La strada dedicata a Giuseppe Di Vittorio

Via Giuseppe Di Vittorio, in zona industriale, è dedicata a un protagonista del sindacalismo italiano. Nato a Cerignola (Foggia) da braccianti agricoli l’11 agosto 1892, rimasto orfano del padre nel 1902, dovette abbandonare la scuola per fare l’esperienza dello sfruttamento del lavoro bracciantile; a 12 anni aderì al sindacato dei contadini, a 13 fondò il Circolo giovanile socialista di Cerignola. Eletto nel 1910 segretario della Federazione giovanile del PSI pugliese, arrestato nel maggio 1912, passò alcuni mesi nel carcere di Lucera. Riparato in Svizzera, tornò in Puglia con l’amnistia del gennaio 1915. Arruolato e assegnato ai Bersaglieri, fu ferito nel 1916 sull’altopiano dei sette Comuni. Rimase sotto le armi come sorvegliato speciale, a Roma, in Sardegna, a Palermo, in Cirenaica. Nell’inverno 1919 fu di nuovo segretario della Camera del lavoro di Cerignola, poi anche di quella di Bari. Nell’aprile 1921 fu nuovamente in carcere a Lucera; ne uscì con l’elezione a deputato. Nel 1924 aderì al Partito Comunista d’Italia. Con lo scioglimento di partiti e sindacati disposto dal regime, il Tribunale speciale fascista lo condannò a 12 anni di carcere, ma Di Vittorio riuscì a fuggire in Francia. Dal 1928 al 1930 fu in Unione Sovietica. Tornato a Parigi, entrò nel gruppo dirigente del PCI clandestino. Partecipò alla guerra civile spagnola, fu ferito nella battaglia di Guadalajara (8-23 marzo 1937). Era a Parigi, dirigendo il giornale antifascista “Voce degli italiani”, quando, nel 1941, fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso nel carcere de La Santé; trasferito in Germania e poi in Italia, fu confinato nell’isola di Ventotene. Liberato con l’avvento del governo Badoglio, entrò di nuovo in clandestinità con l’occupazione tedesca di Roma. Collaborò con Bruno Buozzi e Achille Grandi per far rinascere il sindacato unitario italiano. Nel 1946 fu eletto deputato all’Assemblea Costituente. Guidava la CGIL quando fu colpito da un infarto, il terzo, dopo quelli nel 1948 e nel 1956; morì a Lecco il 3 novembre 1957; fu sepolto a Roma nel Cimitero del Verano.

