Beato Arrigo

A collegare via Weggenstein con via Sant’Antonio vi è via Beato Arrigo; si tratta del beato Enrico da Bolzano. Nato a Bolzano nel 1250 da genitori poveri, Enrico dovette ben presto guadagnarsi da vivere come operaio a giornata, ma, pur essendo analfabeta, partecipò con devozione alle funzioni religiose. Sposato e con un figlio di nome Lorenzo, a circa 30 anni, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma con la moglie e il figlio, si trasferì a Biancade (Treviso);  morta la moglie si stabilì a Treviso dove continuò a condurre una vita di umile lavoro, come bracciante,  e a partecipare a varie celebrazioni liturgiche. Quando a causa dell’età avanzata non poté più lavorare, condusse una vita di penitenza, chiedendo l’elemosina, mendicando non tanto per sé quanto per i poveri della città. Recitava il Rosario in qualche angolo della chiesa e se la chiesa era chiusa pregava in ginocchio davanti al portale. Morto in fama di santità il 10 giugno 1315, grande fu la partecipazione di popolo alle sue esequie, durante le quali, si narra, un paralitico improvvisamente guarì. Fu sepolto nel Duomo di Treviso e da allora ci fu un grande afflusso di pellegrini. Beatificato il 29 luglio 1750, nel 1759 sue reliquie (due costole) furono solennemente traslate, con grande partecipazione di fedeli, nella chiesa parrocchiale di Bolzano, da allora conservate nella cappella di Loreto in un prezioso scrigno ed esposte alla pubblica venerazione. Arrigo divenne presto popolare in tutta l’Italia del Nord. Il beato Enrico da Bolzano, patrono di Bolzano, la cui ricorrenza si celebra il 10 giugno, è considerato protettore dei boscaioli. Al beato Enrico di Bolzano è intitolata una parrocchia della diocesi di Bolzano-Bressanone; si tratta della parrocchia Beato Enrico da Bolzano di La Costa/Seit (frazione di Laives); divenuta parrocchia nel 1986, dopo esser stata espositura dal 1859, curazia dal 1948, fa parte del Decanato di Laives, istituito nel 1993.

Autore: Leone Sticcotti

Revisione scaduta

Un vecchio detto sostiene, giustamente, che la talpa della storia continua a scavare per poi riemergere quando vuole lei. è un modo per dire che il tempo passa, non c’è nulla di immutabile. Anche se ci sembra che le cose rimangano tali, in realtà il cambiamento è sempre dentro di noi e intorno a noi. E prima o poi ci troviamo a doverci fare i conti. Più rimandiamo e peggio è.
è una prospettiva che vale anche per la nostra autonomia, un sistema normativo faticosamente conseguito 52 anni fa, dopo un percorso durato decenni per sanare una serie di problematiche manifestatesi nella prima parte del secolo scorso e culminate con gli anni tragici della seconda guerra mondiale. Da allora lo statuto di autonomia è rimasto tale, a parte una serie di correttivi giunti più a regolamentare più che a modificare le regole del gioco, nonostante il fatto che negli ultimi 15 anni ci si sia posti a più riprese la questione di una necessaria revisione, legata alle grandi trasformazioni sociali e politiche sopraggiunte.
I primi tentativi di operare dei cambiamenti significativi nello statuto si sono incagliati, com’è noto. I delicati equilibri e le motivazioni legate al consenso dei partiti, sempre più difficile conquistare e conservare, hanno spinto a prendere tempo. Ma – a giudicare dalle cronache – tale revisione del quadro normativo è tornata nei giorni scorsi a manifestare la sua grande urgenza.
I cambiamenti demografici, il mercato del lavoro in sofferenza, l’inesistenza di un’efficace politica per la casa, il sovraffollamento turistico, impongono ora come mai l’individuazione di un nuovo paradigma. E le contraddizioni emerse nelle ultime settimane riguardanti i più giovani, la loro formazione, e più in generale il loro futuro indicano un’urgenza rispetto alla quale non possiamo più tergiversare. I temi dello ius scholae per i ragazzi con background straniero ma nati in Italia, la proposta di “classi speciali” nelle scuole pubbliche composte da soli “stranieri”, l’abbandono scolastico record a livello nazionale, i costi spropositati a cui sono sottoposte le famiglie degli studenti universitari a Bolzano, e – non ultima – la fuga dei giovani più in gamba non più in grado di costruirsi il destino in Alto Adige, impongono a mio avviso la convocazione di una sorta di “stati generali” del… nostro futuro, che coinvolgano tutte le articolazioni del nostro finora tanto decantato modello altoatesino. La talpa sta già scavando da un bel pezzo…

