L’apnea è uno sport di sensazioni

Luca Messina – siciliano di nascita, milanese di formazione e trentino di domicilio – lavora a tempo pieno come architetto, marito e padre e ha una grande passione per l’apnea che lo porta a venire a Bolzano da Cavalese, per poterla seguire da agonista e futuro istruttore. 

Come hai scoperto l’apnea? 

Ho iniziato sin da piccolissimo. Abitando in Sicilia il mare era un elemento quotidiano. Mio padre era un pescatore subacqueo e, vedendolo, da bambino il mio istinto era quello di copiarlo e seguirlo. Poi ho iniziato a fare nuoto quindi l’acqua è rimasta nella mia vita quotidiana, ma faceva già parte di me. Al Nord non è così facile fare apnea, si può fare solo in piscina, al mare è più facile perchè puoi praticarla tutti i giorni.

Cosa ti ha fatto appassionare?

L’apnea ricreativa è uno sport bellissimo, è tutta una questione di sensazioni. Si fa pochissima fatica fisica e si conoscono tantissime sensazioni positive, che nascono dal fluttuare sott’acqua, è quasi un’esperienza primordiale, sembra una via di mezzo tra il volare e l’essere sospesi nel nulla. Queste sensazioni creano quasi dipendenza. È uno sport molto coinvolgente dal punto di vista mentale. Non c’è adrenalina, ci sono sensazioni che ti fanno stare bene con te stesso; è uno sport in cui si lavora di sé, sulle ansie, sulla respirazione, un po’ come lo yoga. Mediti, ti conosci e ti analizzi. 

Sei anche agonista?

Sì sono agonista. Quello dell’agonismo è un mondo un po’ diverso. Rispetto all’apnea ricreativa entra in gioco lo stress. Le gare consistono nello stare sotto il più possibile quindi bisogna combattere un po’ contro il proprio corpo e ciò che ti dice di non fare. Le gare sono uno step più in là sia dal punto di vista mentale che fisico. Le sensazioni positive ci sono, ma c’è anche molto stress; come in tutti gli sport agonistici il piacere di giocare viene inquinato dall’allenamento intensivo, ma le soddisfazioni rimangono davvero tante. Si evolve molto perché lavorando si raggiungono obiettivi che sembrano lontanissimi. Il mondo dell’apnea è socialmente molto bello, i concorrenti sono una grande famiglia, le gare sono divertenti. Quello fa la differenza: con i compagni di squadra ci troviamo bene e ci divertiamo; il bello delle gare sono il prima e il dopo della prestazione.

Quali pensi siano gli aspetti migliori di questo sport?

Il lavoro che fai su te stesso e il conoscersi fino in fondo. L’apnea permette di affrontare un lavoro su se stessi che raramente si farebbe. Oltre alle sensazioni ci sono anche i luoghi che si vedono. Fare apnea significa andare in giro e conoscere posti nuovi: Mar rosso, i laghi, il mare in Sicilia e in Sardegna. Si scoprono posti nuovi e si vede il mondo sotto al mare ed è incredibile. 

Ti piacerebbe diventare istruttore?

Sto facendo corso istruttore proprio adesso. Ho iniziato perché Andrea e Roland me l’hanno proposto in quando Manta Freediving, con cui mi alleno, sta crescendo. Non pensavo mi interessasse però da quando ho coinvolto e introdotto al corso un mio amico di Cavalese che non conosceva l’apnea, ho scoperto che insegnare e trasmettere la passione è molto bello.

L’apnea è anche un’attività di famiglia?

Sì, anche mia moglie è coinvolta e si è appassionata tantissimo. Anche i miei figli che vedono mamma e papà che lo fanno si sono appassionati e quando andiamo al mare diventano dei pesciolini che scoprono il mondo subacqueo. 

Autrice: Anna Michelazzi

Johanna: una donna impegnata a fianco delle donne e dei minori

Johanna Herbst è nativa di Nova Ponente, ha studiato Legge a Trento e Innsbruck e nel 2004 ha aperto il suo studio legale a Egna. Con tenacia ha cercato e trovato la sua strada ed è riuscita ad affermarsi. Si batte per i diritti delle donne e dei minori, svolge anche attività di volontariato riguardanti i diritti delle donne, come ad esempio la consulenza legale per l’Ufficio Donne. 

Quando nacque in lei l’aspirazione di diventare avvocata?

In realtà, fin dall’inizio avevo un chiaro desiderio di studiare legge e, come molti altri, durante il percorso di studi avevo desiderato di diventare giudice. Dopo la laurea, però si conosce per la prima volta la realtà, cioè si inizia in piccolo, ci si rende conto che bisogna aspettare che vengano banditi i concorsi, ma nel frattempo si vuole/deve fare esperienza pratica e guadagnare allo stesso tempo. Così ho iniziato con un tirocinio presso un legale, poi ho insegnato diritto nelle classi quarta e quinta della scuola professionale Kaiserhof di Merano. Poi ho ricoperto l’incarico di giudice onorario presso il Tribunale di Bolzano, Sezione Distaccata di Merano, per poi rendermi conto col tempo che mi sentivo più a mio agio nella professione legale.  

