La nascita della comunità russo – ortodossa nella città termale


Fin dagli esordi della Merano città di cura, la clientela russa vi giunse copiosa spinta dalla ricerca del tepore primaverile e autunnale e del “sole caldo del sud”. Fra i numerosi villeggianti e convalescenti non mancavano i medici in viaggio per cercare nuove cure da sperimentare oppure per far conoscere i propri rimedi, fra cui il dottor Levsin, un russo.

Il dottor Levsin, inventore del Kumys, ossia il siero di latte di cavalla, fermentato, frizzante ed alcolico, fu uno tra i primi ad arrivare in riva al Passirio. Giunto in città per un periodo di villeggiatura, aveva ceduto la propria ricetta di questa bevanda a due farmacie meranesi. Qui infatti non si conosceva ancora questa cura, né le sue proprietà terapeutiche contro malattie come lo scorbuto, l’anemia ed altri disturbi del ricambio sanguigno. Levsin morì però a Monte San Giuseppe nel 1874 e fu sepolto nel cimitero evangelico di Merano. 

Un altro medico che si era nel frattempo stabilito in città, Michael von Messing, di origine russo-tedesca, si era subito impegnato nella ricerca e nell’ulteriore sviluppo della cura del siero di latte di cavalla. Nel 1874 sul “Meraner Kurzeitung” era apparso un suo articolo sui benefici del kumys, inventato appunto dal compianto compatriota. 

Non furono pochi nemmeno i cittadini russi che decisero poi di stabilirsi in città, tanto che a partire dal 1875 essi fondarono il “Comitato russo”. Si trattava di un’associazione privata fondata da cittadini russi, facoltosi e di religione ortodossa. Il Comitato si manteneva con le offerte e la beneficenza degli stessi soci e aveva come scopo l’aiuto e il soccorso di tutti quei correligionari che si trovavano in difficoltà economica, e permettere ai meno abbienti, malati di tubercolosi, di trascorrere a Merano lunghi periodi di convalescenza.

Allo scopo era necessario fondare un pensionato, dove accogliere i correligionari che non fossero allo stadio terminale della malattia, ed offrir loro le migliori condizioni di vita sia sul piano sociale che religioso e, perché no, dove la cucina fosse quella tradizionale russa. 

Fra i primi passi avanzati dai membri del Comitato ci fu quello di richiedere al governo austriaco il permesso per la fondazione della Comunità e soprattutto l’autorizzazione per costruire una chiesa ortodossa in città. Contemporaneamente dovettero assicurarsi il consenso del metropolita di San Pietroburgo, Isidoro, sovrintendente alle chiese ortodosse all’estero e ricevere il suo permesso di costruire una chiesa e celebrare messe a Merano. 

La formazione di una Comunità significava adempiere a tutta una serie di esigenze anche burocratiche, da assolvere sia nei confronti della propria nazione d’origine, sia con il comune e la nazione ospitante; bisognava insomma attenersi a due legislazioni e render conto ad entrambe in ogni momento. Aprire ad esempio un pensionato per malati non abbienti significava anche provvedere alla loro sepoltura poiché né loro né i loro parenti avrebbero potuto sostenere le costose spese del rimpatrio della salma, come invece avveniva in genere per i benestanti e l’aristocrazia. 

La preoccupazione di trovare quindi un cimitero dove offrir degna sepoltura ai propri compatrioti non era un problema da poco vista l’impossibilità di condividere il cimitero cattolico che, per tradizione, non prevedeva una mescolanza di tombe nemmeno se cristiane. Fu invece il cimitero evangelico a condividere con la Comunità russo-ortodossa e con quella anglicana gli spazi per le tombe e i monumenti funebri.