Autore: Luca Sticcotti

Tra paesaggio e mitologia

Paesaggi marini, orizzonti liberi e sconfinati e paesaggi di montagna, così come confini del nostro presente e confini mitologici sono alcuni dei temi delle opere di Karin Schmuck. Il suo approccio artistico prevede di studiare per lunghi periodi un luogo e la possibilità di conoscerlo da vicino attraverso il cammino, attraverso una conoscenza e una esperienza fisica. I suoi sono spesso paesaggi che scaturiscono da aree di transizione umane e metafisiche. Nell’idea di confine a Karin interessa la scomposizione della parola e l’ispirazione trae dal frammento “fine” e poi da “con”, ossia una separazione ma al tempo stesso una condivisione un insieme. La dicotomia e l’ambiguità sono elementi ricorrenti nel lavoro di Schmuck e ben si adatta al mezzo fotografico.

L’artista è interessata alla natura incontaminata, ai “non” luoghi a cui spesso viene data poca importanza.

Una particolare attitudine dell’artista è quella di esplorare i miti dei luoghi che visita muovendosi così fra il dato naturalistico e quello leggendario. In questi giorni le sue fotografie ma anche i suoi dipinti e oggetti d’arte sono esposti nella mostra personale intitolata INFINITY ospite della piattaforma per artisti Carte Blanche dell’Hotel Europa. Karin Schmuck è nata a Bolzano nel 1981 a Bolzano e vive e lavora a Siusi, in Alto Adige. Prima del Master in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, aveva studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Dal 2009 ha esposto le sue opere in diverse mostre personali e collettive e ha vinto diversi premi come il premio COMBAT e il PREMIO CARLO GAJANI. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

L’articolo 19, il mondo che non c’è e la lingua che rende liberi


Il sistema scolastico di un Paese democratico è specchio della realtà, espressione di storia, cultura e tradizione. D’altro lato è il luogo dove si seminano parole, valori e visioni che domani – ma in parte già oggi – producono i cambiamenti necessari in una società dinamica, attenta ai bisogni e ai sogni delle persone.

Da quando, alla fine del ‘700, nel Tirolo fu introdotto l’obbligo scolastico, nei territori dell’Austria multietnica si pose il tema della lingua d’insegnamento. Soprattutto nelle zone di confine sorsero conflitti che portarono, nel secolo successivo, allo sviluppo dei nazionalismi. Il fascismo agì, come sappiamo, nell’alveo di quel paradigma politico-culturale. Solo per dire che scuola e nazionalismi/etnocentrismi hanno qualche conto in sospeso.

L’accordo di Parigi del 1946 (art. 1) prevede per i “cittadini di lingua tedesca”, “l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua materna”. La Costituzione repubblicana dichiara (art. 6) di voler tutelare “con apposite norme le minoranze linguistiche”. Lo Statuto di autonomia recita all’art. 19: “Nella provincia di Bolzano l’insegnamento nelle scuole materne, elementari e secondarie è impartito nella lingua materna italiana o tedesca degli alunni da docenti per i quali tale lingua sia ugualmente quella materna”. L’articolo 19 è molto chiaro, ma parla di un mondo che non c’è. Già nel 1972 si dava il caso di alunni figli di famiglie miste. Oggi sono molti di più. Nel 2024 (e da decenni) le nostre scuole sono frequentate da bambini, bambine e giovani la cui lingua materna non è il tedesco né l’italiano (prescindiamo qui dalla questione ladina). L’articolo 19 nella sua formulazione non è dunque applicabile se non mettendo alla porta gli alunni di altra madrelingua. Il che, purtroppo, non è “fantascuola”.

Come mai dopo decenni, con tutta l’esperienza disponibile, l’Alto Adige non ha ancora sviluppato un sistema capace di rafforzare i ragazzi nella propria lingua e di dare loro una conoscenza effettiva della seconda lingua? È come se una certa politica avesse paura di un bilinguismo effettivo, perché la lingua rende liberi e abilita alla partecipazione. “È solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui” (don Lorenzo Milani).