Redattore: Leone Sticcotti

Dominik Plangger: una canzone per via Rasella, un disco contro i muri

Alpenvorland è una di quelle parole con cui una buona parte di popolazione altoatesina preferisce non approfondire la conoscenza: d’altra parte la non conoscenza fa molto più comodo se si vuole evitare di prendere una posizione su un avvenimento o se si vuole addirittura negare che ci si stato. La storia è storia però, può non piacere ma non la si può negare, l’Alpenvorland c’è stato (come c’è stato un campo di concentramento) e per un anno e mezzo circa l’Alto Adige è stato una provincia del terzo reich con tanto di Gauleiter, proprio come le nazioni europee che i nazisti avevano occupato dal 1939 in poi tramite guerra o annessione plebiscitaria.
Una delle conseguenze di questi accadimenti, fu l’arruolamento più o meno coatto dei giovani altoatesini nelle forze del reich. Ed è un po’ questo il tema di partenza di una bella canzone, per nulla retorica, composta dal rinomato cantautore venostano Dominik Plangger e intitolata Via Rasella, dal luogo in cui nel 1944 i partigiani tesero un agguato ai militi del battaglione Bolzano, che come il nome fa supporre erano provenienti dalla nostra regione.
“Uno dei militari tedeschi morti in Via Rasella – ci racconta Dominik – era il mio bisnonno. Di lui si è sempre parlato poco a casa, mia nonna, che era sua figlia, ha sempre mantenuto il silenzio su di lui, come se il parlarne le riaprisse ferite mai cicatrizzate. Lui però ha lasciato un breve diario riguardo a quel periodo. Quando la Wehrmacht lo arruolò aveva quasi quarant’anni, in guerra non aveva dovuto andare e tanto meno ci voleva andare nel 1943, un suo fratello era già morto in Russia e lui non aspirava ad altro che continuare a fare il falegname a Ponte Stelvio. Poi un giorno sono arrivati i nazisti e suo fratello maggiore, che era un sostenitore di Hitler, lo ha praticamente costretto ad andare con loro. Dopo Bressanone e Bolzano è stato mandato a Roma per terminare l’addestramento militare, non prima di riuscire a scappare a casa nel cuore della notte per andare a salutare i figli, come se in cuor suo si sentisse che le cose non sarebbero finite bene”.
Se la nonna di Plangger non ha mai voluto parlare di questo argomento, il cantautore ha avuto un testimone diretto nel prozio, che soprattutto negli ultimi tempi si è fatto prodigo nel ricordare: “Mio zio – prosegue Plangger –, che ha cominciato a parlare dopo la morte di mia nonna, ci ha raccontato come per lui la cosa più difficile da accettare, è stato fare i conti con le conseguenze dell’attentato, vale a dire il fatto che dieci italiani dovettero pagare con la vita per la morte di suo padre. E questo mi a ha fatto venir voglia di saperne di più, di raccogliere informazioni su Via Rasella e sulla rappresaglia delle Fosse Ardeatine”.
Con la canzone sull’attentato di Via Rasella, Dominik Plangger è riuscito a non essere per nulla retorico, concentrandosi piuttosto su un episodio della storia della sua famiglia collegato a accadimenti storici drammatici e tristemente famosi, con un curioso finale che in qualche modo lo va a collegare col grande Ennio Morricone: nel corso delle sue ricerche storiche infatti, il cantautore ha scoperto che pur non amando particolarmente i nazisti, il giovane studente Morricone, per sbarcare il lunario, era solito suonare per i militi tedeschi di stanza nella capitale, trovandosi proprio nei dintorni di via Rasella al momento dell’attentato.
“Mi piace pensare – commenta Dominik – che questo grandissimo artista abbia suonato anche per il mio bisnonno”.
Il brano, uscito lo scorso 7 luglio, fa da apripista al nuovo CD di Plangger, che sarà pubblicato il 27 settembre.
“Il disco – conclude Plangger – s’intitola Limes, dal nome della via in cui abito, nel Burgerland: la via si chiama così dal termine latino con cui s’intende definire il limitare di una proprietà, il confine, il limite, spesso contraddistinto da un muro. Mi è sembrato un titolo idoneo, soprattutto in quest’epoca in cui tutti inneggiano alla costruzione di muri per separare. Il disco si compone di ballate e canzoni di varia ispirazione, ma io cerco di non perdere mai di vista un certo aspetto politico nei contenuti, e ho voluto puntare il dito contro quella destra che ambisce a costruire la Fortezza Europa per chiudercisi dentro e non lasciarvi entrare nessuno”.

Redattore: Paolo Crazy Carnevale

La nascita della Casa Russa grazie a Nadezda Ivanovna Borodina

Nelle mensili “Fremdenlisten” di Merano comparivano sempre più numerosi i cognomi russi di liberi professionisti ed industriali che, in forza dell’ingente sviluppo economico che la Russia stava vivendo, amavano trascorrere all’estero le proprie vacanze. Coglievano così anche l’opportunità di incontrare nei parchi, ai caffè o nelle sale da gioco i finanzieri e gli imprenditori di tutta Europa e stringere nuove ed importanti relazioni o alleanze economiche.

Frattanto a Merano vi era stato un rapido sviluppo delle ferrovie che, in capo a pochi anni dopo l’apertura della linea Bolzano-Merano, avvenuta nel 1881, permise un collegamento diretto fra Merano e San Pietroburgo.
Ciò aveva determinato un afflusso ancor più cospicuo di turisti ed ospiti di cura russi. Anche l’alta aristocrazia frequentava la nostra città, giungendo numerosa con il proprio entourage e con la propria servitù al seguito.