Autrice: Rosanna Pruccoli

La ferrovia tedesca in Val di Fiemme


Si iniziò a discutere di collegamento ferroviario tra la valle dell’Adige e Cavalese a metà ‘800. La nuova linea del Brennero, completata nel 1867, aveva rivoluzionato il sistema dei trasporti basato su navigazione fluviale e carrozze e carri trainati da cavalli. Il Fleimstal tirolese era importante non solo da un punto di vista turistico ma soprattutto per la grande quantità di legname che forniva all’economia asburgica. Era perciò impensabile rinunciare alle potenzialità offerte dal nuovo cavallo di ferro che in pochi anni aveva conquistato non solo le sconfinate praterie americane ma anche le città e anguste vallate alpine dell’impero austro-ungarico.

Benché nessuno mettesse in dubbio la rilevanza strategica dell’opera, né Vienna né Innsbruck riuscirono ad approvare uno dei vari progetti elaborati a Trento e a Bolzano. Il Landtag tirolese, in cui sedevano anche i deputati trentini, e i giornali diventarono la sede principale delle aspre polemiche che costarono il posto a più di un avventato amministratore. Passarono i decenni senza che si riuscisse a sciogliere il nodo principale della questione ovvero se la ferrovia dovesse diventare “tedesca” o “italiana”. 

In altre parole: Trento, capoluogo del Welschtirol e centro del nascente irredentismo italiano, pretendeva una linea che partisse da Trento e poi da Lavis risalisse la Val di Cembra per arrivare a Predazzo, con ciò rimarcando l’italianità della Val di Fiemme “trentina”. Bolzano chiedeva invece una linea Egna – Predazzo (o Moena) che servisse anche i paesi tra il fondovalle e il Passo di S. Lugano. Fiemme e Fassa dovevano rimanere “tirolesi” e perciò il collegamento ferroviario era di primaria importanza. In mezzo ai due contendenti i diretti interessati, ossia i comuni della Val di Fiemme, che chiedevano un’esecuzione rapida dell’opera e il contenimento dei costi di realizzazione a cui dovevano partecipare.

Il 13 gennaio 1912 la “Tiroler Landzeitung” scrisse: “I Welschtiroler (Trentini) minacciano l’ostruzionismo a causa della questione della ferrovia della Val di Fiemme. Pretendono la realizzazione di una linea doppia ossia di una linea con due punti di partenza: Trento e Egna. Vienna tuttavia in un recente consiglio dei ministri ha negato il sostegno a questa assurda richiesta.”

In realtà, dopo molti anni di inutili discussioni, Vienna aveva iniziato a “simpatizzare” apertamente per la doppia linea che scontentava soprattutto i comuni della Val di Fiemme, preoccupati dall’inevitabile esplosione dei costi. A Egna si svolse una grande manifestazione popolare per la realizzazione della sola “ferrovia tedesca”. I deputati tirolesi cercarono di boicottare l’accordo sulla doppia linea mediante un’intesa con i il partito più forte dei Trentini, i Popolari, ai quali promisero il finanziamento di varie opere minori rimaste nel cassetto. 

La snervante discussione e le trattative interminabili furono improvvisamente troncate dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vienna deliberò immediatamente la realizzazione “per ragioni militari” di tre linee ferroviarie che dovevano supportare i soldati schierati sul fronte dolomitico, in cui avrebbero perso la vita 180000 combattenti: la linea della Val Gardena, la linea ampezzana e, appunto, la linea della Val di Fiemme. 

Le opere dovevano essere costruite in pochissimo tempo e perciò tutte le decisioni furono prese dai vertici dell’amministrazione viennese. Per quanto riguarda la Val di Fiemme, il capolinea fu spostato da Egna a Ora, la cui stazione si trovava già al di qua dell’Adige. Nell’inverno 1915/16, tra neve e gelo e con gli scarsi mezzi a disposizione, gli Austriaci, impiegando oltre ai propri 3000 operai e tecnici anche un migliaio di prigionieri russi, realizzarono i 50,5 km di linea ferroviaria a scartamento ridotto (760 mm, poi ampliati a 1000 mm nel 1929 dopo l’elettrificazione) con sei gallerie, sette viadotti e otto ponti.

