Il rinnovamento urbano e la costruzione della stazione ferroviaria

Tra il 1836 e il 1850, come sappiamo, il sindaco Haller aveva dato l’avvio ad una serie di migliorie urbane atte a rinnovare l’assetto della città. Fece abbattere una parte delle mura medievali, migliorò il sistema di canalizzazione, provvedendo all’approvvigionamento dell’acqua potabile con nuove fontane.

Un più fattivo impulso si ottenne dalla creazione, nel 1858, dell’Azienda di cura e soggiorno che provvide a creare le premesse per una vera e propria trasformazione della città. Molte vecchie case furono ristrutturate ed altre costruite ex novo. L’abbattimento negli anni Sessanta dell’ultimo tratto di mura compreso tra porta Bolzano e porta d’Ultimo, aprì completamente la città verso il Passirio, creando nuovi spazi e nuove possibilità di sviluppo.

Il flusso turistico, peraltro in costante aumento, subì un’impennata all’indomani della creazione della linea ferroviaria del valico del Brennero. Si risolveva così il problema del postiglione, delle frequenti soste per il cambio dei cavalli e la scomodità del viaggio, rendendolo più confortevole e velocizzando le comunicazioni. Le ansie che avevano accompagnato per secoli i viaggiatori provenienti dal nord nell’attraversare la cosiddetta “porta d’Italia” trovavano finalmente posa. Per raggiungere la nostra città restava un unico scoglio: il tragitto da Bolzano a Merano che andava ancora affrontato in carrozza con tempi che raggiungevano le tre ore. Cionondimeno nella stagione 1867-68 si raggiunsero le 2.400 presenze. Questa cifra delineò come irrinunciabile una riorganizzazione della ricezione turistica. Gli alloggi dei privati sotto i Portici e piccole locande come la Zur Rose non potevano più bastare. Fra i residenti si sviluppò un sano spirito imprenditoriale e così tra il 1865 e il 1875 si ristrutturarono numerosi edifici e si aprirono pensioni che assunsero la fisionomia di vere e proprie ville con giardino. Altre furono costruite lungo la Landesstrasse, l’odierno corso Libertà, anticipando quella che sarebbe stata più tardi la zona di espansione ovest della città. 

L’ulteriore conferma di Merano come luogo di cura e di vacanza diede una spinta positiva alla città, trasformandola nell’ultimo ventennio in un vero e proprio cantiere. Siccome la stazione era stata costruita su pascoli, a ovest del centro storico, quella zona sarebbe divenuta la zona d’espansione, trasformando l’area agricola in area edificabile. Il nuovo piano di sviluppo, redatto nel 1881 da Josef Musch, prevedeva la nascita di una zona residenziale con ampi viali alberati, ville e alberghi immersi in verdi parchi ed ampi giardini, secondo la tipologia delle città termali tedesche come ad esempio Wiesbaden.

Con l’andare del tempo anche a Merano iniziò a farsi strada l’idea di un congiungimento ferroviario con Bolzano e la costruzione di una stazione e nel 1872 si iniziarono le pratiche burocratiche in questo senso.

Visti gli interessi non solo turistici ma anche economici e commerciali in genere, il richiesto permesso giunse dal Ministero solo tre anni più tardi e subito si iniziarono i lavori di arginatura dell’Adige. L’opera fu condotta del consorzio delle ferrovie sostenuto anche dal lauto finanziamento dei fratelli Schwarz, fra i primi ebrei giunti in zona negli anni Trenta e proprietari di tre fabbriche di birra tra il Brennero, Bolzano e Vilpiano. Ai lavori di bonifica, arginatura e posa delle rotaie lavorarono anche numerosi italiani immigrati dal Trentino e dal Veneto.

