Il “passaggio” dedicato a don Cristofolini

“Passaggio Don Giorgio Cristofolini”: collega via Alto Adige a piazza Duomo. Nato in quel di Arco (TN) il 28 aprile 1922, da sacerdote sin dal 1946 si impegnò per i lavoratori; fu cappellano degli operai della centrale elettrica di Predazzo e della diga di Travignolo. Dal 1950, inviato in Alto Adige, fu assistente spirituale delle ACLI e cappellano dei cantieri. Fu per 25 anni a fianco degli operai dei cantieri edilizi delle centrali idroelettriche, delle cave e delle miniere dell’Alto Adige; con la sua vecchia auto, ma anche a piedi, si recò in località montuose e con difficili condizioni, tra neve e pioggia, esercitando il suo apostolato in diverse valli dell’Alto Adige. Esercitò il suo sacerdozio ma fu attivo anche nel ruolo di assistente sociale dei lavoratori dei vari cantieri, abruzzesi, calabresi,… con i quali si stabilì un rapporto di affezione. Nel 1965 il vescovo Joseph Gargitter gli affidò la direzione del nuovo settimanale diocesano “Il Segno”. Gli operai dei cantieri, riconoscenti per l’impegno a loro favore, gli donarono un calice, che l’ex cappellano dei cantieri finché visse alzò al cielo nelle S. Messe, ricordando gli anni delle miniere. Nel 1970 fu nominato anche responsabile del neonato Ufficio stampa diocesano. Don Giorgio soggiornava nella Casa del Giovane Lavoratore, in via Castel Weinegg; appuntamento domenicale per 25 anni fu la S. Messa delle 8 presso la chiesa di S. Paolo. È del luglio 1993 il suo ultimo articolo di fondo; la sua salute man mano declinava; ricoverato all’ospedale di Rovereto, saputo della presentazione del libro “Un prete in miniera”, intervista autobiografica, due ore prima di morire disse al suo grande amico Giorgio Pasquali ”Domani salutami tutti”. Morì la notte del 24 settembre 1993. Alle sue esequie a Vigo Cavedine partecipò una rappresentanza della parrocchia bolzanina di San Paolo; il Coro San Paolo esaudì la sua richiesta di cantare l’inno da lui amato, alla Madonna di Czestochova (Madonna nera).

Leone Sticcotti

In viaggio verso il nulla “Questa volta dentro ci siamo noi”


Estate 1944. Prendeva definitivamente forma – forse proprio a luglio, 80 anni fa – il lager di Bolzano. Il “Campo di polizia e di transito” era la continuazione dell’analoga struttura di Fossoli, presso Carpi. Un punto di raccolta per prigionieri, un gran numero gli ebrei, destinati a finire il loro viaggio ad Auschwitz. Oggi si direbbe un hotspot.

“Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati”. A raccontare è Primo Levi, nella sua opera Se questo è un uomo. Siamo nel febbraio 1944.

“Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno”.

Nel Polizei- und Durchgangslager Bozen il prigioniero era costretto al lavoro finché aveva forze e finché non sarebbe partito il treno per i campi di sterminio del Nordeuropa.

“I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco, dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro ci siamo noi”.

Si calcola che siano passati dal campo di Fossoli circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei. Quasi il doppio quelli che transitarono dal hotspot di Bolzano.

Orizzonti

Tre anni fa in questo spazio mi interrogavo in merito al nostro orizzonte, a partire dal racconto scritto da una giovane insegnante bolzanina, che identificava nell’Europa il minimo comune denominatore che dovrebbe coinvolgerci tutti. Più in generale, poi, facendo riferimento a esempi di apertura e chiusura mentale tratti dalla nostra cronaca locale (eravamo appena usciti dalla pandemia), mi chiedevo se la vera libertà alla quale alla fine tutti noi ci appelliamo, in un modo o nell’altro, non stia proprio nella capacità di allargare la nostra prospettiva, rispetto al nostro pur luccicante (ma non troppo) piccolo orticello. 

Sul tema dell’orizzonte torno, perché per me questa parola ha sempre fatto rima con… estate. Nella mia esperienza infatti, ma penso non solo nella mia, è proprio durante questa stagione che a noi montanari viene concesso, per un periodo più o meno lungo, di assaporare gli orizzonti di pianura o di mare, ovvero i… “veri” orizzonti. 