L’Alto Adige (con l’Eurac, l’Università e altre istituzioni) ha tutti i numeri e dunque il dovere di elaborare sistemi e metodi che diano ai futuri cittadini un plurilinguismo effettivo da spendere in provincia, in Europa e nel mondo. A tutti, senza anacronistiche riserve e pericolose discriminazioni.

Autore: Paolo Bill Valente

La strada dedicata a Toni Ebner


In zona produttiva nel quartere di Oltrisarco a collegare via Bruno Buozzi a via Luigi Galvani vi è la strada dedicata a Toni Ebner, politico, editore, giornalista. Nato il 22 dicembre 1918 ad Aldino, frequentò il Ginnasio Liceo del Seminario arcivescovile di Tirolo. Conseguita la maturità nell’estate 1938, il 29 novembre si immatricolò all’Università di Bologna, facoltà di Giurisprudenza; morto il padre il 9 giugno 1940, dovette recarsi  spesso a casa per gestire il maso dei genitori. Tra studi e gestione del maso, lavorò anche nello studio legale bolzanino Pichler/Silbernagl; laureatosi  il 30 marzo 1943, in  tale studio lavorò fino alla chiamata al servizio militare, che svolse come interprete nel IV Corpo d’Armata. Il 10 aprile 1944 si sposò con Martha Flies, nipote del canonico Michael Gamper; ebbero quattro figli, uno dei quali, Michael, più noto come Michl, seguì le orme del padre. Terminata la guerra, Toni Ebner aprì ad Egna uno studio legale, ma si dedicò anche alla politica: l’8 maggio 1945 fu uno dei cofondatori della Südtiroler Volkspartei; ne fu il primo segretario;  nei bienni 1951/1952 e 1956/1957 fu presidente. Dal 1961 al 1964 fu consigliere comunale a Bolzano. Importante incarico fu quello affidatogli dal canonico Gamper, direttore dell’editrice “Athesia”, di gestirne l’amministrazione; della casa editrice Toni Ebner  divenne direttore il 1° aprile 1951. Morto il canonico Gamper nell’aprile 1956, Toni Ebner fu chiamato a dirigere il quotidiano “Dolomiten”. Fu eletto (SVP) alla Camera dei deputati nel 1948, 1953, 1958. Fu attivo anche nel campo giuridico; nel 1977 fu chiamato a Roma come giudice aggregato della Corte Costituzionale; dal 2 ottobre 1981 fece parte del Consiglio di Stato. Non mancarono i riconoscimenti pubblici. La mole di lavoro editoriale e giornalistico, svolto con grande zelo, non mancò di influire sulla sua salute. Eletto presidente dell’Athesia nell’ottobre 1981, tra il 12 e il 13 dicembre fu ricoverato all’ospedale di  Bolzano, dove morì il 13 dicembre.

Autore: Leone Sticcotti

Singoli e intingoli nella stagione dei tormentoni


L’estate, si sa, è per definizione la stagione dei tormentoni. Una volta, d’estate, la politica andava in vacanza come le fabbriche, ora invece è in fase di campagna elettorale continua, ogni scusa è buona per tediarci con la politica, con buona pace dei tormentoni estivi, che comunque negli ultimi anni non sono più quelli di una volta neppure loro. Anche la scena musicale locale ha avuto una flessione a riguardo, poche novità, anche poca voglia di novità forse, anche se qualcosa che si eleva sul poco indubbiamente c’è, per fortuna. Vediamo insieme di cosa si tratta.

Innanzitutto c’è il nuovo singolo degli Shanti Powa, la band solare (e quindi estiva) per definizione. La musica di questi ragazzi è talmente contagiosa e radiosa che riesce ad essere solare anche nell’affrontare temi magari non proprio qualunque. Opportunity, il brano uscito lo scorso 26 luglio, è figlio della trasferta americana del dicembre 2022, quando il gruppo si è esibito a Washington insieme ad altri artisti internazionali, stringendo in particolare amicizia con il musicista del Malawi Faith Mussa. Il risultato è una canzone di presa sicura, ma definirla tormentone sarebbe offensivo, con una base musicale in puro stile Shanti Powa, con la sezione fiati quantomai in forma e col testo cantato a tre voci da Berise, Peter Burchia (finalmente tornato a pieno ritmo in seno al gruppo) e l’ospite Mussa. Quasi quindicimila visualizzazioni per il video (montato e filmato ad arte per sembrare dal vivo) in poco più di due settimane, sono indice dell’alta credibilità e professionalità raggiunta da questa formazione che, tutto lo fa supporre, l’anno prossimo dovrebbe tornare in studio per un nuovo disco.