 La prima locomotiva Henschel pesava 53 tonnellate ed era in grado di trainare un peso di 80 tonnellate alla velocità di 15 km/h su una pendenza del 46 per mille. Dopo un anno o poco più, la ferrovia passò all’Italia e rimase in funzione fino al 1963. 

Autore: Reinhard Christanell

Una canzone che cura

Recentemente ho fatto una serie di riflessioni, leggendo sui giornali della fatica che fa la sanità altoatesina a venire incontro alle esigenze dei suoi pazienti. Mi è venuto in mente un viaggio che feci in Brasile, una quindicina di anni fa. Lì, tra gli altri, ebbi occasione di visitare un missionario altoatesino allora attivo nella città di San Paolo, una megalopoli di decine di milioni di abitanti. Si occupava di una parrocchia di quartiere ed era molto brillante e amato dai suoi fedeli, ma viveva “asserragliato”, una condizione molto normale in una città nella quale ai semafori non ci si ferma col rosso per paura di essere rapinati. Quando gli chiesi cosa sarebbe successo se fosse stato male e avessero dovuto soccorrerlo con l’ambulanza, lui mi disse che questa cosa lì… non esisteva. Ebbene: questo avviene nella maggior parte del terzo mondo; lì il suono delle ambulanze tace… in partenza. Insomma: nel nostro primo mondo facciamo bene a lamentarci se i servizi non funzionano come promesso a fronte di tanti investimenti pubblici, ma è anche utile pensare che siamo comunque dei privilegiati, rispetto alla maggior parte degli altri abitanti sul pianeta terra.
Un’altra mia riflessione, in questi giorni, ha riguardato il significato più esteso della parola “cura”.
Tale termine nella nostra lingua va ben oltre al trattamento delle malattie. Ce lo ha insegnato ad esempio don Lorenzo Milani che, negli anni ’60 scrisse il suo motto “I care” sui muri della scuola di Barbiana, da lui fondata per strappare dall’analfabetismo i bambini del paese dove era stato esiliato dai vertici della sua diocesi fiorentina. In quel caso la parola stava a significare mi importa, mi interessa, ho a cuore, e tale messaggio successivamente è stato adottato da quella larga parte del mondo ecclesiale che si interessa alla promozione della persona umana e alla giustizia sociale.
“La cura” è anche il titolo di una bellissima canzone in cui Franco Battiato nel 1996 prosegue nel solco di un altro brano da lui scritto otto anni prima e intitolato “E ti vengo a cercare”. Entrambe le canzoni parlano d’amore, ma è proprio in “La cura” che Battiato, grazie anche ad una bellissima melodia, ci spiega con grande poesia quanto prendersi cura di se stessi e coltivare la propria anima possa diventare (anche) un instancabile accudimento dell’altro che ci sta a fianco. La canzone inizia dicendo “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie” e si conclude con un impegno: “Io sì, avrò cura di te”. è una canzone che cura.

Redattore: Luca Sticcotti

Pensieri dal bosco 2


Primavera e quarantacinque giorni d’estate – quella meteorologica inizia il 1° giugno – sono risultati particolarmente piovosi, tanto che i nostri amati boschi scintillano di tutti i tipi di verde. La terra è bagnata e scura ed emana quell’intenso profumo di humus. Dopo essere tornato dalla Liguria, ho perlustrato zone piuttosto impervie e poco battute, a bassa quota, intorno agli 800m, fino a raggiungere i 1300m.