Era generalmente l’inverno la stagione che spingeva i nobili russi a varcare i confini della propria patria per cercare condizioni climatiche favorevoli nei luoghi di villeggiatura più alla moda.
A partire dal 1884 su interessamento anche dell’Azienda di cura e soggiorno, le funzioni di rito ortodosso ebbero luogo a Villa Stefanie, anche se l’esigenza di una chiesa aveva spinto il “Comitato” a raccogliere fondi per la sua costruzione fin dal 1880.
Ai membri del Comitato spettò anche il difficile compito di cercare un sacerdote disposto a trasferirsi in città anche solo per una parte dell’anno. Scelsero padre Feofil Kardasevic di Irom nei pressi di Budapest. Egli dotò la chiesa provvisoria di Villa Stefanie degli arredi sacri, la consacrò e ne redasse lo statuto che fu presentato all’assemblea della Comunità nel gennaio 1885.
La chiesa si manteneva con le offerte e la beneficenza di tutti gli ortodossi che vivevano o soggiornavano a Merano. Nel luglio successivo il Santo Sinodo ortodosso accordò con un editto alla chiesa di Irom di celebrare messe nella nostra città.

Determinante per l’allestimento delle strutture della Comunità russo-ortodossa e per la costruzione della “Casa Russa”, fu il lascito di centomila rubli di una giovane donna morta di tubercolosi: Nadezda Ivanovna Borodina. Nadezda, figlia di un funzionario di corte dello zar Nicola I, era giunta in città nel tentativo di alleviare i propri dolori ma, aggravatasi, morì a trentasette anni nel 1889.

Nel suo testamento indicò con precisione che la somma doveva essere impiegata per costruire un pensionato per correligionari non abbienti e malati di tubercolosi e per la costruzione di una chiesa ortodossa dedicata a San Nicola Taumaturgo.

Redattrice: Rosanna Pruccoli

La via del Brennero romana

In un curioso baedeker per ciclisti uscito in Tirolo nel 1895 compare anche il tour Innsbruck – Brennero – Bolzano – Ala – Verona. In sostanza, la vecchia via del Brennero romana. Superate le Alpi e la Val d’Isarco, il ciclista di fine ‘800 arrivava a Rencio attraverso il famoso Kuntersweg che da Colma conduceva a Prato Isarco.

Questa mulattiera di fondovalle, che permetteva di aggirare la salita del Renon e quindi il vecchio percorso romano Auna di Sotto – Longomoso – Longostagno, era stata realizzata nel XIV secolo da Heinrich Kunter, che in cambio dell’enorme spesa ottenne dai conti del Tirolo il diritto di riscuotere un pedaggio e di edificare due taverne. 100 anni dopo il percorso fu ampliato e reso carrabile. Bolzano ottenne così la sua agognata porta verso i ricchi mercati tedeschi. Anche Egna e gli altri paesi della Bassa Atesina approfittarono enormemente della nuova via commerciale.
L’importanza della via del Brennero era già nota ai Romani, che un millennio e mezzo prima avevano inaugurato le rotte militari e commerciali verso le Alpi e la Germania con tre percorsi verso Augsburg / Augusta Vindelicorum, fondata da Augusto nel 15 a.C. : il Resia, il Brennero e il Passo di Monte Croce Carnico. Nei secoli successivi, proprio il sistema stradale di 80000 km determinò la diffusione capillare del latino come lingua veicolare e, soprattutto, del cristianesimo in Europa.
Le tre strade e la rete di percorsi laterali costituivano un insieme organico incentrato proprio sul passo del Brennero (posto a “soli” 1370 s.l.d.m.) e il collegamento tra Verona e Augsburg. La famosa via Claudia Augusta, che attraversava anche la Bassa Atesina, fu costruita due secoli prima della via del Brennero ma successivamente divenne una arteria secondaria di quest’ultima.
Se in epoca repubblicana ci si accontentò di rendere percorribili le vecchie mulattiere montane e di riadattare le ampie piste spontanee in pianura, in età imperiale la “via publica” delimitata e sottratta alla proprietà privata divenne la regola. Ancora oggi antichi tracciati romani inutilizzati risultano di proprietà demaniale secondo il principio romano “viam publicam populus non utendo amittere non potest” che ne esclude l’usucapione. La delimitazione della via publica (via deriva da vehere, trasportare) prevedeva un actus centrale e carrabile (da agere, guidare le bestie) e due iter (da ire, camminare) pedonali laterali. La larghezza complessiva variava tra 10 e 120 piedi. Oggigiorno è difficile individuare antiche vie romane perché spesso si trovano sotto quelle moderne. L’unica ausilio è rappresentato dai famosi miliari o altri monumenti (spesso funebri) eretti ai bordi delle strade stesse.
Per tornare al nostro percorso, la sottomissione della Rezia e della Vindelicia convinse Druso a realizzare la strada verso Augusta attraverso il passo Resia. La via Claudia fu poi ultimata da suo figlio Claudio. Alla confluenza tra Adige e Isarco e nei pressi del grande ponte di Druso (forse a Gries?) fu fondata la stazione di Pons Drusi e più a nord Veldidena, l’odierna Innsbruck. Qualche anno prima, nel 24, era stata costruita la strada da Verona a Tridentum che poi permise l’attraversamento completo della valle dell’Adige e della Bassa Atesina. Settimio Severo e Caracalla completarono la via del Brennero verso il 200 d.C. Nell’itinerarium Antonini e nella Tabula Peutingeriana, due carte stradali romane, la via del Brennero conta 13 stazioni tra Verona e Augusta. Fino a Pons Drusi la misurazione in miglia (1480 m) risulta perfetta, successivamente si trova qualche inesattezza. La lunghezza complessiva varia quindi tra 402,5 e 427,5 km. L’itinerario Antonini segna da Tridentum le stazioni di Endidae (sotto Castelfeder) e Sublavione, la Tabula parla di Tredente, Ponte Drusi e Sublavione.
Concludendo, i nostri ciclisti moderni nel 1895 dopo Bolzano, dove al Cafè Kusseth nelle ore serali era possibile incontrare i velocipedisti locali, erano indirizzati a Laives attraverso il ponte sull’Isarco (Loreto), Bronzolo e Ora. Dalla palude di Termeno si raggiungeva Egna e Salorno (dove in antichità sboccava una mulattiera proveniente da Faedo) e poi, finalmente, il confine di stato di Ala, dove gli esosi finanzieri italiani pretendevano lo sdoganamento della bicicletta con pagamento del relativo pedaggio.