La parola orizzonte viene dal greco e significa letteralmente “cerchio che delimita”. La definizione di orizzonte è bellissima. Orizzonte è infatti la “linea apparente che separa la terra dal cielo, la linea che divide tutte le direzioni visibili in due categorie ovvero quelle che intersecano la superficie terreste e quelle che non la intersecano”. Mi piace soffermarmi su quell’aggettivo “apparente”, così evocativo e immaginifico. 

La linea dell’orizzonte al mare mi ha sempre affascinato. Sono sempre rimasto ore a guardarla, quando potevo, perché mi conciliava i pensieri, quelli che danno senso, innescano i ricordi e mettono in moto le idee. Poi l’orizzonte di mare e di pianura mi ha sempre regalato colori inediti, albe e tramonti, nuvole lontane di una consistenza non famigliare per un montanaro. 

Il mio augurio è che questo fascino per l’orizzonte fisico sia in grado di contagiare anche i nostri orizzonti di vita, alimentandovi speranze, sogni, progetti, impegno, valori. 

Il cielo che sta sopra l’orizzonte è lo stesso dove di notte splendono le stelle. E nella bandiera dell’Europa il colore del cielo di giorno è associato alla luce delle stelle che brillano di notte. Si tratta di una contraddizione solo apparente. Sta in noi alimentare questo sogno di prosperità e di pace. Ovunque noi siamo.

Autore: Luca Sticcotti

Don Flavio. La partecipazione “al cuore della democrazia”

Don Flavio Debertol si è spento mentre a Trieste si teneva la 50ma Settimana sociale dei cattolici in Italia. Avrebbe voluto essere lì anche lui, come aveva sempre fatto. Per dare il suo contributo, ma soprattutto per ascoltare. Per partecipare. Proprio la partecipazione, a Trieste, diventa il “cuore della democrazia”.

“Occorre attenzione per evitare di commettere l’errore di confondere il parteggiare con il partecipare”, ha detto il presidente Sergio Mattarella nell’introdurre la Settimana sociale. Per “affrontare il disagio, il deficit democratico” è necessario ripartire ogni volta “dalla capacità di inverare il principio di eguaglianza, da cui trova origine una partecipazione consapevole. Perché ciascuno sappia di essere protagonista della storia”.

“Uno Stato non è veramente democratico”, gli ha fatto eco papa Francesco nel discorso conclusivo, “se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”. 

Don Flavio Debertol si è spento a Bolzano mentre a Trieste risuonavano queste parole. Oltre a decenni di collaborazione in parrocchia, aveva promosso davvero lo sviluppo delle “formazioni sociali”, mettendo in particolare il lavoro al centro della propria azione. Egli stesso aveva scelto di esercitare, da prete, un lavoro “laico” (nel settore sanitario), si era impegnato nel sindacato, era assistente di ACLI e UCID ed era stato responsabile diocesano per la Pastorale Sociale e il Lavoro. Cappellano o assistente anche degli scout dell’AGESCI, della Polizia di Stato, del MASCI, dei Maestri del Lavoro e delle FS per l’Alto Adige.

“Quello che ho sempre cercato di fare”, disse don Flavio, “è stare insieme alla gente per testimoniare il dono della fede, pur con i miei difetti e presunzioni”. Convinto che l’amore (di cui Dio è la fonte) “sia una risorsa straordinaria per dare senso e pace alla vita di ogni persona, in qualsiasi luogo e situazione esistenziale essa si trovi”, “sento in me una grande spinta per promuovere la pace, la giustizia, la solidarietà nel mondo e per questi valori cerco, nel mio piccolo e per quanto riesco, di impegnarmi a livello locale e non solo”. Una vita spesa, come per molti dei delegati di Trieste, per rendere la chiesa “più evangelica e in ascolto delle sfide attuali”. O, come direbbe da capo scout, “un po’ migliore di come l’abbiamo trovata”. Buona strada don Flavio.