Le ricerche e le determinazioni che mi sono appuntato sono avvenute a scopo puramente personale, ergo senza l’uso di lenti di ingrandimento, libri, chiavi, senza l’ausilio del microscopio e dei reagenti. Considerate le T notturne lievemente sotto media per la prima decade del mese e che, di solito, non si palesano crescite abbondanti, come avviene in autunno, ho optato per inerpicarmi lungo versanti esposti a sud di bosco termofilo misto, in cui bastano le giuste ore di sole per stimolare il micelio (con precipitazioni abbondanti). Generalmente per termofilo s’intende un bosco di quercia, cerro, castagno, faggio o di caducifoglie miste, purché situato in area riparata, ben soleggiata e a microclima caldo; in Alto Adige, patria egemone del peccio (e del bostrico, sigh), queste fasce boschive miste si trovano solo lungo parti di una isoipsa ben definita, che non supera i 1100/1400 metri di quota a seconda delle zone e all’esposizione dei versanti, al netto di esemplari solitari di latifoglie a quote appena superiori, eccezion fatta per le betulle. Naturalmente a querce, cerri e caducifoglie miste, pressoché assenti, o presenti in preziose e sparute nicchie, da noi c’è il bellissimo pino silvestre (tana prediletta della processionaria, sigh); ma, a quote di montagna, di bosco a microclima caldo ne troviamo ben poco. Questa multi-varietà di specie, tra abeti, pini e latifoglie, che dopo l’epidemia di bostrico, dovrebbe divenire più costante, preservando gli abeti sopravvissuti e aumentando la biodiversità, avrà pure il pregio di incrementare le specie fungine simbionti o micorriziche, legate al singolo albero. Peraltro, a titolo informativo, tutte le specie arboree e le loro quote ideali di crescita valgono per la zona alpina, che però aumenta di altitudine quando scendiamo di latitudine. Tra le specie fungine osservate troviamo: Russule virescens, aurea, vesca, cyanoxantha, Agaricus augustus, Boletus aestivalis o reticolatus, Neoboletus praestigiator, Tylopilus felleus, Amanita gemmata, Suillus grevillei (larice), Caloboletus calopus, Infundibulicybe gibba, Laetiporus montanus, Amanita rubescens, Marasmius alliaceus (latifoglia), Mycetinis scorodonius (abete) e l’inconfondibile marea gialla dei Cantharellus pallens.

Donatello Vallotta

La Chiesa evangelica del Salvatore sulle Passeggiate Lungo Passirio


Il 7 febbraio 1876 il governo viennese concedeva il permesso di dar vita a una Comunità evangelica a Merano e costruire una vera e propria chiesa. Ora spettava ai membri della Comunità realizzare questo sogno, iniziando col reperire fondi, sovvenzioni e dando vita ad una raccolta di offerte fra i residenti, gli ospiti di cura e i benefattori vicini e lontani. In capo a pochi anni la Comunità riuscì ad accumulare la considerevole cifra di 50.000 fiorini.

Un terreno, conveniente per il prezzo ma soprattutto per la posizione, fu reperito nella zona di espansione ottocentesca lungo l’allora Stephanie Promenade, molto vicino alla Gisela Promenade, il centro della mondanità cittadina. Il 20 gennaio 1882 fu indetta una gara per il progetto rivolta agli architetti tedeschi ed austriaci. Fra le caratteristiche imprescindibili, volute dalla Comunità, c’era la considerazione che la chiesa sarebbe stata frequentata soprattutto da malati di tubercolosi e bisognava quindi facilitare gli ospiti nei movimenti, lasciare un ampio corridoio nella navata per le sedie a rotelle, evitare giochi di corrente d’aria, offrire sedili comodi e un pavimento caldo. I posti a sedere dovevano essere 250, mentre, a misura igienica, si richiedeva di lasciare uno spazio di un metro tra le bancate.

Per quanto riguardava invece l’aspetto esteriore dell’edificio, esso non doveva risultare fastoso. Alla Commissione giunsero ben dodici progetti e furono scelti i tre giudicati più interessanti. La Comunità decise poi di affidare i lavori al secondo classificato, l’architetto Johann Vollmer di Berlino, assistente di uno degli architetti più importanti di chiese evangeliche e a sua volta esperto di costruzioni sacre e profane. Per seguire in loco i lavori la Comunità cittadina caldeggiò il nome del capomastro Adolf Leyn, correligionario ed esperto del settore per aver lavorato alla costruzione di una chiesa ad Hannover e per aver costruito alcune ville private a Merano. Il 6 ottobre seguente si procedette alla cerimonia della posa della prima pietra e due anni dopo, il 13 dicembre 1885, la chiesa poté essere consacrata al Salvatore.