La stazione, posta al centro di una piazza elissoidale era al contempo fulcro del nuovo assetto urbano e della vita turistica. Viali e strade vi si congiungevano, unendola ai punti principali del centro storico. La Beda Weber Strasse, l’odierna via Rezia, univa la stazione alla Stephanie Promenade. L’originaria Landstrasse, prolungata sacrificando la porta d’Ultimo, la metteva in comunicazione con la Ruffinplatz, oggi piazza Teatro, e con la piazza della Rena all’estremo opposto. In seguito la strada prese il nome di Habsburgerstasse e la piazza fu trasformata in giardino pubblico (1883). La via Mainardo infine univa lo scalo merci della stazione con la zona commerciale dei Portici. In questo vortice di rinnovamento furono coinvolti anche i ponti, ormai inadeguati. Il primo ad essere riprogettato, nel 1886, fu lo Spitalbrücke, ultimato però solo nel 1890. 

Una ulteriore fase di sistemazione ed abbellimento si ebbe fra il 1894 e il 1896: in questo periodo si affrontarono i lavori più diversi fra cui la sostituzione del padiglione della musica sulla Gisela Promenade con uno più elegante in ferro e vetro secondo il gusto dell’epoca.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Sospesi

Può essere crudele il divario tra percezione e realtà per chi non ha le spalle larghe? Tra la polvere di muri sgretolati e strade simili a groviere, case sgarrupate da bombe intelligenti e sventrate dalla furia dei fiumi romagnoli, austriaci, cechi e polacchi anche la larghezza delle scapole non serve a nulla, se non per sviscerare macerie o spalare fango, nella disperazione. Siamo sospesi, nel vuoto. Mentre le guerre non hanno tempi di ritorno ben precisi, ma scoppiano ininterrottamente, hanno durate indefinite e soluzioni larvali, ecco che, in aggiunta, alluvioni e fasi siccitose nostrane – due facce della stessa medaglia – mostrano incontrovertibilmente i sintomi di un paziente malato, la Terra. 

“I cicli esistono, ma si manifestano su scale temporali molto più lunghe rispetto a quella attuale. Il tasso di riscaldamento odierno non ha eguali nel passato (fino alla notte dei tempi), è velocissimo, e senza la forzante antropica, dal 1960 ad oggi la temperatura media del pianeta doveva rimanere stazionaria o addirittura diminuire leggermente. Quindi l’unico ‘responsabile’ è l’effetto dell’eccessiva concentrazione dei gas otticamente attivi, al netto di brevissime fluttuazioni legate alla variabilità naturale; l’attività solare non c’entra”, ci spiega Pierluigi Randi, meteorologo e presidente AMPRO. Siamo sospesi, finché la coorte dell’informazione non adotterà un approccio più  scientifico, piuttosto che sensazionalistico ed acchiappa-like. Sospesi,  su di un ponte sospeso. Quando il sole illumina le pendici arboree della gola sottostante, il tempo sembra fermarsi e dilatarsi per un attimo. Lo sguardo ne percorre i contorni e si fionda aggrappandosi all’orizzonte, come se laggiù si possano trovare certezze; le mani, invece, stringono i cavi che lo ancorano alla roccia, l’istintiva reazione al dondolio e al baratro. L’acciaio è freddo, come quello dei corpi sotto ai ruderi e detriti. La forza dell’acqua ha sradicato persino querce secolari dai cortili, nonché ettari di vegetazione ripariale, abbattuto argini, spazzato via anni di sacrifici ed ingiurie. Non s’è salvata manco la varroa, acari parassiti delle api, con le arnie galleggianti nell’alveo, a giocare di stecca con i tronchi, che tappano il regolare deflusso sotto le arcate dei ponti sopravvissuti. Siamo sospesi, senza terra sotto ai piedi; se ci fosse davvero un possedimento sarebbe sepolto sotto tonnellate di limo e di croste argillose che tolgono il respiro, alle piante e a tutti gli abitanti della buccia terrestre; sospesi, ma col cuore che batte, ancora. Ricordiamocelo, soprattutto, in tempi di pace, perché la fortuna non ammette mancanza di percezione. Fragili e sospesi, con le braccia al cielo e gli occhi sgranati, memori spettatori di quel famoso calciatore siciliano, che tanto ci fece emozionare.