Autore: Paolo Bill Valente

Philipp Burgger e le sue discutibili doti: furbizia e qualunquismo

Dopo averlo inutilmente inseguito per anni con lo scopo di realizzare un’intervista, il nostro esperto della scena musicale Paolo Crazy Carnevale ha infine deciso di tracciare un suo ritratto critico dedicato al leader del gruppo Frei.Wild, molto conosciuto nell’ambiente di lingua tedesca in Alto Adige ma anche e soprattutto in Germania. Oggi Burgger è attivo anche come solista e, addirittura, come autore di libri. 

Probabilmente, tra la popolazione di lingua italiana di questa povera/ricca regione, non se n’è accorto quasi nessuno, ma sul finire dello scorso anno, in Germania è stato pubblicato un libro che è finito subito in testa alle prestigiose classifiche della rivista Der Spiegel. 

Il titolo in italiano suonerebbe più o meno così: “Libertà con cicatrici, la mia strada dalla destra a dappertutto”. Laddove la destra, non è quella che si tiene guidando un mezzo di trasporto.

La cosa non ci stupisce, visto e considerato che Burgger è il leader dei Frei.Wild, la più conosciuta e discutibile band uscita dall’Alto Adige in questo millennio. è cosa nota che i Frei.Wild, soprattutto ai loro esordi, non hanno mai fatto mistero di certe simpatie per l’estrema destra dei naziskin. Non è un caso che in principio la band di Brugger si chiamasse Kaiserjäger (sintomo di una certa nostalgia per un passato che… è passato!) e il loro CD recasse all’interno del booklet foto di gente col braccio teso.

Si tratta di cose che Burgger sostiene di aver chiarito e messo a posto, a modo suo. Ma furbamente, perché ora quando parla di quel periodo, che sostiene essere stato il più schifoso della sua vita, lo fa con le dovute distanze, ma non si può negare che se i Frei.Wild sono arrivati dover sono arrivati (decine di migliaia di persone ai loro concerti, tour da tutto esaurito, dischi vendutissimi ristampati più e più volte in ogni formato), è stato grazie all’investitura che secondo la leggenda hanno ricevuto dai loro consimili e precursori Böhse Onkelz, gli zii malvagi, la cui storia non è poi troppo diversa per quanto riguarda i coinvolgimenti, spesso rinnegati o disconosciuti, con l’estrema destra germanica.

Non è un caso che sul primo disco del gruppo ci fosse un brano intitolato Südtirol, in cui Burgger cantava: “Alto Adige, strappato ai tuoi fratelli/Gridatelo, fatelo sapere a tutti/Alto Adige, non vi siete ancora persi/I tuoi nemici bruceranno all’inferno, sì!”.

Ma questo è il passato, obietterebbe oggi Burgger. Perché lui dice di non essere più quello. Anni fa abbiamo provato ad intervistarlo, per farci spiegare il fenomeno Frei.Wild, ma la cosa non è andata in porto: innanzitutto perchè Burgger aveva imparato la lezione di Mister Durni, ovvero rilasciare le interviste a casa sua, obbligando i giornalisti a salire al suo castello. Ma poi il musicista comunque ha continuato a disdire gli appuntamenti come se non gli interessasse quello che il pubblico italiano potesse pensare di lui.

Se non è furbizia questa! 

Ora Burgger le interviste le va a rilasciare alle fiere del libro, dove si reca per presentare l’autobiografia citata in apertura, ma va anche a tenere i discorsi a San Leonardo in Passiria in occasione degli anniversari di Andreas Hofer. E fa l’uomo di famiglia, inneggiando alla bellezza della famiglia, ai suoi figli. Si potrebbe anche credergli, ma intanto i Frei.Wild continuano ad essere sulla cresta dell’onda, tanto che lui ha anche dato il via ad una carriera come cantautore solista, piazzando i suoi dischi nelle zone alte delle classifiche (il primo è stato addirittura numero 1 in Germania).

I contenuti (ma sarebbe quasi più azzeccato dire i non-contenuti) musicali sono diventati molto qualunque, all’insegna di un rock furbetto e caciarone. Ha addirittura inventato un festival folk che si tiene a Naz ogni anno, con numero di presenze che in regione non fa nessuno, ma a ben vedere di folk c’è ben poco visto che negli anni vi hanno suonato Sepultura, la cantante dei Warlock, gli Helloween e altri nomi del metallo pesante, laddove la definizione folk si basa piuttosto sul concetto che è una festa popolare. Insomma un dire senza voler dire che è appunto indice di subdola astuzia, come l’impegno sotto il profilo sociale in cui Burgger è coinvolto: col risultato che nel mondo musicale di lingua tedesca Burgger è comunque rispettato perché tende a condividere i successi del suo gruppo, offrendo occasioni di suonare a destra e a manca, come un benefattore.