All’interno, la decorazione lignea a rilievo dell’altare e del pulpito fu affidata al noto Franz Xaver Pendl, che si occupò anche del corpo del Cristo in croce. La finestra nell’abside, che rappresenta Gesù come il buon pastore fu realizzata insieme alle finestre della navata sud nel 1885 da una bottega di Monaco di Baviera. Il fonte battesimale di marmo policromo con foggia neogotica, dono dell’imperatore tedesco Guglielmo I, aveva trovato posto in posizione privilegiata proprio davanti l’altare. Sulla facciata, subito sopra l’ingresso mancava la figura del Cristo benedicente, ma il bozzetto realizzato dallo scultore Fuchs non piacque e l’idea di affidare l’opera ad Emanuel Pendl non trovava risposta nei conteggi finanziari e si decise quindi di rimandare. Certo l’attesa non fu brevissima: passarono infatti dieci anni, quando nel febbraio del 1896 si commissionò una statua di un Cristo benedicente, sul modello di quello più famoso del Thorwaldsen, alla società della cava di Lasa, che consegnò il pezzo nella primavera del 1897.

Flavio Delladio e i Rolling Stones, una relazione di lungo corso


Non è proprio un disco appena uscito ma, lo ammettiamo, ci era sfuggita questa nuova eccellente produzione del chitarrista bolzanino: Flavio Delladio Band suona i Rolling Stones.

A dispetto del titolo, non si possono relegare band e disco nel pur dignitoso (ma non sempre) mondo delle cover band; oltre a rispettare lo spirito delle canzoni originali senza stravolgerle, il titolare ci mette del suo negli arrangiamenti. Dalle nostre parti sono davvero in pochi, oltre a lui, a conoscere davvero a fondo la musica dei Rolling Stones, sono meno delle dita di una mano e questi sono i loro nomi: Marco (il fratello di Flavio), Bobbi Gualtirolo e Agostino Accarrino. Per il resto, adattando un vecchio detto napoletano, il diritto di eseguire una cover dei Rolling Stones e una laurea in legge, non si negano a nessuno!

Da qui a fare una cover rollingstoniana come si deve però, la strada e lunga. Lunga come la frequentazione di Delladio con la musica del gruppo.

“Effettivamente è cominciato tutto un sacco di tempo fa – ci racconta l’artista –, con mio fratello Marco ascoltavamo non solo gli Stones, ma prevalentemente loro erano la nostra passion. A dodici anni circa abbiamo cominciato a voler fare una band che suonasse solo Rolling Stones, così sono nati i Tumbling Dice, il cui nome veniva ovviamente dal titolo di un brano dei nostri beniamini. Eravamo proprio piccoli, ma avevamo quella musica dentro, li ascoltavamo giorno e notte.”

Dei Tumbling Dice facevano parte il maggiore dei fratelli Delladio, Alessandro, un Mario Punzi quasi bambino, il bassista Sandro Garbin e il cantante Sandro Fonte. Ricordiamo un mitico concerto del gruppo a fine 1983, in un teatro tenda allestito in viale Trieste davanti allo stadio Druso. Flavio e Marco, con le loro chitarre avevano la stessa presenza scenica di Keith Richards e Ronnie Wood, mentre Fonte citava a piene mani il Mick Jagger ginnico di quegli anni. A parte il maggiore dei Delladio, gli altri erano ancora tutti minorenni.

“Questo disco è davvero un ritorno alle origini – prosegue Flavio –, perché prima o poi si ritorna lì dove tutto era cominciato. E non è un caso che nella mia band da qualche anno ci siano di nuovo Sandro Garbin e Sandro Fonte. Dal suonare ancora con loro due alla decisione di fare il disco, il passo è stato davvero breve. Poi, il nostro repertorio è fatto anche di altre cose, ma l’idea di dedicare un disco a questa musica ci è parso bello”.