Autore: Donatello Vallotta

Melanie: una vita fatta di grandi passioni 

Dopo una formazione specialistica approfondita che l’ha portata a frequentare Università importanti con la Bocconi di Milano e la Berkeley di Saint Francisco, Melanie Aukenthaler ha preso nelle proprie mani l’azienda di famiglia ed è una affermata albergatrice. Appassionata di cultura e design è una mecenate generosa nel sostenere le arti visivi con la piattaforma per gli artisti Carte Blanche ma anche la letteratura e la musica. 

Oggi lei è una delle albergatrici più importanti del tessuto ricettivo meranese ma è anche mamma, ed è una curiosa e appassionata mecenate delle arti. Musica, letteratura e arte visiva attraggono la sua attenzione. Come concilia tutto questo?

E’ la passione il comune denominatore. La passione nell’essere mamma, la passione nel gestire l’attività imprenditoriale e la passione per l’arte. Grazie alla dedizione i miei progetti di vita convivono in equilibrio.

Quando nasce la decisione di portare avanti l’albergo fondato 60 anni fa dai suoi genitori?

La decisione di continuare la gestione dell’hotel è stata una naturale evoluzione del mio percorso professionale. Ho compreso e apprezzato la visione dei miei genitori sin dalla giovane età. 

Che tipo di studi aveva compiuto?

Ho studiato Economia Aziendale all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. 

L’arrivo da tutto il mondo dei vostri clienti l’avrà costretta ad imparare le lingue, quali conosce, dove le ha studiate?

Sì, l’internazionalità dei nostri ospiti mi ha spinto ad apprendere diverse lingue. Oltre al tedesco e all’italiano, parlo anche francese e inglese. Ho acquisito queste competenze attraverso il liceo linguistico, soggiorni studio all’estero e una sessione universitaria alla Berkeley University di San Francisco.

Nel vostro albergo quali sono i suoi compiti?

Nel mio ruolo, sono responsabile della direzione strategica e della gestione dell’hotel. Questo include la supervisione delle operazioni quotidiane, la guida del nostro team, la pianificazione e l’attuazione di strategie di marketing, nonché la garanzia di un’esperienza ospite di alta qualità. 

L’albergo è un gioiello di design e architettura d’interno. Lei quindi è cresciuta nel bello, ha sempre amato questi arredi? Ha contribuito anche Lei alle scelte del nuovo allestimento della hall?

Sì, ho sempre avuto una grande passione per il design e l’estetica. La progettazione del nostro hotel è un processo continuo e ho partecipato attivamente alla selezione e all’implementazione dei nuovi concetti di design. Una ristrutturazione è una sfida entusiasmante che mi permette di esprimere la mia visione per creare un ambiente contemporaneo e allo stesso tempo elegante.

Oggi la sala rosa shocking che era sempre stata un gioiello si è notevolmente arricchita diventando lo scrigno adatto a conservare una parte dei sedili del teatro cittadino. Come vi è venuta questa splendida idea?

L’idea di trasformare la sala rosa shocking in uno scrigno per conservare parti dei sedili del teatro cittadino è nata dal nostro desiderio di collegare patrimonio culturale e architettura dell’hotel. Volevamo creare uno spazio che fosse esteticamente affascinante e funzionale, permettendo al tempo stesso di preservare e valorizzare il nostro patrimonio culturale in modo innovativo.

Come è nata la passione per l’arte e la decisione di favorirla a vari livelli e anche con la piattaforma Carte Blanche?

La mia passione per l’arte è nata durante la mia gioventù, quando ho iniziato ad esplorare e ad apprezzare diverse forme artistiche. Questa passione si è approfondita nel tempo e mi ha spinta a sostenere l’arte in molti modi. La piattaforma Carte Blanche è un’estensione di questo impegno e ci consente di promuovere artisti emergenti, offrendo loro una piattaforma per presentare le loro opere a un pubblico più ampio.

Cosa muove la vostra famiglia a spendersi così tanto per sostenere e vivere la cultura?