Redattore: Reinhard Christanell

Quarti posti e cattiveria

Allo storico motto olimpico, tradotto dall’originale latino “più veloce, più in alto e più forte”, nel 2021 il Comitato Olimpico Internazionale ha aggiunto “communiter” che significa “insieme”. Questo per indicare ufficialmente il valore unificante dello sport e l’importanza della solidarietà. Per il resto i “valori” olimpici sono rispetto, amicizia e lealtà, a cui si aggiunge la famosa “partecipazione”, anche se va precisato che il detto “l’importante è partecipare” in realtà sarebbe mai stato pronunciato da De Coubertin.
Nelle ultime settimane ho seguito con una certa assiduità i giochi olimpici di Parigi. Ma dopo un mese di rassegna in realtà solo due episodi mi sono rimasti più impressi.
Il primo è stato la decisione del Presidente della Repubblica di invitare al Quirinale per un ringraziamento ufficiale, anche gli atleti – tantissimi – che a Parigi hanno conseguito un quarto posto nella loro disciplina. Il Presidente in questo modo ha voluto indicare che l’eccellenza nello sport non è appannaggio solo di chi riesce a conseguire la tanto agognata medaglia. Mi sembra un gesto importante e significativo, molto più maturo di tanti commenti pubblicati sui media da parte di giornalisti poco avveduti oppure da molti altri sui social, come avviene purtroppo sempre più spesso.
Il secondo episodio che mi ha colpito è la risposta che lo schermidore olimpionico Daniele Garozzo ha dato al giornalista Aldo Cazzullo per stigmatizzare il termine “cattiveria” che sempre più spesso viene utilizzato per indicare una qualità essenziale per riuscire a vincere nello sport. Di seguito ecco le parole di Garozzo. “Questa idea è non solo falsa, ma anche diseducativa. Affermare che ‘essere cattivi’ porti alla vittoria sminuisce i successi di tanti atleti che, come me, hanno raggiunto i più alti traguardi grazie a impegno, sacrificio e una sana competitività. La narrativa romantica del guerriero spietato potrebbe essere affascinante nei racconti epici, ma nella realtà dello sport moderno è fuori luogo e anacronistica”. Successivamente il dialogo a distanza tra Cazzullo e Garozzo è proseguito, con il giornalista che ha cercato di spiegare meglio cosa intendeva. Da parte mia non posso fare altro che segnalare il fatto che i Giochi Olimpici sono (ri)nati in epoca moderna per dare ai popoli e agli stati un’occasione di confronto anche aspro, ma totalmente avulso dalla forma tradizionale che tale confronto ha avuto nella storia dell’uomo, ovvero la guerra. D’altronde lo stesso Cazzullo nella sua replica ha spiegato “la cattiveria non è scorrettezza ma determinazione assoluta, senza non si vince”. E allora, insisto, possiamo davvero fare a meno di usare la parola cattiveria, ce n’è già davvero troppa, in giro.