Quale il caso che la scosse e la tenne in ansia?

I casi peggiori per me sono quelli che riguardano abusi e violenze. Di recente sono rimasta sconvolta dagli abusi sessuali su bambini minorenni da parte dei loro stessi zii e nonni, così come dagli abusi sui bambini da parte dei loro stessi genitori e parenti. In casi come questi, ci si interroga sulla specie umana.

Quando respirò per la prima volta il senso di aver contribuito a che giustizia fosse fatta?

È una domanda molto difficile e delicata, perché “avere ragione” e “ottenere la ragione” sono due aspetti diversi. Per esempio, posso avere ragione ma non ottenere giustizia perché non ci sono prove sufficienti. Il nostro sistema giuridico non ha nulla a che fare con la giustizia. Le leggi sono fatte dai politici. Esistono quindi principi, regole e norme giuridiche che devono essere attuate e applicate dal giudice secondo un ordine procedurale definito e nel modo già stabilito. In questo sistema, l’avvocato cerca di aiutare il cliente a realizzare le sue richieste scegliendo le opzioni migliori, spiegando il sistema e la legislazione e valutando i rischi e gli effetti collaterali. Ciò significa che, a prescindere dal fatto che si ritenga una cosa giusta o ingiusta, il senso di giustizia non gioca alcun ruolo nel procedimento. Così si impara rapidamente che l’atteggiamento idealistico nei confronti della giustizia con cui si è iniziato a studiare deve essere riconsiderato nella pratica.  Solo nel migliore dei casi si ha la sensazione di aver non solo vinto la causa, ma anche di aver assicurato la giustizia. 

Se non sbaglio lei ricopre un ruolo nel tribunale minorile… 

Un ruolo non è forse il termine giusto. Lavoro come curatrice speciale per i minori e sono iscritta in un apposito registro. Il curatore speciale può essere nominato dal Tribunale per i minori, ma anche dal Tribunale ordinario, quando il minore è in conflitto con i propri genitori o i suoi interessi non coincidono con quelli dei genitori. In altre parole, ogni volta che il minore ha bisogno di far sentire la propria voce e cioè di propria rappresentanza legale. Sono quindi, per così dire, l’avvocato del minore e rappresento solo il minore, indipendentemente da ciò che i genitori vogliono o non vogliono.

Come donna come si trova nel mondo dell’avvocatura altoatesina?

Nel frattempo, ho lavorato a lungo, sono stata accettata, integrata, e affermata. Con il passare degli anni, se non ti arrendi, trovi la tua strada e il tuo stile personale. Ma come donna, devi ancora superare più di un ostacolo, e aspettarti tempi di avviamento più lunghi. La parità di diritti non è ancora stata raggiunta.      

Come donna cosa vorrebbe fosse migliorato nel suo ambiente professionale?

Migliore compatibilità della professione con la vita familiare. Inoltre, le donne avvocato non possono sempre scegliere i settori in cui lavorare. In quanto donna, devi occuparti dei casi che ti vengono sottoposti o che ti vengono affidati e, a causa dei casi che devi trattare, cresci in una specializzazione. Ecco perché molte colleghe lavorano nel Diritto di famiglia, ad esempio, perché in quanto donna è più probabile che venga loro affidato questo settore. Se per esempio, come avvocato donna, volessi specializzarmi in Diritto societario, ma non riuscissi a trovare un impiego in uno studio legale e quindi diventassi una libera professionista senza però essere incaricata di trattare casi di questo tipo, non avrei scelta. Purtroppo in alcuni settori, i clienti credono ancora che un avvocato uomo possa gestire meglio il caso. Questi settori sono ancora dominati dagli uomini, cioè le grandi e importanti aziende sono ancora prevalentemente o esclusivamente gestite da maschi a livello decisionale, e per questo si rivolgono ad avvocati uomini. Secondo un recente studio commissionato dall’Ordine degli Avvocati di Bolzano, esistono ancora forti differenze di reddito. In media le donne avvocato guadagnano meno dei loro colleghi uomini. C’è ancora molto da fare.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La musica come identità e voce, per un un giovane talento

Oggi abbiamo il piacere di incontrare Kleris Qosja, un giovane di vent’anni nato a Brescia e cresciuto a Bolzano, nel quartiere Don Bosco. Kleris è un DJ appassionato, che ha trovato nella musica non solo una professione, ma anche un modo per esprimere sé stesso e connettersi con gli altri. Dopo aver frequentato a Bolzano l’istituto Galileo Galilei, ha iniziato a esplorare il mondo della musica, guidato dall’amore trasmesso da suo padre.