La nostra famiglia considera il sostegno alla cultura come un investimento nel futuro. La cultura arricchisce le nostre vite e contribuisce allo sviluppo sociale e culturale della comunità. Crediamo che sia nostra responsabilità sostenere e promuovere iniziative culturali per creare una comunità vivace e creativa.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Una casa di quartiere per ridare vita alla comunità

Kae Sordi, coordinatrice del progetto di sviluppo di comunità di Maso della Pieve di OfficineVispa, riflette sulle problematiche attuali del rione in cui lavora e racconta le iniziative prese dalla cooperativa sociale per affrontarle.

Qual è la tua professione? 

Lavoro in OfficineVispa da dieci anni, coordino la casa di quartiere che offre un servizio di sviluppo di comunità. Seguo inoltre il progetto Liscià: donne che raccontano donne supportato dall’Ufficio Pari Opportunità della Provincia Autonoma di Bolzano e dall’Ufficio famiglie, donne e gioventù del Comune di Bolzano in cui vengono affrontate tematiche di genere. Oltre a questo mi occupo di orto terapia da libera professionista.

Quali sono le principali problematiche del rione Maso della Pieve? 

Le principali problematicità sono la mancanza di spazi pubblici per la socialità, come lo possono essere una piazza o un parco giochi, e dei punti di riferimento per giovani e famiglie come un consultorio. Oltrisarco è l’unico quartiere senza un consultorio familiare e ciò crea problemi a un nucleo familiare o a una persona giovane che vuole fare una visita gratuita o chiedere un aiuto. A questo si aggiunge la mancanza di un centro giovani nel rione. Su Oltrisarco abbiamo L’Orizzonte, su Aslago abbiamo il Bunker e la zona di Maso invece rimane scoperta. 

Queste problematiche come vengono affrontate ad oggi?

Diversi partiti hanno mostrato interesse e hanno iniziato a riflettere su questi problemi e sulle loro eventuali soluzioni. Penso che anche questa intervista possa essere uno spunto di riflessione per la nuova amministrazione che si è già dimostrata interessata ad aprire un dialogo e a riflettere su questi temi.

La comunità, invece, come le affronta? 

Le persone si spostano; le giovani famiglie, di solito, scelgono i parchi gioco di San Giacomo che sono i più vicini. Nel caso dei consultori ci si sposta in altri quartieri della città. I giovani, non avendo luoghi di socializzazione nel rione, prediligono spazi commerciali come il Twenty come luogo di ritrovo.

La casa di quartiere che cos’è? E come funziona? 

È un luogo dove le persone possono avvicinarsi per partecipare alle attività che proponiamo o per proporne a loro volta. Le attività sono principalmente di socializzazione e partecipazione attiva della cittadinanza e hanno come obiettivo primario la costruzione di un welfare. La casa vuole essere uno spazio della comunità per la comunità.

Quali sono i valori alla base delle vostre attività? 

La partecipazione diretta e l’accessibilità. Vogliamo che gli spazi siano accessibili economicamente e liberi da discriminazioni, e il lavoro comunitario si svolge sui beni comuni. 

Quali sono le attività principali che proporrete quest’anno? Come ci si può iscrivere?

Abbiamo uno spazio per genitori con figli adolescenti con una psicoterapeuta e un formatore, che offre supporto alla genitorialità. Abbiamo in partenza anche corsi di cucito, meditazione, ballo di gruppo e tanti altri come, ad esempio, uno spazio per bambini e adolescenti in cui, incentrandosi sul gioco, si accompagnano i partecipanti in un percorso di aumento dell’autostima.

Le informazioni per iscriversi si possono trovare su Instagram sul profilo @vivimasodellapieve

Autrice: Anna Michelazzi

Storia illustrata di Malala Yousafzai

Anna Forlati, illustratrice e docente di illustrazione, parla del libro per bambini scritto da Fulvia Degl’Innocenti e illustrato da lei in cui viene raccontata la storia di Malala Yousafzai. Il libro sarà presentato a Bolzano il 12 ottobre alle 11 presso la Nuova Libreria Cappelli.

Com’è nata la collaborazione con Degl’innocenti per il libro Io sono Adila? 

Questo è uno dei primissimi libri che ho realizzato. Fulvia ha proposto all’editrice Settenove, attenta alle questioni di genere, il libro in questione e la casa editrice ha contattato me per illustrarlo.