Autore: Luca Sticcotti

ll 9 luglio ci ha lasciati Pierluigi Mattiuzzi

Meranese assai noto negli ambienti legati all’arte, alla psicanalisi, alla filosofia orientale, è stato un interessante esempio di personalità istrionica dove l’arte era molto più che immagine, colore, forma. In lui l’arte era specchio di un’anima inquieta, curiosa e libera, capace di introspezione, e terreno nel quale avevano germinato le culture orientali che, studiate a fondo e metabolizzate, in lui convivevano con tanto della saggezza occidentale. I suoi dipinti sono un difficile intrico di pensiero, fantasia, volo,  presenze, rimandi, narrazioni antiche e bisogni moderni.

Tenuto sempre in considerazione dai meranesi, nel 2015 fu scelto per la mostra dedicata ad un artista nell’ambito del trentennale delle Settimane Musicali Meranesi che trovò luogo nel Pavillon des Fleurs.

Pierluigi Mattiuzzi,  figlio di un perito industriale che si era occupato delle centrali idroelettriche in Piemonte e poi in Val Venosta era nato a Domodossola e aveva trascorso l’infanzia a Malles. A Merano aveva frequentato il liceo classico Carducci, in quegli anni una vera fucina di idee e di presa di coscienza politica e dei tempi che cambiavano oltre che delle tensioni legate al 68. Aveva poi frequentato Sociologia a Trento, noto epicentro della rivolta studentesca e delle istanze politiche più rivoluzionarie. A Merano sul “muretto” lo si vedeva spesso e la politica era il tema principale. Seguirono i nove anni in India che lo arricchirono di nuove istanze filosofiche aggiungendo alla sua già ricca personalità il fascino dello sciamanesimo.

Tutti questi trascorsi, queste esperienze, questi miti letterari e non si riverberano nelle sue tele e nei suoi colori. Importantissimi i suoi totem. Divinità, demoni, si tratta di sculture di grandi dimensioni capaci di mantenere l’effetto bidimensionale e di avere un grande impatto sul fruitore, grandi più di un uomo esse si impongono con forza nell’ambiente che le accolgono. Acrilici e resine su tavole di grandi dimensioni, affollati di segni da vedere in dettaglio per scoprire alla fine che allontanandosi il dipinto muta e il soggetto prodotto da quella moltitudine di piccolissime forme danno vita ad un importante unico essere dai caratteri apotropaici. Grandi occhi sgranati, fauci ferine, bocche digrignate e denti aguzzi. Mani e piedi si distaccano e prendono vita per qualche istante prima di ricadere nell’insieme. Sogni o incubi? Viaggi fantastici nel proprio io o negli abissi dell’umanità.

Sono sperimentazioni degli anni Ottanta i computer-graffiti che mettono in movimento le presenze dei suoi quadri al ritmo di un track musicale da lui scelto. Una ulteriore testimonianza del suo modo di vivere sempre “il qui e adesso”.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Gli altoatesinosudtirolesisi sentono italiani o tedeschi?


Almeno una volta nella vita – ma di solito molto di più – ogni altoatesinosudtirolese ha dovuto rispondere all’interrogativo: ma tu, ti senti più italiano o più tedesco? Una domanda che fa il paio con lo stupore di chi apprende che in Alto Adige vivono persone per le quali l’italiano non è la lingua materna.

C’è chi solleva tali questioni in malafede, come lo fanno gli stolti con ogni cosa di valore che possa essere insozzata (la famose perle da non dare “ai porci”). Ma tanti lo chiedono in buona fede e non sempre, l’altoatesinosudtirolese, ha riflettuto a sufficienza per poter dare una risposta sensata, corretta, storicamente e giuridicamente fondata. Ma cosa denotano queste domande (e certe risposte)?