E non si può dargli torto, il disco suona bene, ci sono giustamente quelle canzoni dei Rolling Stones di atmosfera country, che funzionano perfettamente con quello che il gruppo suona dal vivo, ma ci sono anche accostamenti al blues e a ballate come Angie e Wild Horses, interessante l’arrangiamento di Country Honk, in cui Delladio rifà col dobro la parte che nell’originale era stata affidata al violino di Byron Berline e interessanti sono anche alcuni duetti vocali tra Delladio (che rimane la voce principale) e Fonte. Uno dei pregi del prodotto è che né Delladio né Fonte tentano di scimmiottare Jagger al canto, e nell’uso della chitarra il capobanda ci mette sempre il proprio stile. Nel disco però, e la cosa è ben evidenziata in copertina, oltre alla Band di Flavio (che si completa con il percussionista Victor Santos e la chitarra ritmica di Roby Massa) ci sono anche una mezza dozzina di session man di grido, qui chiamati i Giganti del Rock Italiano, gente che ha suonato con Zucchero e Vasco Rossi, con gli Stadio. La produzione è di quel Simone Olivetti che recentemente ha preso parte anche al disco di Mirko Giocondo.

“L’amicizia con questi musicisti – ci spiega Delladio – è di lunga data. Ho cominciato a frequentare alcuni di loro quando lavoravo in duo col bassista Pasquale Neri, e sono sempre rimasto in contatto con loro. Sono tutti presenti nel primo brano del CD: Gallo Golinelli suona il basso, Adriano Molinari la batteria, Fabrizio Foschini degli Stadio è alle tastiere, Andrea Cucchia al sax e Cicci Bagnoli alla chitarra. Io, ovviamente, canto e suono la solista”.

È notizia dell’ultima ora che la Flavio Delladio Band sarà uno dei tre gruppi che si contenderanno questo weekend nella piazza principale di Rovigo, il titolo di miglior gruppo blues italiano e la possibilità di rappresentarci all’International Blues Contest di Memphis!

Insalata di ceci, tonno e avocado

Ingredienti

250 g ceci secchi

160 g tonno sott’olio sgocciolato

1 avocado

80 g pomodori secchi sott’olio o freschi

1 cucchiaio prezzemolo tritato

Preparazione

1. Se non usate i ceci precotti mettete a bagno quelli secchi in una terrina con acqua fredda. Devono riposare una notte. Al mattino scolateli, sciacquateli e lessateli in abbondante acqua salata. In pentola a pressione ci vorranno circa 30 minuti dal fischio. Raddoppia i tempi in una pentola normale.

2. Tagliate a metà l’avocado maturo. Privatelo del nocciolo e tagliatelo a cubetti. Metteteli in una terrina con i ceci lessi e fatti raffreddare. Unite il tonno sgocciolato e i pomodori secchi o freschi.