Nel bel mezzo dell’emergenza pandemica, poi, è uscito un brano dal titolo furbissimo di “Ciao bella, ciao”: una fiera dei luoghi comuni (tipica della destra, tedesca o italiana che sia), col lago di Garda, la Vespa Piaggio, un riff accattivante, un’avvenente cover girl e Burgger che canta di come la bella della canzone gli abbia spezzato il cuore: “Brindiamo al tuo amore per te stessa/Lei non è mai stata per me/Ciò che resta è un ponte che resiste/Quando l’amore si spezza/E nient’altro funziona/Marmo, pietra e ferro e anche l’amore si spezza/Ma gli amici per la vita non ti lasciano/Ciao Bella ciao, Bella ciao, Bella ciao/Ciao Bella ciao, Bella ciao, Bella ciao/Non come te, stupida scrofa”.

Si potrebbe obiettare che il riferimento è alla Vespa (una moto italiana, sarà un caso?) che pianta in asso il protagonista del video. Ma…  può essere stupida una moto?

È l’ennesima astuzia di Burgger, indubbiamente un affabulatore che riesce a convincere molta gente. Non noi.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Tanja Iarussi: archetipi, miti, presenze

Sono davvero numerosi e assai coinvolgenti i nuclei tematici della ricerca artistica di Tanja Iarussi. Fin dai suoi esordi, concluso l’Istituto d’Arte (1993) e poi l’Accademia di Belle Arti (2000), numerosi e variegati sono stati anche i linguaggi e i mezzi espressivi con cui l’artista ha affrontato nel corso degli anni il suo sfaccettato cammino artistico. La tecnica utilizzata nei suoi lavori infatti dipende e cambia a seconda di ciò che il suo progetto intende esprimere. Nei suoi lavori è possibile incontrare fili di ferro, pietre, cartapesta, reti, legni, cd, e tutto quanto possa risultare espressivo ai suoi occhi. Il suo è un percorso iniziato con la pittura su tela ma approdato ben presto alla suggestiva creazione di opere composte di garze, reti metalliche e creta dal forte impatto emozionale sul fruitore che vi percepisce un ritorno alle origini, alla terra come ventre materno di tutte le creature, come polo di attrazione ed equilibrio dal fascino ancestrale. La cornucopia foriera di doni preziosi o contenitore di sogni diviene nel trittico di Tanja il muto testimone del fluire del tempo che, nell’opera, è esemplificato da una sabbia colorata nelle tonalità del giallo del rosso e del blu. Il desiderio di coinvolgere sempre più il pubblico e renderlo partecipe dell’opera stessa ha portato l’artista a creare oggetti in cui l’intervento dell’osservatore è divenuto fondamentale per dare completezza all’opera. Né è esempio “Sognare ad occhi aperti” dove l’accensione di una luce consente all’opera di vivere di un ulteriore ed inaspettato sguardo, labile e immateriale come i sogni.  Ecografie e fotografie sovrascritte e sovra dipinte sono diventate nel suo personale linguaggio eco-pittura e foto-pittura. Di certo esse sono nuovi mezzi d’espressione con cui narrare storie, evocare ricordi, indurre emozioni. Durante il lockdown Tanja si è rivolta alla mitologia e ne ha tratto in particolare il mito del vaso di Pandora rivisitandolo e immaginandosi una chiusura del suo coperchio atta a respingere ed imprigionarvi tutto il male. Nasce così l’opera “Il fu vaso di Pandora” realizzato in cartapesta. Attualmente l’obiettivo artistico di Tanja Iarussi è una ricerca sulle trasparenze. La leggerezza eterea è il leitmotiv delle garze sottili su cui l’artista fa vivere le immagini di archetipi femminili che vanno dalla madre alla strega e all’angelo caduto ma dalla valenza positiva. In queste immagini dalla bellezza rarefatta si affacciano anche le tracce colorate di decori realizzati all’uncinetto. Essi hanno l’importanza di farsi testimone che passa di mano in mano di generazione in generazione come di un sapere tutto femminile che si perde nel torno dei secoli, e delle parentele