Un primo aspetto è l’incapacità di distinguere tra il piano giuridico e quello culturale. Non è colpa del singolo, ma di quelle classi dirigenti che hanno inventato l’idea di “nazione” come elemento attorno al quale coagulare sentimenti, emozioni, rivendicazioni. Uno strumento ideologico che ha causato guerre terrificanti? Pazienza.

Se lo Stato (che è una realtà giuridica) coincide con la “nazione” (che è un concetto ideologico, il quale presuppone, tra l’altro, una lingua comune) allora tutto ciò che non appartiene alla “nazione”, non è nemmeno dello Stato. Le persone “altre” vanno espulse oppure assimilate. È avvenuto in passato e avviene nel presente.

Un secondo aspetto è la scarsa conoscenza della storia. Va detto che i cittadini non sono tenuti a conoscere a menadito la storia di ogni angolo del Paese. Nemmeno gli altoatesinosudtirolesi conoscono la loro quanto dovrebbero. Ma allora due cose: informiamoci meglio e finché non l’abbiamo fatto (attenzione, costa fatica) evitiamo di pronunciare giudizi.

La classe dirigente e la classe politica ci danno una mano? Ovvero sanno usare le parole in modo adeguato e raccontare la storia con cognizione di causa? Purtroppo, no. Prevalgono l’ignoranza e la strumentalizzazione.

Ma non è stato sempre così. I Padri costituenti, ad esempio, introdussero nella Costituzione, all’articolo 6, un principio fondamentale: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Con questo ci danno due messaggi. Il primo: le minoranze linguistiche sono parte integrante della Repubblica (che, a differenza della “nazione”, esiste davvero). Anzi, sono un patrimonio da tutelare (per il bene di tutti). Il secondo: prevedendo che col tempo ignoranza e malafede avrebbero prevalso, hanno messo al sicuro questo principio, dando alla questione una tutela di rango costituzionale (cioè, a prova di propaganda e di populismo).

Ma ci sentiamo italiani o tedeschi (e i ladini, e gli “altri”?)? Verrà il giorno (forse) in cui sorrideremo di questa domanda.

Autore: Paolo Bill Valente

La strada dedicata a Bruno Buozzi


L’arteria che da via Volta arriva fino a via  Altmann è dedicata a Bruno Buozzi. Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1882, trovò lavoro a Milano, alla Marelli, poi alla Bianchi. Non trascurava lo studio, leggendo di tutto, anche dopo le 10-12 ore di lavoro. Nel 1905 si iscrisse alla Fiom e aderì al Psi; del sindacato divenne presto membro del direttivo, nel partito si impegnò nella corrente riformista di Filippo Turati. Respingendo la violenza come mezzo di lotta politica, abbracciò l’ideale della gradualità delle conquiste sindacali. Eletto nel 1920 alla Camera per il Psi, rieletto nel  1921, seguì Matteotti e Turati nel nuovo Partito Socialista Unitario, nelle cui liste fu rieletto deputato nel 1924. Nel dicembre 1925, pur essendo perseguitato dal regime, divenne segretario generale della CgdL. Dovette però rifugiarsi in Francia, dove si prese cura dell’anziano leader socialista, Filippo Turati, il quale morì il 29 marzo 1932 proprio nella casa parigina di Buozzi. Arrestato dai tedeschi il 1° marzo 1941, Buozzi fu trasferito, con il collega sindacalista Giuseppe di Vittorio, prima in Germania poi in Italia. Fu confinato per due anni a Montefalco (Perugia). Liberato il 30 luglio 1943, formatosi il governo Badoglio, Buozzi fu nominato commissario dell’Organizzazione dei lavoratori dell’industria. Il 10 settembre 1943 fu con Sandro Pertini a Porta San Paolo, per contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma. Ma Roma fu occupata, e Buozzi rientrò in clandestinità, sotto il falso nome di Mario Alberti. Sorpreso dalla polizia fascista e fermato per accertamenti il 13 aprile 1944, nella prigione di via Tasso fu scoperta la sua vera identità. Il suo nome fu incluso dalle SS in un elenco di 160 prigionieri da evacuare; l’autocarro con Buozzi si fermò all’alba del 4 giugno presso la località “La Storta”. Rinchiusi in una rimessa, nel pomeriggio Buozzi e altri tredici furono brutalmente sospinti in una vicina valletta per essere uccisi ciascuno con un colpo alla nuca.