Buone notizie anche sul fronte rock più puro: William T & The Black Fifties il 12 luglio hanno pubblicato un ottimo video intitolato I Cut My Hair: il brano è di quelli che conquistano subito, ci sono echi di Bob Seger, dello Springsteen di fine anni settanta, il tutto filtrato attraverso l’esperienza del gruppo con la musica degli anni cinquanta e in particolare con il repertorio di Elvis, a cui il cantato di Willy Telser si rifà. Ma il brano riesce a brillare di luce propria per il fatto di non essere sfacciatamente mainstream, o elvisiano; onore alla musica opera del chitarrista Roland Novak e all’esecuzione che conta sul basso del veterano rockabilly Mike Bottiglieri e del batterista Marco Vicentini che costituiscono un veicolo solido per la voce di Telser, qui totalmente a proprio agio con un testo di cui oltre che interprete è autore.

Nuovo brano, estivo ma con moderazione, anche per i Fratelli Stonati che, dopo aver fatto un’ottima impressione con Rakete (che sì aveva le potenzialità del tormentone estivo), tornano alla carica con un brano più in stile schlager intitolato Ich nehm dich mit. La sensazione è che da Aaron Timpone e soci possiamo attenderci qualcosa di più, diamo tempo al tempo.

Sfacciatamente sfacciato invece il singolo dei pusteresi Oh Rose guidati da Markus Seeber che ad inizio agosto se ne sono usciti con Feel Like A Rolling Stone: oltre a citare nel testo i musicisti della greatest rock’n’roll band di sempre, gli Oh Rose ne citano lo stile, i riff, i suoni, lo spirito, con tanto di armonica che fa proprio Rolling Stones anni sessanta e assolo di chitarra da copione. Non saranno originali, ma sembra si divertano molto, a partire dalla copertina del singolo che in stile cartoon propone un divertente Mick Jagger da spiaggia.

E chiudiamo questa breve rassegna di singoli con una new entry al femminile che si merita davvero applausi a scena aperta: Tessa Kai, un’artista che si è fatta le ossa nei Supraphonic e che fa parte di quel magnifico collettivo/fucina di talenti che va sotto il nome di Supermarket (Marco Di Stasio e Thomas Traversa sono i produttori e punti di riferimento di questa realtà locale che da un paio d’anni continua a destare interesse e ad entusiasmare). Tessa (all’anagrafe Lisa Pivetta), cantautrice fresca e piacevole, non è che la più recente uscita solista del consolidato team e con la sua canzone Panda si candida ad essere una delle artiste bolzanine da tener d’occhio in futuro. Rimanete sintonizzati!

Autore: Paolo Crazy Carnevale

La cappella russo-ortodossa


Il canone architettonico bizantino e russo-ortodosso avrebbe voluto la croce latina per la pianta della piccola chiesa russo-ortodossa, ma si utilizzò la soluzione ad aula caratterizzata però dalla tradizionale iconostasi lignea ricca di icone.

Lo spazio per i fedeli incominciava nel nartece, l’originario recinto per i catecumeni, ancora contrassegnato dal dipinto di forma triangolare raffigurante l’Ultima cena, proseguiva nel “naos” (l’aula vera e propria) dove giochi di luce e ombra sono resi possibili dalle grandi vetrate ad arco poste sul lato nord e sud a scandire lo spazio architettonico come in un sacro cerimoniale. L’aula si conclude ai piedi dell’iconostasi al limitare della cosiddetta “soleja”, la zona rialzata dove sorge appunto la tipica struttura lignea, imponente nelle sue tonalità scura del rovere e rilucente delle dorature, riccamente intagliata e modanata, impreziosita poi da immagini ieratiche di santi a figura intera e sovrastata da medaglioni, tutte opere di un artista rimasto anonimo, visto che per tradizione le icone non si firmavano. Oltre l’iconostasi si apre il presbiterio, dove trovavano posto l’altare e il trono, riservato solo al sacerdote e all’inserviente. 