Perché avete individuato Malala Yousafzai come figura da raccontare?

In quel momento la figura di Malala era molto presente perchè aveva da poco vinto il Nobel; fortunatamente, nonostante gli anni, è rimasta un punto di riferimento per la questione di genere nel Medio Oriente. Inoltre per veicolare certe idee e problematiche non semplici ai bambini, alle scuole e ai genitori, a volte è più facile farlo attraverso figure già conosciute e Malala era perfetta.

Perché è stato scelto di raccontare Malala attraverso la vita di Adila? 

Non essendo l’autrice dò una mia interpretazione: credo che il fatto di vedere l’effetto sulla vita di qualcuno invece che raccontare la sua storia direttamente sia più interessante. Raccontare la vita di una bambina comune, normale e di come questa vita e coscienza siano state influenzate dalla figura di Malala crea un gioco di specchi utile a far immedesimare di più piuttosto che raccontare un personaggio facendolo rimanere lontano dalla nostra quotidianità.

La storia raccontata ha influenzato lo stile che hai scelto per illustrare il libro?

Io sono un’illustratrice che cambia spesso stile a secondo della storia. Nonostante una linea comune che si può notare nelle mie illustrazioni cambio stile e tecnica spesso. “Io sono Adila” ha una sua particolarità rispetto ad altri libri. Per questo ho cercato uno stile con forme semplici e una geometria più semplice, utilizzando anche sproporzioni e linee più pulite. Mi sembrava adatto a un pubblico di bambini più piccoli.

Perché un libro illustrato per bambini? 

Il libro è stato pensato per un pubblico di bambini di età prescolare e scolare. I bambini di questa età sono estremamente ricettivi e riescono a recepire anche problematiche che possono sembrare complesse. Trovo molto valida l’idea che si parli di questi temi a bambini piccoli, perché sono in grado capire quali sono temi forti e capirne il problema; a me sembra che sia quasi più l’adulto ad avere problemi a veicolare determinate tematiche piuttosto che il bambino a comprenderle. Sono assolutamente a favore di questo tipo di operazioni e penso che sia importante per i bambini sapere che ci sono questi problemi di genere.

Quali saranno i prossimi eventi in cui sarai o sarete presenti a presentare il libro?

Il libro è stato pubblicato nel 2015 e l’editoria ha una sindrome del consumo immediato per cui non vengono programmati eventi a distanza di troppi anni, ma so che, fortunatamente, ogni tanto questo libro rispunta e torna fuori anche nelle vetrine delle libri e in qualche evento. Il 12 ottobre avrò modo di parlarne.

Autrice: Anna Michelazzi

(Beep!) Ci stanno prendendo per il (beep)!

C’era da aspettarselo, qualunque fosse il suo contenuto, una fiction ambientata in Alto Adige, soprattutto nel capoluogo, non poteva che destare critiche: critiche per i contenuti, per le gli svarioni della sceneggiatura, per l’immagine che ne esce di Bolzano. L’importante è che tutti possano dire la loro a proposito, a costo di uscirsene con svarioni ancor più grossolani di quelli inseriti nei dialoghi dello sceneggiato “Brennero”, trasmesso in queste settimane da Raiuno.

Inutile dire che i protagonisti di questi commenti provengono quasi tutti dal mondo politico, sembra che nessun cronista si sia preso la briga di andare ad ascoltare – badate bene, ascoltare, non sentire – cosa ne pensa la gente comune, chi si guarda una fiction per il puro piacere di guardarla, di apprezzarne le qualità o disprezzarne i difetti, ma dal punto di vista dell’esserne fuitore/fruitrice e non per cercarne ad ogni costo i punti deboli o le castronerie.

Beninteso, le castronerie non mancano, e sono anche gravi: a partire da quell’inspiegabile (e ripetuta) convinzione che in Alto Adige sia vietato l’uso della lingua tedesca, come se fossimo ancora nel triste ventennio fascista, fino all’incomprensibile capo dei pompieri di origine cosentina che di cognome fa Pedrotti!