Autrice: Rosanna Pruccoli

La difficile nascita della comunità evangelica in riva al Passirio

La nascita di una chiesa e di una comunità evangelica fu notevolmente osteggiata dalla popolazione cittadina. I numerosi turisti e ospiti di cura di religione protestante desideravano invece poter celebrare anche a Merano le proprie cerimonie religiose. Fu il re prussiano Federico Guglielmo IV che, giunto in città nel 1857 per un periodo di cure, fece celebrare la prima funzione evangelica dal suo cappellano di corte, nel giardino d’inverno di Castel Rottenstein a Maia Alta, dove soggiornava con il suo seguito.

In quell’occasione il re acconsentì a che tutti i correligionari presenti in città e nei dintorni partecipassero al rito. Da questo evento in poi, ogni volta che in città giungeva un pastore i turisti evangelici si radunavano presso le abitazioni private per celebrare una funzione. Nel frattempo, con grave disappunto del clero e del partito conservatore, l’8 aprile 1861 il governo viennese emanò la Patente dei protestanti che sanciva l’equiparazione della Chiesa evangelica.

Nel 1861 il tenente prussiano von Tschirsky, in vacanza a Merano, acquistò e donò alla piccola comunità evangelica residente a Merano, una casa ubicata in vicolo Haller, nell’antico quartiere di Steinach.  Ne fu realizzata una cappella, che nei giorni feriali fungeva anche da scuola per i bambini di fede evangelica e un piccolo appartamento per il pastore. Le forze politiche cittadine di maggioranza si erano opposte strenuamente alla trasformazione di quell’edificio in struttura comunitaria evangelica, ma grazie al sindaco Putz e del partito liberale la Comunità evangelica poté avere anche il proprio cimitero posto dietro la chiesa di Santo Spirito, vicino a quello cattolico e, a partire dal 1872, vicino a quello ebraico. A partire dagli anni Settanta si ebbe un pastore residente. Trasferitosi in città con la moglie, il pastore Karl Richter si curò della Comunità per ben ventiquattro anni, fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1866, intanto, il partito conservatore era riuscito a far accettare all’imperatore l’emanazione di una legge regionale con la quale si stabiliva fra l’altro che per la fondazione di una Comunità evangelica nel territorio tirolese fosse necessaria l’approvazione della Dieta regionale. Il pastore Richter non si arrese e presentò una petizione e l’anno seguente chiese udienza all’imperatore che in quel periodo soggiornava proprio a Merano. Finalmente nel 1875 giunse da Vienna la decisione che la legge regionale tirolese non poteva impedire la formazione di una Comunità evangelica. Il decreto del ministro del culto che confermava la fondazione delle Comunità evangelica sia a Merano che a Innsbruck mandò in frantumi la pretesa unità confessionale. Tale conferma al palazzo regionale di Innsbruck venne accolta con una vera e propria sollevazione: la maggioranza dei membri, i rappresentanti cioè del clero e del partito conservatore, lasciarono la seduta in segno di protesta. La reazione imperiale fu di sciogliere immediatamente la Dieta tirolese che fu riaperta solo l’anno seguente e in seguito a nuove elezioni. Così, ben quindici anni dopo la sua emanazione, la Patente trovò applicazione anche in Tirolo.

Autrice: Rosanna Pruccoli

Ravioli di barbabietola e caprino fresco

Ingredienti

Per 4 persone

Per la pasta
2 – 3 barbabietole rosse
400 g farina di frumento
3 uova
Olio oliva extravergine q.b.
Sale q.b.