Autore: Leone Sticcotti

Peter Burchia: un cantautorecon chitarra e pennello


Ci aveva lasciati a bocca aperta Peter Burchia, quando a metà del 2022 se ne è uscito con un 33 giri (sì proprio un disco in vinile, come per dare più valore al progetto) che col titolo di Look Back si è rivelato uno dei più bei dischi realizzati in Alto Adige da quando i musicisti di questa regione hanno cominciato a registrarne. Non stiamo esagerando, Look Back, oltre ad una storia incredibile e unica per quanto riguarda la sua realizzazione, è davvero un disco incantevole, fragile e solido al tempo stesso, senza fronzoli ma con una forza unica, tutto realizzato nell’atelier in cui Burchia vive e realizza i suoi dipinti. Già, perché parallelamente all’attività musicale, Peter porta avanti un’interessante carriera nel campo della pittura.

“Sono due cose che non posso scindere – ci racconta –, nella mia vita ho bisogno che ci sia spazio per entrambe, anche se talvolta la pittura ha il sopravvento. È il motivo per cui alla fine degli anni dieci avevo lasciato gli Shanti Powa: la vita col gruppo non mi consentiva di dedicarmi alle cose mie, tour e concerti erano davvero impegnativi”.

Così il nostro ha scelto di proporsi come musicista di strada, suonando ed esibendosi principalmente quando ne aveva voglia, viaggiando, dipingendo e assemblando i brani finiti poi nel disco di cui sopra. Nel frattempo, un po’ per colpa della pandemia un po’ per le scelte personali dei suoi componenti, gli Shanti Powa, pur rimanendo in auge, hanno diradato l’attività live e Peter ne è ora tornato a far parte da un paio d’anni (è tra l’altro sua la splendida copertina del loro terzo album, Til’ Insanity). In attesa di un nuovo lavoro del gruppo, che potrebbe concretizzarsi il prossimo anno, Peter ha messo per breve tempo in stand by i pennelli per uscire, nello scorso luglio, con un nuovo lavoro, stavolta su musicassetta, dimostrando di prediligere i vecchi sistemi all’insipido digitale, ovunque imperante.

“L’ LP mi aveva portato via molto più tempo – prosegue Peter – sia per la composizione che per la registrazione. Stavolta è stato più veloce, i brani erano solo due e ho cercato di farli in maniera più tradizionale possibile. Sono due brani praticamente acustici, ho messo da parte il computer e per registrarli, visto che per la diffusione ho scelto la musicassetta, li ho registrati direttamente su quel tipo di supporto, collegando il registratore al mixer. La musicassetta sta vivendo un periodo di riscoperta, seppur di nicchia, ma la maggior parte di coloro che pubblicano la loro musica in questo formato, lo fanno registrando digitalmente. Io ho voluto essere analogico il più possibile. È evidente che dal punto di vista dell’audio ci si perde, ma questo mi ha permesso di fare il sound che volevo”.

Nella fattispecie i due brani che appaiono rispettivamente sui due lati della musicassetta, uscita per la Riff Records di Paolo Izzo con mastering di Jürgen Winkler, “avrebbero potuto figurare bene anche sul vinile del 2022, solo che – spiega l’autore –, sono venuti dopo. Avrebbero potuto anche attendere un nuovo disco ma, spesso mi accade che se non fisso subito l’idea, rischio di perderne l’immediatezza e il mood cambia. Il brano che intitola la cassetta, The Rain, l’ho scritto in Senegal nel 2021, quando, zaino in spalla ero partito da Bolzano per andare a trascorrere in quel paese tutto l’inverno. Per quanto riguarda la grafica, è opera mia: l’idea di base è che quando do a qualcuno un mio prodotto mi piace che sia un po’ un pezzo unico, così in questo caso ho fatto in modo che le copie stampate del nastro abbiano tutte una copertina differente. Ho fatto una serie di disegni e ritagliandoli, da ognuno ho ricavato dieci diverse copertine”.