L’Ambone e il “kliros”, ossia la zona riservata ai canti e alle letture dei testi sacri, tripartiscono la “soleja”: sull’ambone, posto davanti alla porta regale, si tenevano le letture tratte dal Vangelo, mentre sul “kliros” laterale trovavano posto lettori e cantori. 

Una croce russa dal tipico suppedaneo inclinato svetta ancora sulla lanterna a bulbo che rende ben individuabile il luogo sacro nelle linee architettoniche dell’edificio. 

Furono i fratelli Michael e Faina von Messing, i fondatori della Casa russa, che in prima persona seguirono sia le lungaggini burocratiche che i lavori e, con molta probabilità, avanzarono proposte per le soluzioni decorative e per gli arredi. Derivò da una loro iniziativa l’inserimento inconsueto di santa Giulia martire fra le figure dell’iconostasi, voluta probabilmente a ricordo della propria madre. Nella chiesa di un pensionato per malati di tubercolosi non poteva mancare un santo “guaritore” come san Panteleimon ossia Pantaleone di Nicomedia Medico   raffigurato nel gesto di estrarre da una scatola dei rimedi medicamentosi. 

Il 15 settembre 1897, sotto la guida di Faina von Messing, e con la direzione medica del dottor Michael von Messing, la Casa russa, anzi “Villa Borodine” risuonò del vociare entusiasta dei suoi primi ospiti. Alla Villa potevano accedere solo russi in grado di esibire certificati di appartenenza alla religione ortodossa, erano banditi i cittadini russi ebrei e gli ortodossi polacchi. 

La disponibilità era di 19 stanze e circa 30 letti, mentre tutto era regolamentato da un severo statuto che prevedeva ad esempio il divieto di possedere animali e suonare strumenti musicali, ma nella sala da pranzo vi era un pianoforte e non mancavano i piccoli concerti. Vietate erano anche le discussioni politiche o religiose ma per lo svago alla villa era allestita una ricca biblioteca e una sala di lettura dove si potevano trovare numerose riviste, e non mancavano ovviamente gli scacchi. 

La chiesa, invece, fu consacrata tre mesi dopo, il 3 dicembre 1897 alla presenza di tutta la Comunità dei fedeli, provenienti anche da altre località di cura del Tirolo meridionale, delle autorità cittadine, e del clero evangelico ed anglicano. Solo il clero cattolico si rifiutò di partecipare alla cerimonia. 

A partire da questa data le funzioni si svolsero ogni domenica e nei giorni festivi per sei mesi l’anno; in questo lasso di tempo alla villa era presente un sacerdote che, trascorso il periodo, rientrava nel luogo di provenienza. Il rito che seguiva rigidamente il cerimoniale russo terminava con l’inno nazionale.

La cappella russo-ortodossa di Merano si trova in Via Schaffer 21. Orario d’apertura: 1° e 3° sabato del mese dalle ore ore 9 alle 13 e su appuntamento (chiusura durante il periodo natalizio e pasquale).

Autrice: Rosanna Pruccoli

Barchette di zucchine

Ingredenti

2 zucchine medie
1 pomodoro
mezzo peperone
60 g di mais in barattolo
mezza cipolla rossa
8 olive
50 g di formaggio (come mozzarella, scamorza o feta)
2 cucchiai di olio d’oliva
q.b. sale e pepe e origano

Preparazione

Lava le zucchine, tagliale a metà per il lungo e scava la polpa con un cucchiaino, lasciando un bordo sottile per formare le barchette. Conserva la polpa. Cuoci le barchette di zucchine in acqua bollente salata per circa 5 minuti. Scolale e mettile da parte.
Trita la polpa delle zucchine che hai messo da parte. Taglia il pomodoro e il peperone a piccoli cubetti. Affetta finemente la cipolla rossa. Taglia le olive a rondelle. In una padella, scalda l’olio d’oliva e soffriggi la cipolla rossa fino a renderla morbida. Aggiungi la polpa delle zucchine, il pomodoro, il peperone, il mais e le olive. Cuoci per 5-7 minuti, mescolando di tanto in tanto. Condisci con sale, pepe e origano a piacere.
Riempi le barchette di zucchine con le verdure preparate. Taglia il formaggio a cubetti o grattugialo e distribuiscilo sopra il ripieno.
Preriscalda il forno a 180°C. Disponi le barchette di zucchine su una teglia rivestita con carta da forno. Cuoci in forno per circa 15-20 minuti.
Lascia intiepidire leggermente prima di servire.