Per il ripieno
200 g di caprino fresco
4 C di miele
40 g di noci tritate
1 uovo

Preparazione

Sbucciate le barbabietole rosse e grattugiatele. Mettetele in un setaccio a maglie strette, spremetele per bene con le mani e fate cadere il succo in un recipiente.
Riponete le barbabietole spremute in un sacchetto e surgelatele in modo da poterle usare per un’altra pietanza.
Impastate il succo di barbabietole con la farina, le uova e l’olio d’oliva. Appena avete ricavato un impasto liscio avvolgetelo in un foglio di pellicola trasparente e mettetelo a riposare per 2 ore in frigorifero.
Per il ripieno dei ravioli prendete il caprino e schiaccia-telo con una forchetta, poi mescolatelo con il miele e le noci.
Lavorate la pasta con la macchina per la pasta; deve risultare molto sottile, ma non deve rompersi. Ora adagiatela sul piano di lavoro infarinato e spolverate di farina. Ritagliate dei quadrati con i bordi di 6 cm circa di lunghezza.
Distribuite il ripieno con un cucchiaino nel centro di ogni quadrato.
Spennellate i bordi dei quadrati con l’uovo sbattuto.
Ripiegate a triangolo e chiudete per bene premendo con le dita.
Fate cuocere i ravioli per 1 – 2 minuti in abbondante acqua e sale.
Nel frattempo riscaldate l’olio in una padella capiente, aggiungete 1 cucchiaio di aghi di rosmarino e fate cuocere per qualche secondo.
Sgocciolate i ravioli e fateli saltare per 1 – 2 minuti nell’olio aromatizzato al rosmarino dove avete fatto sciogliere un po’ di caprino fresco.
Insaporite con sale e pepe e servite subito i vostri succulenti ravioli. Decorate in fine con dei fiori commestibili a vostro piacimento.

Alcuni fiori edili

Achillea, aglio selvatico, arancio, aneto, angelica, borragine, calendula, camomilla, caprifoglio, centaurea, crisantemo, cerfolio, dente di leone, dalia, fiordaliso, garofano, gelsomino, geranio, girasole, gladiolo, iris, ibisco, lavanda, lillà, magnolia, malva, margherita, menta, mirto, nasturzio, papavero, passiflora, pesco, primula, robinia, rosa, salvia, sambuco, senape, tiglio, trifoglio, tulipano, viola del pensiero, verbena odorosa, zucca, zucchina.

L’assonanza fra “polenta” e “Caldaro”

La storia, si sa, spesso si nasconde nelle parole. Una di queste è “Plent”, con la quale a Caldaro (e poi nel dialetto sudtirolese in generale) si definisce la polenta di mais, pietanza tipica del Veneto, della Lombardia e del Trentino. “Plentnkessl” è invece il paiolo di rame in cui la vivanda viene cucinata e che compare nello stemma comunale di Caldaro. Non è dunque un caso se gli abitanti di questo comune venivano sopranominati “Plentnfresser”, mangiatori di polenta.

In effetti, la polenta, reminiscenza culinaria e lessicale per certi versi paragonabile alla famosa madeleine proustiana,  era la padrona incontrastata della tavola caldarese fino alla metà del secolo scorso e veniva consumata al posto del pane a colazione, pranzo e cena. 

Poi dai campi attorno al lago scomparvero le piantagioni di granturco (Tirggn) e la tradizionale polenta cotta sotto le vigne cedette il posto ad altri alimenti. 

Plent, vivanda e termine, furono “importati” dal vicino Trentino, in particolare dalla Val di Non. Come pure quel “Tschink”, storpiatura di  sindaco, appellativo del capo del “Rigl”, ossia della regola. 

Del resto, i strettissimi legami tra Caldaro e la Val di Non, tipici di ogni confine linguistico, risalgono alla notte dei tempi e tradizionalmente molti contadini nonesi possedevano vigneti tra Caldaro e Termeno. Secondo alcuni storici è probabile che fino al XIV secolo Caldaro fosse un comune quasi completamente abitato da popolazione di lingua romanza originaria, per l’appunto, dei paesi oltre il passo della Mendola. Oggi  la presenza italiana si limita ad un 7% dei cittadini. 

Nella famosa lettera di S. Vigilio, risalente a un periodo tra il IX e il XII secolo, si narrano le vicende della nascita della parrocchia di Caldaro, che sarebbe stata fondata dallo stesso vescovo trentino vissuto nel IV secolo. 

Nei boschi di Castelvecchio ancora oggi troviamo i ruderi della basilico di San Pietro, raro esempio di edificio religioso risalente agli albori del cristianesimo in Tirolo. Nel documento e in molti altri atti notarili successivi la località compare sempre con il nome di Caldare. 