3. Guarnite l’insalata con il prezzemolo tritato, condite con olio a crudo, sale e pepe

4. L’avocado unitelo però all’ultimo momento.

5. Potete conservarla un paio di giorni in frigo.

q.b. sale e pepe

4 cucchiai olio extravergine d’oliva

Il “passaggio” dedicato a don Cristofolini

“Passaggio Don Giorgio Cristofolini”: collega via Alto Adige a piazza Duomo. Nato in quel di Arco (TN) il 28 aprile 1922, da sacerdote sin dal 1946 si impegnò per i lavoratori; fu cappellano degli operai della centrale elettrica di Predazzo e della diga di Travignolo. Dal 1950, inviato in Alto Adige, fu assistente spirituale delle ACLI e cappellano dei cantieri. Fu per 25 anni a fianco degli operai dei cantieri edilizi delle centrali idroelettriche, delle cave e delle miniere dell’Alto Adige; con la sua vecchia auto, ma anche a piedi, si recò in località montuose e con difficili condizioni, tra neve e pioggia, esercitando il suo apostolato in diverse valli dell’Alto Adige. Esercitò il suo sacerdozio ma fu attivo anche nel ruolo di assistente sociale dei lavoratori dei vari cantieri, abruzzesi, calabresi,… con i quali si stabilì un rapporto di affezione. Nel 1965 il vescovo Joseph Gargitter gli affidò la direzione del nuovo settimanale diocesano “Il Segno”. Gli operai dei cantieri, riconoscenti per l’impegno a loro favore, gli donarono un calice, che l’ex cappellano dei cantieri finché visse alzò al cielo nelle S. Messe, ricordando gli anni delle miniere. Nel 1970 fu nominato anche responsabile del neonato Ufficio stampa diocesano. Don Giorgio soggiornava nella Casa del Giovane Lavoratore, in via Castel Weinegg; appuntamento domenicale per 25 anni fu la S. Messa delle 8 presso la chiesa di S. Paolo. È del luglio 1993 il suo ultimo articolo di fondo; la sua salute man mano declinava; ricoverato all’ospedale di Rovereto, saputo della presentazione del libro “Un prete in miniera”, intervista autobiografica, due ore prima di morire disse al suo grande amico Giorgio Pasquali ”Domani salutami tutti”. Morì la notte del 24 settembre 1993. Alle sue esequie a Vigo Cavedine partecipò una rappresentanza della parrocchia bolzanina di San Paolo; il Coro San Paolo esaudì la sua richiesta di cantare l’inno da lui amato, alla Madonna di Czestochova (Madonna nera).

Leone Sticcotti

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Orizzonti

Tre anni fa in questo spazio mi interrogavo in merito al nostro orizzonte, a partire dal racconto scritto da una giovane insegnante bolzanina, che identificava nell’Europa il minimo comune denominatore che dovrebbe coinvolgerci tutti. Più in generale, poi, facendo riferimento a esempi di apertura e chiusura mentale tratti dalla nostra cronaca locale (eravamo appena usciti dalla pandemia), mi chiedevo se la vera libertà alla quale alla fine tutti noi ci appelliamo, in un modo o nell’altro, non stia proprio nella capacità di allargare la nostra prospettiva, rispetto al nostro pur luccicante (ma non troppo) piccolo orticello. 

Sul tema dell’orizzonte torno, perché per me questa parola ha sempre fatto rima con… estate. Nella mia esperienza infatti, ma penso non solo nella mia, è proprio durante questa stagione che a noi montanari viene concesso, per un periodo più o meno lungo, di assaporare gli orizzonti di pianura o di mare, ovvero i… “veri” orizzonti. 

La parola orizzonte viene dal greco e significa letteralmente “cerchio che delimita”. La definizione di orizzonte è bellissima. Orizzonte è infatti la “linea apparente che separa la terra dal cielo, la linea che divide tutte le direzioni visibili in due categorie ovvero quelle che intersecano la superficie terreste e quelle che non la intersecano”. Mi piace soffermarmi su quell’aggettivo “apparente”, così evocativo e immaginifico. 

La linea dell’orizzonte al mare mi ha sempre affascinato. Sono sempre rimasto ore a guardarla, quando potevo, perché mi conciliava i pensieri, quelli che danno senso, innescano i ricordi e mettono in moto le idee. Poi l’orizzonte di mare e di pianura mi ha sempre regalato colori inediti, albe e tramonti, nuvole lontane di una consistenza non famigliare per un montanaro. 

Il mio augurio è che questo fascino per l’orizzonte fisico sia in grado di contagiare anche i nostri orizzonti di vita, alimentandovi speranze, sogni, progetti, impegno, valori. 

Il cielo che sta sopra l’orizzonte è lo stesso dove di notte splendono le stelle. E nella bandiera dell’Europa il colore del cielo di giorno è associato alla luce delle stelle che brillano di notte. Si tratta di una contraddizione solo apparente. Sta in noi alimentare questo sogno di prosperità e di pace. Ovunque noi siamo.

Autore: Luca Sticcotti