Il tormentato ritorno alla democrazia

Qualche mese fa Laives ha eletto un nuovo sindaco. Date le forze in campo, gli osservatori esterni hanno parlato di un esito delle consultazioni sorprendente. In realtà, Laives non è nuova a scelte controcorrente e in fatto di colpi di scena la cittadina alle porte di Bolzano non si è mai fatta mancare niente.

Un vecchio articolo del “Volksbote” (organo ufficiale dell’Svp) ci riporta al 1947. Quell’anno, l’intera Giunta presieduta da Riccardo Calovi si era dimessa, a quanto pare per protestare contro la nomina di un segretario comunale non troppo gradito e il mancato ritorno a Laives del segretario precedente, Josef Pfeifer, stimatissimo in paese. 

Il vero motivo dell’Avventino fu però la decennale diatriba per il rinnovo dei contratti d’affitto della Part, i terreni comunali di epoca teresiana che il fascismo aveva cercato di togliere ai coltivatori locali per assegnarli agli amici di partito. Per tutta risposta, la Prefettura insediò un Commissario (il Dr. Giuseppe Majo), sollevando un putiferio che si placò solo dopo sei mesi con la nomina di un nuovo sindaco, questa volta il Dr. Alessandro Dal Rì.

Ma facciamo un ulteriore passo indietro.

Per Laives, come per gli altri comuni della Bassa Atesina, il dopoguerra era iniziato, per così dire, a guerra ancora in corso. Dopo l’8 settembre e la caduta del fascismo, si prospettò infatti la necessità di garantire la stabilità amministrativa degli enti locali. Non si trattò tuttavia di un ritorno alla democrazia con regolari elezioni ma dell’ennesima imposizione dall’alto – e a scegliere i personaggi da mettere a capo dei municipi furono questa volta gli occupanti nazisti e i loro sostenitori locali. 

L’ultimo sindaco di Laives democraticamente eletto era stato Alfred Gerber, rappresentante, con Anton Gerber, Franz Gerber, il Dr. Franz Gerber, Josef Gerber e Alois Gerber, di una vera e propria dinastia di amministratori pubblici di stampo asburgico che, al pari dei Kurzel e degli Ebner, aveva inciso profondamente nella vita pubblica della Laives dell’800. 

Nel periodo della prima guerra mondiale – dal 1914 al 1919 – era rimasto sindaco il leggendario Josef Ebner, confermato anche dopo il passaggio del Sudtirolo all’Italia. Nel 1922 si tennero le prime elezioni democratiche dopo il conflitto mondiale e insieme a Ebner, ancora sindaco, comparve sulla scena politica il giovane Alfred Gerber, che divenne sindaco nel 1926, chiudendo definitivamente l’epoca degli Ebner. Segretario comunale era nel frattempo diventato Josef Pfeifer, amato dalla popolazione ma sgradito alle autorità fasciste e quindi costretto ad abbandonare Laives. Gerber durò in carica pochi mesi: il 12 giugno fu deposto dai fascisti e al suo posto fu nominato il Podestà Camillo Comolli. 

La democrazia era definitivamente finita e per molti anni furono i podestà mussoliniani a governare il paese. 

Il primo Commissario Prefettizio nominato pochi giorni prima della resa dei fascisti nel 1943 fu un altro personaggio entrato nella storia politica di Laives, il Dr. Alessandro Dal Rì. All’epoca il funzionario pubblico trentino dirigeva la scuola agraria di Laives e per quasi un decennio fu, quale membro autorevole della DC, uno dei protagonisti del ripristino della democrazia. Qualche settimana dopo, fu affiancato da Alfred Gerber, il quale fu nominato sindaco il 31 dicembre 1943. Non durò a lungo il regno di Gerber: dopo un mese e mezzo gli subentrò Heinrich Weiss che rimase in carica fino al 1945. L’11 luglio il CNL nominò la Giunta Popolare Comunale, che rappresentò il primo tentativo di reale superamento del radicato fascismo locale. Alessandro Dal Rì fu rieletto sindaco ma dopo un mese l’intera giunta fu sostituita. Giuseppe Espen divenne vicesindaco, tra gli assessori Vittorio Perathoner, Guido Guarda, Luigi Palaoro, Dionigio Corbella, Emilio Gardener, Antonio Ebner e Paolo Frasnelli. Il  decreto prefettizio del 19 novembre 1945 confermò Dal Rì  e Espen ma cancellò la Giunta. Nel 1946 le giunte furono ben quattro: la carica di sindaco fu occupata da Dal Rì, Tevini e per un paio di mesi da Francesco (Franz) Defranceschi e Riccardo Calovi. Dopo i fatti del 1947, tornò in carica Dal Rì, che mantenne la carica fino alle prime elezioni democratiche, che si svolsero soltanto nel 1952. Primo sindaco della nuova era divenne – ancora – Alfred Gerber, che chiuse definitivamente la sua lunghissima carriere politica nel 1956, trent’anni dopo la prima nomina.