Quando ti sei appassionato al mondo della musica?

La mia passione per la musica è iniziata da quando ero molto piccolo, grazie a mio padre che mi ha trasmesso questo amore. Passavamo molto tempo ad ascoltare insieme le sue canzoni preferite, e penso che quel legame speciale mi abbia fatto comprendere quanto la musica fosse fondamentale per me. 

Perché hai scelto proprio di diventare DJ?

Essere DJ mi permette di trasformare le emozioni in musica e condividerle con gli altri, è anche un modo per sentirmi davvero bene e me stesso. Sentire l’energia della folla e creare una connessione speciale attraverso ogni brano è un’emozione unica.

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

La cosa che amo di più è vedere la reazione delle persone mentre suono. La loro energia e il loro entusiasmo creano una connessione speciale. Mi dà un’immensa soddisfazione riuscire a creare momenti che possono diventare indimenticabili.

Quali sono alcuni dei tuoi obiettivi raggiunti?

Sicuramente uno dei miei traguardi più importanti è stato suonare al Festival Studentesco. È stata un’esperienza che mi ha letteralmente cambiato la vita, facendomi capire che tutto l’impegno e la passione stavano finalmente portando risultati veri.

Com’è vivere nel quartiere Don Bosco?

Vivere a Don Bosco è davvero piacevole, è una zona tranquilla dove ho tanti bei ricordi con gli amici. È il quartiere in cui sono cresciuto. 

Ci racconti un ricordo particolare legato alla tua infanzia di quartiere?

Un ricordo speciale è aver condiviso questa mia passione per la musica elettronica con il mio migliore amico Matteo e aver da li creato un legame indelebile.

Che genere di musica ti piace suonare?

Mi piace suonare musica elettronica e dance, ma in realtà cerco sempre di adattarmi al pubblico e al contesto. L’importante è che la musica trasmetta energia.

Qual è il tuo più grande sogno?

Il mio sogno più grande è sicuramente quello di suonare nei festival più grandi al mondo con un’identità mia musicale (essendo anche un produttore di musica elettronica), avere un mio stile e far divertire le persone facendo entrare nel loro cuore ciò che voglio trasmettere.

Quali sono gli ingredienti necessari per una festa ben riuscita?

Per una festa perfetta ci vogliono buona musica, persone con voglia di divertirsi e un’atmosfera che permetta a tutti di essere sé stessi. La musica è fondamentale: ha il potere di creare legami e di far esprimere le persone. Può trasmettere emozioni che non riesci a spiegare a parole.

Autore: Niccolò Dametto

Il primi cinquant’anni del CLS


Scendendo da ponte Druso per la via omonima, girando a sinistra per via Roma, si nota, al n. 9, la targa, all’ingresso di un passaggio, con la scritta “C.L.S. agenzia di educazione permanente”. Si accede infatti alla sede, dal 1991, del Consorzio Lavoratori Studenti. L’agenzia divenuta punto di riferimento per l’educazione permanente ha celebrato il 14 ottobre i 50 anni di attività: corsi (recupero scuola media superiore, universitari, informatica, arte, lingue, Fondo Sociale Europeo, formazione immigrati…), laboratori creativi, conferenze, recupero anni scolastici e assistenza allo studio. Vengono proposti corsi di storia dell’arte, laboratori artistici e di piccolo artigianato. Non mancano i corsi di cucina, di degustazione, così come i corsi di crescita e sviluppo personale. Fin dalla sua nascita ha difeso il diritto allo studio, alla formazione, all’integrazione.  Ciò con il percorso di preparazione agli esami di idoneità  e all’esame di Stato di Scuola Secondaria Superiore tramite un sostegno individuale o in piccoli gruppi. Al centro del suo “lavoro”  il C.L.S ha messo l’attenzione, l’accompagnamento e l’accoglienza di ogni singolo partecipante. Come continuare a fare della cultura e dell’apprendimento il fine della propria attività? Se ne è parlato il 14 ottobre all’Eurac Researc, in via Druso, per ricordare appunto i 50 anni trascorsi  e presentare le nuove sfide che aspettano il C.L.S. nei prossimi anni. A fare gli onori  di casa è stato il trio dirigenziale, Patrizia Zangirolami, Matteo Grillo, Bianca Monti, mentre, al pubblico dell’auditorium (docenti e discenti, con amici e parenti) hanno dato il loro contributo esperti nel campo dell’educazione e della formazione continua. La manifestazione si è conclusa con un momento conviviale.

Autore: Leone Sticcotti

Fare quello che non c’è

Qui Intervista a Sergio Camin. Nato nel 1950 a Bolzano, vive e lavora a Ville di Fiemme, Varena (TN), e cerca da più di cinquant’anni di far convivere l’attività pittorica e grafica con la progettazione di luoghi narrativi e di interventi d’arte pubblica e di comunicazione sociale. Iscritto all’ordine dei giornalisti, ha collaborato con giornali e riviste, sua la rubrica “Visti dal Basso” sul quotidiano Alto Adige.