Certo, si sa, gli sceneggiatori di fiction vengono pagati un tanto al chilo, ma un po’ di umiltà non guasterebbe, perché non fare rileggere i testi a qualcuno del luogo, giusto per evitare scivoloni del genere.

Del resto, come possiamo pensare di voler insegnare agli altri abitanti della penisola come funziona la nostra regione se siamo noi altoatesini a non sapere ancora bene chi siamo, ad avere la memoria corta sulla storia, recente o meno. La memoria è un cliente scomodo, ma non per questo va trascurato: i bolzanini di lingua tedesca tendevano a dar colpa ai fascisti (e agli italiani in generale) per il fatto di essere stati soggetti all’occupazione nazista tra il 1943 ed il 1945, dimenticando che se fossero rimasti austriaci nel 1918, sarebbero stati nazisti già nel 1938. Per non dire di un recente vicesindaco del capoluogo che dichiarò di preferir festeggiare l’8 settembre (più o meno la data in cui arrivarono i nazisti) piuttosto che il 25 aprile! Per altro non si può non notare come alcuni personaggi di lingua tedesca della fiction abbiano un aspetto da nazisti, tipo la poliziotta Lena Pilcher e il procuratore capo in pensione Gerhard Kofler (ahimè, omonimo del grande poeta bolzanino).

Tornando alla nostra fiction, è apprezzabile come si lasci guardare senza far venire sonno (un bel risultato vista la presenza di un attore sonnolento e dalle scarse doti come Matteo Martari). A chi si lamenta del fatto che l’immagine che ne esce sia di una Bolzano oscura e cupa diremo che così sono un po’ tutte le città del nord che diventano teatro di fiction televisiva (la Milano de “Il clandestino”, la Trieste de “La porta rossa” e Aosta nelle indagini di Rocco Schiavone, ma lì ci sono un attore superlativo e un autore notevole ad elevarne la qualità). Certo le fiction ambientate al Sud quanto a solarità hanno altre chance, anche quando sono tratte da romanzi meno di cassetta rispetto a quelli di Camilleri. A chi ravvisa similitudini tra il killer che uccide solo persone di lingua tedesca e il Florian Gamper faremo solo notare che la perizia psichiatrica sul mostro di Merano diceva che le sue vittime erano persone a cui lui invidiava la felicità, senza implicazioni etniche.

Se comunque qualcuno deve essere additato per le cose che non vanno nella fiction, questo qualcuno è la Film Commission altoatesina che concede allegramente i soldi pubblici senza verificare effettivamente cosa sta sovvenzionando. Non basta difendersi dicendo che il copione lo aveva letto anche la commissione della ripartizione culturale italiana della provincia, troppo comodo. Biasimo comunque anche alla commissione cultura se così fosse.

D’altra parte, proprio quella Film Commission, nel 2013 aveva finanziato “La migliore offerta”, pluripremiata pellicola diretta da Tornatore: ma tutto il film era girato in un magazzino della Bassa Atesina, l’unica ripresa esterna, l’ultima, era stata fatta in Veneto. Il ritorno d’immagine dov’era allora?

La risposta è una sola, ci hanno preso, e continueranno a prenderci per il beep(*).

(*) l’autore lascia ai singoli lettori l’onere di sostituire il beep con  la parola che più ritengono calzante.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Onestà e impulsività


Avrebbe voluto fare il medico ma alla fine si è laureato in scienze politiche e si è dato al giornalismo. In Rai ha ricoperto ruoli al massimo livello, sia sul piano giornalistico che gestionale. Vagabondo e irrequieto, dagli amici è stato definito “l‘uomo più pendolare del mondo“. Divenuto vedovo troppo presto ha poi sposato Elena, piena di vita e di futuro. Vive con lei e la sua Beatrice tra Salò e Ortisei.

La cosa di me che mi piace di più.

Il continuo tentativo di essere  – il più possibile – intellettualmente onesto. E magari non solo intellettualmente.

Il mio principale difetto.

L’impulsività. Anzi no: prendere decisioni senza valutarne le conseguenze a medio-lungo termine. Scusate sono stato impulsivo.

Il capriccio che non mi sono mai tolto.

