgerstasse e la piazza fu trasformata in giardino pubblico (1883). La via Mainardo infine univa lo scalo merci della stazione con la zona commerciale dei Portici. In questo vortice di rinnovamento furono coinvolti anche i ponti, ormai inadeguati. Il primo ad essere riprogettato, nel 1886, fu lo Spitalbrücke, ultimato però solo nel 1890. 

Una ulteriore fase di sistemazione ed abbellimento si ebbe fra il 1894 e il 1896: in questo periodo si affrontarono i lavori più diversi fra cui la sostituzione del padiglione della musica sulla Gisela Promenade con uno più elegante in ferro e vetro secondo il gusto dell’epoca.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Sospesi

Può essere crudele il divario tra percezione e realtà per chi non ha le spalle larghe? Tra la polvere di muri sgretolati e strade simili a groviere, case sgarrupate da bombe intelligenti e sventrate dalla furia dei fiumi romagnoli, austriaci, cechi e polacchi anche la larghezza delle scapole non serve a nulla, se non per sviscerare macerie o spalare fango, nella disperazione. Siamo sospesi, nel vuoto. Mentre le guerre non hanno tempi di ritorno ben precisi, ma scoppiano ininterrottamente, hanno durate indefinite e soluzioni larvali, ecco che, in aggiunta, alluvioni e fasi siccitose nostrane – due facce della stessa medaglia – mostrano incontrovertibilmente i sintomi di un paziente malato, la Terra. 

“I cicli esistono, ma si manifestano su scale temporali molto più lunghe rispetto a quella attuale. Il tasso di riscaldamento odierno non ha eguali nel passato (fino alla notte dei tempi), è velocissimo, e senza la forzante antropica, dal 1960 ad oggi la temperatura media del pianeta doveva rimanere stazionaria o addirittura diminuire leggermente. Quindi l’unico ‘responsabile’ è l’effetto dell’eccessiva concentrazione dei gas otticamente attivi, al netto di brevissime fluttuazioni legate alla variabilità naturale; l’attività solare non c’entra”, ci spiega Pierluigi Randi, meteorologo e presidente AMPRO. Siamo sospesi, finché la coorte dell’informazione non adotterà un approccio più  scientifico, piuttosto che sensazionalistico ed acchiappa-like. Sospesi,  su di un ponte sospeso. Quando il sole illumina le pendici arboree della gola sottostante, il tempo sembra fermarsi e dilatarsi per un attimo. Lo sguardo ne percorre i contorni e si fionda aggrappandosi all’orizzonte, come se laggiù si possano trovare certezze; le mani, invece, stringono i cavi che lo ancorano alla roccia, l’istintiva reazione al dondolio e al baratro. L’acciaio è freddo, come quello dei corpi sotto ai ruderi e detriti. La forza dell’acqua ha sradicato persino querce secolari dai cortili, nonché ettari di vegetazione ripariale, abbattuto argini, spazzato via anni di sacrifici ed ingiurie. Non s’è salvata manco la varroa, acari parassiti delle api, con le arnie galleggianti nell’alveo, a giocare di stecca con i tronchi, che tappano il regolare deflusso sotto le arcate dei ponti sopravvissuti. Siamo sospesi, senza terra sotto ai piedi; se ci fosse davvero un possedimento sarebbe sepolto sotto tonnellate di limo e di croste argillose che tolgono il respiro, alle piante e a tutti gli abitanti della buccia terrestre; sospesi, ma col cuore che batte, ancora. Ricordiamocelo, soprattutto, in tempi di pace, perché la fortuna non ammette mancanza di percezione. Fragili e sospesi, con le braccia al cielo e gli occhi sgranati, memori spettatori di quel famoso calciatore siciliano, che tanto ci fece emozionare.

Autore: Donatello Vallotta