La cosa di me che mi piace di più.

Probabilmente, se me lo fossi chiesto qualche anno fa, avrei risposto la speranza. Adesso c’è molto meno, ma, mai aver paura delle contraddizioni. Mi è rimasta una cosa un po’ diversa che potremmo chiamare entusiasmo, nel senso che non spero, ma ci provo.

Il mio principale difetto.

Beh, sicuramente l’entusiasmo.

Il mio momento più felice.

Svegliarmi la mattina e ritrovare Claudia, un rapporto senza recite, senza finzioni e quella cosa straordinaria che è il sentirsi interi, completati.

Da bambino sognavo di diventare…

Io da bambino non ho mai sognato di diventare, da bambino ero di volta in volta indiano, cowboy, guerriero e non a caso si diceva “facciamo che io ero…”

La mia occupazione preferita.

Il mio lavoro, l’artista, e la cosa è un po’ complessa da far capire agli altri. La prima volta mi è successo a 26 anni, all’inaugurazione di una mia mostra a Mantova. La signora elegante aveva una faccia seria e mi chiese “Belli, ma di lavoro lei che cosa fa?”. Ecco: questo facevo e faccio.

Il luogo dove vorrei vivere.

Quello dove vivo, un paese piccolo con i boschi. Il turista vado a farlo in città.

Sono stato orgoglioso di me stesso quella volta che…

È successo raramente, ma ricordo l’ultima. Fila in autostrada, immobili, dietro di me una Ford grigia, 20 minuti, sempre immobili, tutti meno la Ford che mi tampona con forza. Sono uscito dalla macchina e mi sono limitato a chiedergli “Perché?”.

Tre aggettivi per definirmi.

Basso, vecchio e curioso.

Amo il mio lavoro perché…

È pensare e fare quello che non c’è, il comunque possibile o forse perché è soltanto un altro modo di raccontare.

L’ultima volta che ho pianto.

Ieri, pensando a un amico che non c’è più. Credo che piangere faccia bene, che ci aiuti quanto il ridere o l’urlare, per le emozioni non bastano solo le parole.

L’oggetto a cui sono più legato.

È un cavalletto, pesante, professionale, l’ho ancora in studio, un regalo di mio padre ai miei vent’anni. Non aveva molti soldi mio padre e sicuramente l’aveva pagato tanto, mi disse “Ricordati sempre chi vorresti essere.”

La mia maggiore paura.

Dimenticarmi le parole di mio padre.

Studenti e politica

Personalmente sono rimasto molto colpito quando lunedì scorso, con un comunicato stampa bilingue, la sede bolzanina degli studenti universitari sudtirolesi/altoatesini ha chiesto a unibz “maggiore apertura riguardo agli eventi politici” all’interno dell’ateneo. “Finora, l’Università ha adottato la linea di non permettere iniziative come dibattiti pubblici su temi controversi, come le Olimpiadi 2026 o altri argomenti simili. Per noi è incomprensibile, poiché nelle sedi universitarie delle nostre delegazioni esterne sentiamo regolarmente parlare di eventi socio-politici, veniamo invitati a partecipare – ad esempio da organizzazioni partner come l’Österreichische HochschülerInnenschaft – e soprattutto organizziamo noi stessi tali eventi”, ha sottolineato Alexander von Walther, presidente della sh.asus. “Comprendiamo ovviamente che l’Università, come istituzione pubblica, non possa ospitare eventi di partiti politici o organizzazioni tendenziose. Anche noi come associazione non lo vogliamo”, ha aggiunto la sh.asus nel suo comunicato. Mentre la giovane vicepresidente della sh.asus Magdalena Scherer dal canto suo ha ricordato che “a Innsbruck, lo scorso anno, la sede esterna dell’associazione studentesca ha organizzato un dibattito pubblico sulle elezioni provinciali che ha ricevuto riscontri molto positivi, con l’aula più grande dell’Università strapiena, oltre 400 studentesse e studenti interessati tra il pubblico e più di 100 collegati in streaming”. “A Bolzano, una cosa del genere non sarebbe stata possibile”, ha aggiunto.
L’associazione degli studenti universitari ha ricordato che per i loro colleghi austriaci si tratta di prassi consolidate e che l’organizzazione di tali eventi è addirittura considerata “un obbligo”.
“Anche noi vediamo come nostro compito promuovere l’educazione politica tra i giovani – concretamente tra le studentesse e gli studenti nelle nostre delegazioni esterne – e per questo riceviamo, tra le altre cose, contributi provinciali”, hanno concluso presidente e vicepresidente di sh.asus che, lo ricordiamo, non sono estremisti e agitatori politici.
In provincia di Bolzano abbiamo un grande bisogno di giovani consapevoli e attivi per quanto riguarda tutto quello che riguarda la gestione cosa pubblica, anche nell’ottica di avere in futuro una classe politica migliore di quella attuale. Spero dunque che tali divieti vengano meno al più presto possibile, nell’interesse di tutta la nostra comunità locale.