Devo essere onesto. Me ne sono tolti tanti e non posso proprio lamentarmi. Certo ci sono sempre altri capricci che vorresti toglierti, ma sarebbe davvero un capriccio di troppo.

Il luogo dove vorrei vivere.

La Sardegna. È un vero luogo del cuore. L’unico dove mi sento quasi sempre in pace con me stesso e dove ho vissuto e vivo momenti di grande intensità con gli amici e le persone care e carissime. Anche con chi non c’è più.

Non sopporto…

Arroganti, intolleranti, violenti, superbi senza averne titolo, tirchi, piccoli ras. È scontato ? Ma è così. 

Per un giorno vorrei essere…

Il capo dell’opposizione. Per tentare di spiegare alla medesima che per fare opposizione concreta occorre conoscere il Paese e le sue trasformazioni, abbandonando posizioni arcaiche e ideologiche e piccole ambizioni personali.

Sono stato orgoglioso di me stesso quella volta che…

Quella volta che ho portato allo scoperto e denunciato un affaraccio sporco, da parecchi denari, nella Azienda dove ho lavorato tutta la vita. Ha funzionato, ma poi – sia chiaro – me l’hanno fatta pagare. E tanto. Ma va bene così. 

Tre aggettivi per definirmi.

Curioso, disponibile, presuntuosetto. La nostra Bea, 14 anni, mi definisce “sapientino”.

L’errore che non rifarei.

Dimettermi dalla direzione del Telegiornale. Anzi “dei telegiornali”. Ne dirigevo due contemporaneamente. Alla base c’erano concrete ragioni familiari, ma, ancora una volta, sono stato troppo impulsivo. 

La persona che ammiro di più.

Senza retorica: mio padre Arturo Chiodi, grande giornalista, partigiano cattolico, “uomo libero e coerente” come lo ha definito qualche tempo fa il Presidente Mattarella. 

Beato Arrigo

A collegare via Weggenstein con via Sant’Antonio vi è via Beato Arrigo; si tratta del beato Enrico da Bolzano. Nato a Bolzano nel 1250 da genitori poveri, Enrico dovette ben presto guadagnarsi da vivere come operaio a giornata, ma, pur essendo analfabeta, partecipò con devozione alle funzioni religiose. Sposato e con un figlio di nome Lorenzo, a circa 30 anni, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma con la moglie e il figlio, si trasferì a Biancade (Treviso);  morta la moglie si stabilì a Treviso dove continuò a condurre una vita di umile lavoro, come bracciante,  e a partecipare a varie celebrazioni liturgiche. Quando a causa dell’età avanzata non poté più lavorare, condusse una vita di penitenza, chiedendo l’elemosina, mendicando non tanto per sé quanto per i poveri della città. Recitava il Rosario in qualche angolo della chiesa e se la chiesa era chiusa pregava in ginocchio davanti al portale. Morto in fama di santità il 10 giugno 1315, grande fu la partecipazione di popolo alle sue esequie, durante le quali, si narra, un paralitico improvvisamente guarì. Fu sepolto nel Duomo di Treviso e da allora ci fu un grande afflusso di pellegrini. Beatificato il 29 luglio 1750, nel 1759 sue reliquie (due costole) furono solennemente traslate, con grande partecipazione di fedeli, nella chiesa parrocchiale di Bolzano, da allora conservate nella cappella di Loreto in un prezioso scrigno ed esposte alla pubblica venerazione. Arrigo divenne presto popolare in tutta l’Italia del Nord. Il beato Enrico da Bolzano, patrono di Bolzano, la cui ricorrenza si celebra il 10 giugno, è considerato protettore dei boscaioli. Al beato Enrico di Bolzano è intitolata una parrocchia della diocesi di Bolzano-Bressanone; si tratta della parrocchia Beato Enrico da Bolzano di La Costa/Seit (frazione di Laives); divenuta parrocchia nel 1986, dopo esser stata espositura dal 1859, curazia dal 1948, fa parte del Decanato di Laives, istituito nel 1993.