Autore: Reinhard Christanell

La curiosa storia della parrocchia di Malles


Se siete degli amanti dello stile liberty e del “curioso” nell’arte è Malles la vostra meta. Nel 1903 i fedeli della parrocchiale di Malles ebbero l’occasione di scoprire la propria chiesa in una nuova “luminosità”:  quella cioè data dalle luce elettrica. Il 17 dicembre infatti i più ansiosi si recarono alla prima funzione, quella delle cinque del mattino, per essere i primi a godere di quella visione. Ma le novità di carattere tecnologico sembravano non finire, nel luglio del 1906, infatti fu inaugurato l’ultimo troncone della tratta ferroviaria Merano – Malles. Ora il paese era raggiungibile con un viaggio comodo e relativamente breve. Forse una parte del turismo che affollava la vicina Merano avrebbe potuto raggiungere anche l’alta Val Venosta e arricchire la parrocchiale di nuovi e raffinati affreschi non poteva essere che ben fatto. 

Così nel 1914 il decano Dietl chiamò a Malles il pittore Emanuel Raffainer di Schwaz e insieme pianificarono l’intera dipintura dell’abside e della navata. L’artista, allora trentatreenne, eseguì il progetto pittorico e uno schizzo e, ottenuta l’approvazione del decano, iniziò a dipingere. Poco tempo prima dello scoppio del primo conflitto mondiale il pittore, che aveva iniziato i lavori partendo dalla zona absidale, si trovava a dipingere l’Incoronazione di Maria. Gli echi, edulcorati dalla propaganda, dei vari successi al fronte, i fatti riportati nei bollettini di guerra e gli avvenimenti nella zona serba, rimbalzavano anche fra le viuzze del piccolo agglomerato venostano e ispirarono l’artista al punto che volle fissarne alcuni frammenti sulla parete di quel luogo sacro, anzi proprio nella rappresentazione stessa dell’Incoronazione. 

Sulla volta l’artista ha organizzato lo spazio pittorico in modo da riuscire a far convivere soggetti diversi. Un nuvolone suddivide il mondo terreno da quello ultraterreno ed in entrambe gli spazi, gremiti di personaggi, si articolano i diversi racconti. Solo a noi è dato di partecipare con lo sguardo agli accadimenti di entrambe le realtà, mentre i diretti interessati sembrano ignari gli uni degli altri. La Santissima Trinità sta per porre sul capo di Maria una corona di gusto bizantineggiante. Assistono Gioacchino e Anna, San Giovanni Battista, Santa Barbara e Santa Caterina, da un lato, Giuseppe e Giovanni Evangelista dall’altro.

Nel mondo terreno, intanto, le scene, apparentemente slegate fra loro, si accalcano una accanto all’altra ma forse si tratta delle diverse sfaccettature di un unico incubo premonitore: la guerra, che semina fame, morte e distruzione, lascia donne e bambini privi di sostegno mentre i padri sono al fronte, mette gli uni contro gli altri. Sullo sfondo, un paese va in fiamme, mentre sul lato destro, in primo piano, un uomo giace sul letto di morte: sono i suoi ultimi istanti di vita, la morte è al suo capezzale e con la clessidra in mano lo attende. Al centro, la figura in piedi sembra creare una tred’union tra quei due mondi, si tratta infatti di Bernardo di Chiaravalle, colui che nel Medioevo determinò la devozione per la Madonna. 

COME ARRIVARCI

Malles si raggiunge percorrendo prima la MeBo in direzione Merano poi imboccando e percorrendo quasi per intero la val Venosta. La parrocchiale di Santa Maria Assunta si trova in paese in via dell’Ospedale 2.

Autrice: Rosanna Pruccoli