Autore: Luca Sticcotti

Un piano in più verso l’indipendenza

Se fossimo in Avvento sarebbe una bella storia di Natale. Ma in fondo quella casa a San Giacomo è sempre addobbata a festa, è un luogo dove l’amore tinge le pareti, e non solo. Sabato scorso se ne sono aggiunte altre, di pareti, nella sede dell’Associazione “Aias Laives – Archimede”. Stiamo parlando della casa (privata) di Nelda Bigolin e Paolo Kerschbaumer, una coppia che ha fatto dell’inclusione la propria missione di vita: il piano rialzato è stato ristrutturato in modo da poter costruire al piano superiore appartamenti destinati ad accogliere ragazzi diversamente abili.

C’era il pubblico delle grandi occasioni, al civico 159 di San Giacomo di Laives: le autorità, gli associati, tanti amici e i “padroni di casa”, i quattordici  ragazzi diversamente abili che rendono viva quella casa: “Qui nessuno sta con le mani in mano, i nostri ragazzi sono sempre impegnati. D’altronde sono una ex insegnante, non posso cambiare la mia natura”, spiega con il sorriso Nelda Bigolin. 

È lei che anni fa aveva ricevuto in eredità la metà di quello stabile. Ed è sempre lei che, assieme a suo marito Paolo Kerschbaumer, quattro anni fa ha deciso di rilevarne anche l’altra metà, ristrutturandolo a spese proprie con lo scopo di  utilizzarlo per quei nobili scopi. Sabato scorso, poi, c’è stata la festa per l’ulteriore miglioramento. 

Signora Nelda, la sede si sta decisamente evolvendo…

È un passo avanti verso il coronamento di un sogno, adesso abbiamo molti più spazi per il nostro progetto. Quello che abbiamo inaugurato sabato, poi, è bel salto di qualità per tutti noi. Abbiamo salutato la ristrutturazione del piano rialzato in previsione del risanamento di altri due piani: un piano più un attico destinati ad accogliere ragazzi che potranno convivere tutti assieme in camere grandi, tutte con bagno nell’ambito di quel progetto che chiamiamo il “dopo di noi”.

“Dopo di noi”?

Eh sì. Anche se speriamo tutti di poter restare il più possibile su questa Terra, prima o poi sia io che mio marito non ci saremo più, tutti i genitori di questi ragazzi non ci saranno più. Quindi dobbiamo pensare al loro futuro, ora che siamo ancora in vita. Nel ristrutturare questa casa che ha più di sessant’anni, mio marito ed io abbiamo utilizzato materiale di alta qualità perché abbiamo pensato che questi appartamenti dovranno durare almeno altri 35 – 40 anni, proprio per assicurare un tetto sopra la testa dei nostri giovani.

Quanti sono i vostri ragazzi?

In tutto ospitiamo 14 ragazzi, abbiamo 55 associati e contiamo su 15 volontari. 

Quindici volontari non sono pochi…

Invece purtroppo lo sono. E purtroppo mancano i giovani. La casa è grande, i progetti sono tanti, tutti improntati a guidare gli utenti al raggiungimento di una maggiore autonomia nella quotidianità, far raggiungere loro i primi passi verso una vita autonoma. C’è il laboratorio di pittura, il laboratorio di cavallo, abbiamo anche un pollaio, un orto e un campo di patate: nei giorni scorsi ne abbiamo raccolte ben 7 quintali, e le abbiamo vendute tutte. Ci stiamo dando da fare anche per cercare di autofinanziarci, come quando abbiamo fatto i biscotti di Natale. Il primo anno ne abbiamo fatti 20 chili  e sono andati a ruba, tanto che l’anno successivo ce ne hanno chiesti 30; l’anno scorso abbiamo ne abbiamo preparato 50 chili e per quest’anno ce ne hanno chiesti altri 80, ma non ce la facciamo, non possiamo accettare. È per questo che avremmo bisogno di volontari. Ma nessuno qui sta mai con le mani in mano, noi ci divertiamo: organizziamo una media di sei soggiorni all’anno, siamo stati a Firenze, Milano, Ferrara, in un agriturismo. Abbiamo fatto esperienze interessanti. Se qualcuno avesse intenzione di aggregarsi basta che visiti il sito www.archimedelaives.it

Ma non vi sentite stanchi, ogni tanto?

A volte sì: la casa è grande e a tratti difficile da gestire, le attività sono tante. Ma ce la facciamo, anche quando sembra tutto difficile: è il nostro progetto da sempre, la nostra passione. Non la sentiamo la fatica, perché – senza usare alcuna retorica – facciamo tutto volentieri, sentiamo che stiamo realizzando qualcosa di importante, e la soddisfazione di vedere la gioia negli occhi dei ragazzi ci ripaga di ogni sforzo.