Autore: Leone Sticcotti

Revisione scaduta

Un vecchio detto sostiene, giustamente, che la talpa della storia continua a scavare per poi riemergere quando vuole lei. è un modo per dire che il tempo passa, non c’è nulla di immutabile. Anche se ci sembra che le cose rimangano tali, in realtà il cambiamento è sempre dentro di noi e intorno a noi. E prima o poi ci troviamo a doverci fare i conti. Più rimandiamo e peggio è.
è una prospettiva che vale anche per la nostra autonomia, un sistema normativo faticosamente conseguito 52 anni fa, dopo un percorso durato decenni per sanare una serie di problematiche manifestatesi nella prima parte del secolo scorso e culminate con gli anni tragici della seconda guerra mondiale. Da allora lo statuto di autonomia è rimasto tale, a parte una serie di correttivi giunti più a regolamentare più che a modificare le regole del gioco, nonostante il fatto che negli ultimi 15 anni ci si sia posti a più riprese la questione di una necessaria revisione, legata alle grandi trasformazioni sociali e politiche sopraggiunte.
I primi tentativi di operare dei cambiamenti significativi nello statuto si sono incagliati, com’è noto. I delicati equilibri e le motivazioni legate al consenso dei partiti, sempre più difficile conquistare e conservare, hanno spinto a prendere tempo. Ma – a giudicare dalle cronache – tale revisione del quadro normativo è tornata nei giorni scorsi a manifestare la sua grande urgenza.
I cambiamenti demografici, il mercato del lavoro in sofferenza, l’inesistenza di un’efficace politica per la casa, il sovraffollamento turistico, impongono ora come mai l’individuazione di un nuovo paradigma. E le contraddizioni emerse nelle ultime settimane riguardanti i più giovani, la loro formazione, e più in generale il loro futuro indicano un’urgenza rispetto alla quale non possiamo più tergiversare. I temi dello ius scholae per i ragazzi con background straniero ma nati in Italia, la proposta di “classi speciali” nelle scuole pubbliche composte da soli “stranieri”, l’abbandono scolastico record a livello nazionale, i costi spropositati a cui sono sottoposte le famiglie degli studenti universitari a Bolzano, e – non ultima – la fuga dei giovani più in gamba non più in grado di costruirsi il destino in Alto Adige, impongono a mio avviso la convocazione di una sorta di “stati generali” del… nostro futuro, che coinvolgano tutte le articolazioni del nostro finora tanto decantato modello altoatesino. La talpa sta già scavando da un bel pezzo…

Autore: Luca Sticcotti

Tra paesaggio e mitologia

Paesaggi marini, orizzonti liberi e sconfinati e paesaggi di montagna, così come confini del nostro presente e confini mitologici sono alcuni dei temi delle opere di Karin Schmuck. Il suo approccio artistico prevede di studiare per lunghi periodi un luogo e la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il cammino, attraverso una conoscenza e una esperienza fisica. I suoi sono spesso paesaggi che scaturiscono da aree di transizione umane e metafisiche. Nell’idea di confine a Karin interessa la scomposizione della parola e l’ispirazione trae dal frammento “fine” e poi da “con”, ossia una separazione ma al tempo stesso una condivisione un insieme. La dicotomia e l’ambiguità sono elementi ricorrenti nel lavoro di Schmuck e ben si adatta al mezzo fotografico.

L’artista è interessata alla natura incontaminata, ai “non” luoghi a cui spesso viene data poca importanza.

Una particolare attitudine dell’artista è quella di esplorare i miti dei luoghi che visita muovendosi così fra il dato naturalistico e quello leggendario. In questi giorni le sue fotografie ma anche i suoi dipinti e oggetti d’arte sono esposti nella mostra personale intitolata INFINITY ospite della piattaforma per artisti Carte Blanche dell’Hotel Europa. Karin Schmuck è nata a Bolzano nel 1981 a Bolzano e vive e lavora a Siusi, in Alto Adige. Prima del Master in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, aveva studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Dal 2009 ha esposto le sue opere in diverse mostre personali e collettive e ha vinto diversi premi come il premio COMBAT e il PREMIO CARLO GAJANI. 

Autrice: Rosanna Pruccoli