A partire dal XIV secolo, inizio della lenta tedeschizzazione di Caldaro, il nome viene latinizzato in Caldarium, con possibile riferimento al paiolo che ancora oggi compare nello stemma comunale. Da quel periodo in poi iniziò la lenta trasformazione del nome. Da Chaldar e Chaltar si passò a Chalter,  finché in un atto notarile redatto a Merano troviamo un significativo “vinea iuxta Calderem, quod in vulgo dicitur Chalter”. La -n finale di Kaltern può invece essere interpretata come la desinenza al dativo di Chalter, ossia “a Caldaro” o “di Caldaro”. 

Non è escluso che Caldaro, come sostiene il linguista originario della Val di Non Carlo Battisti, nel periodo longobardo facesse parte della gastaldia di Romeno. Certo è che Caldaro e Termeno erano occupate dagli arimanni del ducato di Trento, tanto che le leggi longobarde rimasero in vigore anche molti secoli dopo la scomparsa dei Longobardi stessi. 

Tra i proprietari terrieri di Caldaro, a partire dall’epoca in cui questi vennero registrati, troviamo molti nomi di origine romanza accanto ad altri provenienti prevalentemente dalla Baviera. Singolare anche il fatto che molti nomi siano orgogliosamente accompagnati dall’indicazione della località di provenienza della persona, per cui abbiamo proprietari originari “de Cavareno, de Romeno, de Malusco, de Sarnonico, de Roncuno, de Segio, de Castro Fundo, de Melango (Castelfondo). La stessa parrocchia di Romeno possedeva molti terreni nel territorio di Caldaro. Nel XIII secolo Caldaro venne occupata da Mainardo II che la sottrasse al Vescovo di Trento Enrico. Mainardo mise a capo del comune i conti di Rottenburg, originari di Jenbach in Tirolo. Nel 1308 il territorio fu restituito al vescovo ma i Rottenburg rimasero al loro posto. 

Autore: Reinhard Chrstanell

La via dedicata a Oswald von Wolkenstein

A collegare via Isarco e via Cappuccini vi è via Wolkenstein; è il nome  di una famiglia nobiliare sudtirolese, il più noto esponente della quale fu Oswald. Nato verso il 1377 in Val Pusteria, a otto anni si trovava alla Trostburg (Castelforte), un maniero all’imbocco della val Gardena; fu in quel tempo che perse l’uso dell’occhio destro, trafitto da una freccia, pare in occasione di una festa di carnevale. Perché fosse educato e formato da cavaliere, fu affidato ad un nobile, con il quale Oswald crebbe viaggiando, dal 1387, prima nell’Europa del Nord, poi nei paesi orientali, luoghi che menzionò nel “Canzoniere”, narrando la sua decennale esperienza, nella quale fece diversi mestieri (lavapiatti, mozzo di stalla, staffiere, galeotto, ecc); imparò ben dieci lingue e a suonare vari strumenti (piffero, cembalo, strumenti a corda, tamburo). Ritornato nel 1400 dal lungo viaggio, si ritirò a Castelvecchio (Hahuenstein), presso l’Alpe di Siusi. Dall’autunno 1402 all’inizio del 1404 fu pellegrino per la Terra Santa, con un viaggio avventuroso da Venezia a Gerusalemme. Il viaggio in Oriente fu occasione di rinsaldare l’amicizia con Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), re d’Ungheria, che accompagnò al Concilio di Costanza (1414-1418) e, al suo servizio dal 16 febbraio 1415, in varie spedizioni. Nell’autunno 1417 sposò Margarethe von Schwaugau; ebbero sette figli.  Circa il “ Canzoniere”, risale agli anni tra il 1423 e il 1425 il primo manoscritto, il “Manoscritto A” su pergamena di oltre cento canzoni; risale al 1431 il “Manoscritto B”. Oswald fu al seguito di Sigismondo,  nel viaggio fino a Roma, per l’ incoronazione a  imperatore nel maggio 1433. Dal 1435 al 1445  non si mosse dal Tirolo; nel 1445 partecipò alla Dieta di Merano; fu in giugno che le sue condizioni di salute peggiorarono. Poeta, cantore, guerriero, diplomatico, morì il 2 agosto 1445. La sua salma fu trasferita “magno labore et in calore vectus” (a fatica e con un caldo torrido) da Merano al monastero agostiniano di Novacella.

Autore: Leone Sticcotti