Autore: Luca Masiello

Essere donna in Asia

La condizione della donna nel continente asiatico raccontata e documentata da Paola Marcello: una testimonianza per sensibilizzare il grande pubblico sui temi dell’identità di genere.


Proseguirà fino al 23 dicembre presso il Museo delle Donne a Merano, la mostra fotografica “Donne in Asia”. A proporla è la fotografa e documentarista Paola Marcello che ha trascorso un anno e mezzo nei paesi asiatici alla scoperta di un mondo femminile da noi molto lontano ma che allo stesso tempo accomuna quelle donne a quelle che vivono in occidente.

“È un lavoro dedicato a tutte le donne che ho incontrato – scrive l’autrice nella prefazione del bellissimo catalogo illustrato che accompagna la mostra – nei miei numerosi viaggi nel corso degli anni. Desidero esprimere loro il mio rispetto, la mia solidarietà e la mia ammirazione per le loro varie condizioni di vita, cause di lotte e destini. Ogni incontro è stato per me un arricchimento personale, poiché sono rimasta incantata dalla meraviglia e dalla generosità dell’umanità e della natura che mi circondavano”.
Luca Chistè a sua volta esperto fotografo ha curato la pubblicazione delle foto e il catalogo e così si è espresso a proposito del lavoro di Paola Marcello: “si tratta di una ricerca che ci parla delle donne incontrate lungo un itinerario di straordinaria ampiezza geografica, umana e culturale, in cui emerge con rara prepotenza ed intensità stilistica, la dimensione poetico-fotografica dell’autrice”.

Paola Marcello, perché questo lavoro?
Personalmente ho bisogno ogni tanto di staccare e prendermi un periodo sabbatico per andare a scoprire il mondo. Questo non essenzialmente per fare un reportage fotografico, ma per conoscere altri mondi, entrare in sintonia con le persone, parlare con loro, conoscere e capire i loro problemi, il loro vissuto. Solo dopo arriva lo scatto fotografico che rappresenta la sintesi di quello che io vivo in prima persona. Lo scopo di “Donne in Asia” era da un lato catturare le immagini, l’essenza e l’anima delle donne che ho incontrato e dall’altro trasformare questa testimonianza in una lettura dal significato universale per arrivare alla tanto sospirata parità di genere in contesti dove questa prospettiva è sistematicamente frustrata, disattesa e brutalmente repressa.

Cosa ha portato con sé tornando a casa?
Ho conosciuto donne che sono il pilastro di una società e di una famiglia, che si prendono cura della terra, la coltivano e ne traggono nutrimento, che svolgono ruoli di guardiane e custodi di antiche tradizioni, sciamane, sagge, rivoluzionarie, innovatrici, artigiane e imprenditrici. Un caleidoscopio di figure femminili tutte diverse tra loro ma accomunate dagli stessi principi di fondo, che nonostante le molteplici sfide quotidiane hanno ancora la voglia e il coraggio di sorridere, contente e serene, nonostante la loro condizione.

Quali sono gli obiettivi di questo suo progetto?
Essenzialmente uno solo. Quello di sensibilizzare il grande pubblico sui temi dell’identità di genere e della condizione delle donne, accorciando le distanze tra i diversi mondi femminili e stimolare una riflessione, quanto più ampia possibile, sulla loro identità nel mondo.

IL CATALOGO

La mostra è accompagnata da un catalogo che allo stesso tempo è un libro in cui Paola Marcello correda le sue bellissime immagini, con racconti tratti dall’esperienza che ha vissuto attraversando Thailandia, Nepal, India, Pakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Iran. Sono sette Nazioni a ciascuna delle quali è dedicata una sezione della mostra presso il Museo delle Donne. Paola Marcello nasce a Merano dove vive quando non è in giro per il mondo. Titolare di un “Master di reportage” alla scuola John Kaverdash di Milano si è gradualmente avvicinata al reportage socioculturale e di viaggio. Il suo primo lavoro “Palestina vita oltre il muro” è del 2009. Nel 2011 ha realizzato il progetto “I nuovi meranesi” una documentazione sul tema dell’immigrazione nella società multiculturale di Merano. Sono quindi seguiti altri progetti foto­grafici ad indagine sociale “Io vivo: im­mersione nel mondo delle persone diversamente abili“, “Farfalle nella mente – uno sguardo diverso nella vita di persone affette da demenza senile“, “Storie di commercianti: i negozi in Alto Adige attraverso le generazioni“, “Vite in itinere. Storie di donne in viaggio verso Mera­no“, “Sulla Pelle; gli ultimi volti femminili tatuati del Myanmar”. Negli anni Marcello ha realizzato diverse pubblicazioni, mostre personali e collettive, collaborando con istituzioni e musei in Trentino-Alto Adige, Germania e Austria.