Per quanta riguarda il futuro, per ora nei progetti di Peter ci sono la pittura e gli Shanti Powa, sul tornare a suonare per strada, l’artista non esita ad esprimere un certo scetticismo:

“Devo essere sincero – conclude – mi è un po’ passata la voglia, non escludo di tornare a farlo se cambierà qualcosa, per ora la città Unesco della musica ha dei regolamenti assurdi per quanto riguarda gli artisti di strada, i cosiddetti busker. Per noi non sembra esserci spazio. Una revisione dei regolamenti cittadini è in progetto, staremo a vedere, certo che come stanno le cose adesso non ho proprio voglia di essere visto come un criminale per il fatto che mi esibisco in questo modo”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

La nascita della comunità russo – ortodossa nella città termale


Fin dagli esordi della Merano città di cura, la clientela russa vi giunse copiosa spinta dalla ricerca del tepore primaverile e autunnale e del “sole caldo del sud”. Fra i numerosi villeggianti e convalescenti non mancavano i medici in viaggio per cercare nuove cure da sperimentare oppure per far conoscere i propri rimedi, fra cui il dottor Levsin, un russo.

Il dottor Levsin, inventore del Kumys, ossia il siero di latte di cavalla, fermentato, frizzante ed alcolico, fu uno tra i primi ad arrivare in riva al Passirio. Giunto in città per un periodo di villeggiatura, aveva ceduto la propria ricetta di questa bevanda a due farmacie meranesi. Qui infatti non si conosceva ancora questa cura, né le sue proprietà terapeutiche contro malattie come lo scorbuto, l’anemia ed altri disturbi del ricambio sanguigno. Levsin morì però a Monte San Giuseppe nel 1874 e fu sepolto nel cimitero evangelico di Merano. 

Un altro medico che si era nel frattempo stabilito in città, Michael von Messing, di origine russo-tedesca, si era subito impegnato nella ricerca e nell’ulteriore sviluppo della cura del siero di latte di cavalla. Nel 1874 sul “Meraner Kurzeitung” era apparso un suo articolo sui benefici del kumys, inventato appunto dal compianto compatriota. 

Non furono pochi nemmeno i cittadini russi che decisero poi di stabilirsi in città, tanto che a partire dal 1875 essi fondarono il “Comitato russo”. Si trattava di un’associazione privata fondata da cittadini russi, facoltosi e di religione ortodossa. Il Comitato si manteneva con le offerte e la beneficenza degli stessi soci e aveva come scopo l’aiuto e il soccorso di tutti quei correligionari che si trovavano in difficoltà economica, e permettere ai meno abbienti, malati di tubercolosi, di trascorrere a Merano lunghi periodi di convalescenza.

Allo scopo era necessario fondare un pensionato, dove accogliere i correligionari che non fossero allo stadio terminale della malattia, ed offrir loro le migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che religioso e, perché no, dove la cucina fosse quella tradizionale russa. 

Fra i primi passi avanzati dai membri del Comitato ci fu quello di richiedere al governo austriaco il permesso per la fondazione della Comunità e soprattutto l’autorizzazione per costruire una chiesa ortodossa in città. Contemporaneamente dovettero assicurarsi il consenso del metropolita di San Pietroburgo, Isidoro, sovrintendente alle chiese ortodosse all’estero e ricevere il suo permesso di costruire una chiesa e celebrare messe a Merano. 

La formazione di una Comunità significava adempiere a tutta una serie di esigenze anche burocratiche, da assolvere sia nei confronti della propria nazione d’origine, sia con il comune e la nazione ospitante; bisognava insomma attenersi a due legislazioni e render conto ad entrambe in ogni momento. Aprire ad esempio un pensionato per malati non abbienti significava anche provvedere alla loro sepoltura poiché né loro né i loro parenti avrebbero potuto sostenere le costose spese del rimpatrio della salma, come invece avveniva in genere per i benestanti e l’aristocrazia. 

La preoccupazione di trovare quindi un cimitero dove offrir degna sepoltura ai propri compatrioti non era un problema da poco vista l’impossibilità di condividere il cimitero cattolico che, per tradizione, non prevedeva una mescolanza di tombe nemmeno se cristiane. Fu invece il cimitero evangelico a condividere con la Comunità russo-ortodossa e con quella anglicana gli spazi per le tombe e i monumenti funebri.

Autrice: Rosanna Pruccoli