Autore: Enzo Coco

Luca Sticcotti: creatività a tutto tondo

Se la scrittura lo vede protagonista come pubblicista e giornalista sin dagli anni Novanta – e la musica lo ha impegnato fin dai suoi studi universitari e al conservatorio, cui è seguito un lungo periodo di sperimentazione musicale e il 2004 lo ha visto affermarsi come compositore in ambito classico proponendo “Febbraio”, un suo brano per orchestra d’archi – ora è l’arte a dare una ulteriore prova dei tanti talenti di Luca Sticcotti. Nel 2015 ha infatti iniziato con successo a dedicarsi alla pittura all’acquerello, ispirandosi alle tecniche pittoriche di una serie di artisti giapponesi e scandinavi. La qualità dei suoi acquerelli ha riscosso fin da subito il favore di chi aveva avuto modo di vederli spingendolo ad esporre queste sue opere e farle conoscere ad un più ampio pubblico. Così nel 2017 sono iniziate anche le esposizioni con “Nebbie e d’intorni” seguita da “Instant of light”, nel 2019. Ora è la volta di “Intimate Landscapes” dal 18 al 30 ottobre, alla Piccola Galleria di Via Streiter a Bolzano. Eterei eppure dirompenti gli acquerelli di Luca Sticcotti hanno la capacità di evocare sensazioni, emozioni, sentimenti. Poche pennellate essenziali danno vita ad un paesaggio solitario, magari avvolto dalla nebbia oppure colto all’alba piuttosto che al tramonto, un orizzonte in lontananza, un gruppo di alberi prima di una radura, una marina dopo una tempesta, nuvole in un cielo plumbeo squarciato all’improvviso da una luce, primavera oppure inverno, neve o sabbia non sono semplicemente paesaggi ma veri e propri flash back dei nostri vissuti. In queste opere sembrano sprigionarsi armonie quasi che i colori fossero toni, note, di uno spartito interiore. Nei paesaggi in mostra il fruitore potrà perdersi fino a ritrovare sé stesso e quel clima intimo che governa le nostre giornate felici e quelle tristi. “Intimate landscapes” è dunque la chiave di lettura di questi acquerelli dal fascino nordico e dalla linearità giapponese.  

Autrice: Rosanna Pruccoli

Melissa: “ecco cos’è l’emigrazione”

Questa è la storia di Melissa De la Caridad Rodriguez Ortiz, donna che è dovuta scappare da Cuba a ventitré anni con il piccolo bambino, verso l’Italia. Dalla Russia alla rotta Balcanica con il pensiero costante di dover portare suo figlio al sicuro e con la paura di non riuscire a sopravvivere, lasciando dietro di sé le persone care senza sapere se un giorno le potrà rivedere.

Quando si parla di emigrazione e immigrazione a livello di opinione pubblica spesso ci si ferma alle problematiche relative alla sicurezza e all’impossibilità di gestire questi flussi che diventano incontrollati nella maggior parte dei casi solo a causa di precise scelte (o non scelte) politiche.
Abbiamo dunque pensato che potesse essere interessante raccontare la storia vera di una giovane donna che lavora come badante in Alto Adige e che è arrivata qui in maniera a dir poco rocambolesca (e pericolosa) assieme a suo figlio di tre anni. Interessante è anche la sua provenienza: non si tratta né di Africa né di Medio Oriente, ma del Centro America.

L’INTERVISTA

Melissa, ci dice in breve la sua origine?
Sono di L’Avana. Io e mio figlio Adriano siamo in Italia da due anni. A Cuba mi sono laureata in infermieristica e lavoravo in terapia intensiva pediatrica. Qui invece, a causa di problemi di equiparazione dei titoli, faccio la badante.

Perché è scappata da Cuba?
A Cuba mancava quasi tutto, ma dopo la pandemia anche beni di prima necessità, come medicine e alimenti per i bambini che sono diventati introvabili. L’11 luglio 2021 le persone hanno iniziato a manifestare prendendo di mira tutto ciò che potesse far pressione sullo Stato. In ospedale sentivamo le persone che lanciavano i sassi alle finestre e sono iniziati ad arrivare molti bambini feriti. Il governo ha attuato una repressione violenta. Ho smesso di sentirmi sicura, ho iniziato a pensare a mio figlio che doveva crescere e, in novembre, ho deciso di andare via. Ho venduto tutto per comprare i biglietti aerei per la Russia: l’unico Paese per il quale non avremmo dovuto aspettare costosi visti. Sono partita con il mio allora marito e Adriano.

Com’è arrivata in Italia?
Ho viaggiato per sette mesi. Come detto la prima tappa è stata la Russia. Da lì abbiamo preso un aereo per la Serbia. In seguito siamo arrivati in Bosnia pagando 300€ a persona per un trasporto in barca. Arrivati lì, ci siamo spostati nella capitale Sarajevo, nel centro di accoglienza Ušival, che si trova sulla rotta Balcanica. Lì le persone sono state bravissime con noi. Poi abbiamo preso un bus per il confine croato da cui abbiamo continuato a piedi in montagna lungo la rotta che molti conoscono perché su di essa è stato creato il videogioco “The Game”. Mi ricordo benissimo, siamo partiti alle 23 e siamo arrivati alle 6 di mattina. Mio figlio per tutto quel tempo non ha potuto mangiare o bere ed era impaurito dal buio totale. Non potevamo farci vedere mentre attraversavamo il confine: c’erano i poliziotti con i cani. In Croazia un’associazione ha mandato un minivan per portarci in un hotel a Zagabria, dove ho dovuto richiedere Protezione Internazionale per poter restare. Per arrivare al confine sloveno abbiamo quindi preso un bus. Alle 18 abbiamo iniziato a camminare e abbiamo dormito in un bosco fino alle 6 del mattino. Sentivamo i lupi e vedevamo le impronte degli orsi. Avevamo molta paura. Abbiamo dormito in un buco con delle pietre appuntite sperando che avrebbero tenuto lontani gli animali. La mattina abbiamo iniziato a scendere da una collina. Era così ripida che scivolavamo e l’unico freno erano gli alberi. Il bambino mi preoccupava tantissimo, ma mi ripetevo che eravamo lì per il suo bene. In Slovenia eravamo finalmente nell’Unione Europea e allora abbiamo chiamato i poliziotti che ci hanno portato in un centro di accoglienza dove siamo rimasti in attesa di un documento per poter uscire. Una volta ottenuto il documento abbiamo raggiunto il confine italiano e mio fratello è venuto a prenderci per portarci a Bolzano. Mi ha fatto sentire benissimo vedere il confine italo-sloveno: c’era solo un binario, lo passavi ed eri arrivata.

Qual è stato il momento più difficile?
In Russia. È un Paese molto freddo, le persone sono denigranti e razziste. Un giorno mi è stato richiesto di pagare per dormire la notte: sono andata a un bancomat, ma al ritorno mi sono persa e mi si è spento il cellulare. Due poliziotti allora mi hanno fermata e chiesto cosa stessi facendo; non parlando la lingua ho risposto in spagnolo dicendo che mi ero persa. Allora loro hanno utilizzato il telefono per usare il traduttore e così ho potuto spiegare chi ero e che mi ero persa. Loro si sono messi a ridere e a prendermi in giro, si sono accesi una sigaretta e mi hanno ordinato di spogliarmi. La temperatura segnava -28°. Mi hanno anche fatto togliere le scarpe e mettere i piedi nella neve. È stata una delle esperienze più traumatiche della mia vita. Ma ora tutto è passato, mi sento meglio. Tutto ciò che sono riuscita a fare, anche da sola, mi rende orgogliosa: ho iniziato a lavorare, ho sempre lavorato senza sosta, ho trovato casa e mio figlio va a scuola.

Qual è stato il suo pensiero più costante?
Il mio pensiero più costante è stato se sarei arrivata e se sarei arrivata viva. Anche perché scendendo dalla collina in Slovenia ho visto alcune mamme che si buttavano con i figli e che quindi morivano. Con mio figlio sulle spalle vedevo questo e mi chiedevo se, invece, io ce l’avrei fatta.

L’accoglienza a Bolzano com’è stata?
Negli uffici dove sono dovuta andare non sono riuscita a ricevere tutte le informazioni necessarie e mi sono sentita emarginata. Nel centro di accoglienza i bagni non erano divisi e le persone aprivano la tenda quando mi lavavo, è stato traumatico. La Caritas invece mi ha aiutato tantissimo. Così come l’associazione GEA che quando sono stata vittima di violenza domestica mi ha fornito supporto psicologico, un appartamento e assistenza legale nel caso avessi voluto denunciare. Tra le persone “comuni” invece ho incontrato sia persone razziste che persone molto belle.

Suo figlio Andriano come ha vissuto tutte queste cose?
Adriano è stato bravissimo, ogni tanto mi chiedeva dove fossimo e quanto mancava alla destinazione, ma in generale non mi chiedeva niente di più di quanto non gli dessi. Aveva molta paura del buio, non mangiava e non beveva come avrebbe dovuto, io mi preoccupavo, ma lui mi abbracciava. Per tutta quella strada lui mi ha sempre abbracciato. Non so se gli sia rimasto qualcosa di indelebile nella sua memoria. La paura di stare da solo gli è passata, ma quella di dover “tornare lì in montagna” ancora torna. Ciò che mi ha fatto soffrire di più è stato fargli attraversare queste difficoltà, ma so che l’ho fatto per lui. Non avevo altra scelta.

Autrice: Anna Michelazzi