Ricordando la figura di Hans Vintler II

Caso non comune nell’odonomastica di Bolzano è la doppia intitolazione: alla famiglia Vintler è dedicata una via (tra piazzetta Madonna e piazzetta Maria Delago) e una Galleria (tra via Streiter  e via Vintler). Pare che i Vintler provenissero da Vintl (Vandoies); abitarono a Bolzano dal 1200 circa nella via appartenente ai nobili Vanga. Tra i Vintler da menzionare vi è Konrad I, deceduto nel 1356, dal quale iniziò l’albero genealogico. Suo figlio Niklas fu intorno al 1400 una delle figure principali della storia del Tirolo; ne divenne governatore nel 1392. Niklas, come i Vintler in generale, si dedicò al commercio, al prestito, all’amministrazione, al servizio dei duchi del Tirolo. Nel 1388 Niklas Vintler, al quale nel 1393 fu concesso una stemma nobiliare da Alberto III d’Asburgo (duca d’Austria dal 1365 al 1395), lasciò la casa di via Vanga; acquistato Castel Roncolo con il fratello Franz, oltre a ricostruire il castello semi diroccato, lo fece ornare di affreschi, raffiguranti la vita cortigiana del tempo e il mondo cavalleresco. Castel Roncolo, il  “maniero illustrato”, svolse anche un ruolo di centro culturale, nel quale si formò Hans Vintler II. Figlio di Hans I, fratello di Niklas, Hans Vintler II  è l’autore di “Pluemen der Tugent”, la versione tedesca, del 1411, dei “Fiori di virtù”, opera scritta intorno al 1320 e attribuita al bolognese Tommaso Gozzadini (1260-1330); l’opera, con titolo latino “Flores Virtutem”, fu stampata nel 1486. Hans Vintler II partecipò al Concilio di Costanza (1414-1418) al seguito del duca Federico IV d’Austria, con il vescovo di Bressanone Ulrich I Reichholf , con il poeta Oswald von Wolkenstein. Nel 1416 fu al servizio, come governatore e tesoriere,  di Federico IV d’Austria, detto “il Tascavuota”, duca d’Austria e conte del Tirolo. Nel 1417  fu inviato  a Venezia per concludere un’alleanza col doge Tommaso Mocenigo. Hans Vintler II morì nel 1419.

Autore: Leone Sticcotti

Pensieri di viaggio 1

Parto da Bolzano con mia madre per raggiungere la Liguria. L’A22 è sempre un terno al lotto, tra incidenti e traffico pesante, dunque per non restare imbottigliati usciamo a Egna e, seguendo pedissequamente la destra Adige, raggiungiamo Affi; è una guida più lenta, ma più rilassante agli occhi. I meleti e i vigneti sono il paesaggio dominante, con le rose a fare da sentinelle all’inizio dei filari e indicare ai contadini quando trattarli a seconda dei patogeni. Il grande Fiume è gonfissimo. Vegetazione, prati, pendici boschive esultano di un verde tonico. Rientriamo sull’A4 a Peschiera e raggiungiamo Novara per una visita a zia Linda; notiamo subito le risaie completamente allagate dalle piogge, campi di granturco e alcuni aironi nei dintorni. Anche qui il verde del paesaggio è scintillante. Dopo i convenevoli ripartiamo verso Vercelli est e imbocchiamo l’A26 fino a Genova Voltri e poi l’A10, direzione XXmiglia. Giungiamo a destinazione poco dopo le otto di sera e ci rifocilliamo grazie ai manicaretti di zia Pia. L’aria è umida, una brezza frizzante accarezza le chiome argentate degli olivi, la flora è lussureggiante, come raramente accade nella seconda decade di giugno in queste lande, soffocate dalla siccità. Stellanello, comune di poco più di 800 anime abbarbicate nella parte superiore della Val Merula, torrente o fiumana a seconda delle piogge, in piccole frazioni, sparse qua e là, ognuna con la sua chiesa, in provincia di Savona. Nei miti dei tempi antichi l’axis mundi, il pilastro del mondo, è rappresentato da un albero che unisce i tre piani della creazione, il cielo, la terra e gli inferi, e sorregge la volta celeste. Sotto la sua chioma sempreverde si incontrano le divinità per decidere le sorti del mondo. Per gli antichi popoli germanici, quell’albero era il frassino. Nella cultura islamica, invece, l’asse del mondo era costituita dall’olivo come portatore di luce e saggezza. Entrambi gli alberi, il nordico frassino e l’olivo delle terre del sud, fanno parte della famiglia delle Oleacee, a cui appartengono anche il ligustro, la forsizia, la fillirea, il lillà e il gelsomino. Un connubio non troppo azzardato dopotutto tra il germanofono Südtirol dove sono nato e la Liguria, terra natia dei miei genitori (e lo stemma municipale). Cala l’oscurità e finalmente ci prepariamo per dormire. Di notte le voci di un paesino sono le imboscate e i sibili dei gatti, l’abbaiare in risposta dei cani ognuno col suo timbro specifico, il gracidio delle rane, il frinire ritardatario delle cicale, il tintinnio delle tante campane e qualche, ormai sempre più raro, bagliore intermittente delle lucciole. 

Autore: Donatello Vallotta

Quando passeggiare per la città era regolato da norme severe

A Merano presto si sottopose il passeggio a regole ben precise stilate in una Promenade Ordnung, e si pose un guardiano a controllo e a tutela. In primis l’ordinamento imponeva l’abito da passeggio e “vietava” alle signore di indossare abiti con lo strascico o comunque lunghi fino a terra. Indicava anche la misura dell’orlo ammessa e cioè appena sopra il tacco, per evitare di sollevare nocive nuvole di polvere.

Nel XVIII secolo lo sviluppo e la larga diffusione delle cure con le acque oligominerali avevano soppiantato i bagni, di lontana origine medievale. A questo nuovo sistema terapeutico andavano poi connesse salutari passeggiate all’aria aperta, la ginnastica e il moto. 

All’inizio del XIX secolo le numerose ricerche mediche sull’efficacia delle cure termali, dei soggiorni in luoghi dall’aria salubre o dal clima secco, avevano fatto sì che si moltiplicassero i luoghi di cura, le città termali, e le stazioni climatiche. Sulla base delle nuove esigenze terapeutiche sorsero anche nuove strutture architettoniche e si svilupparono interi centri urbani. 

La gamma delle malattie e dei disturbi che inducevano l’aristocrazia a riversarsi nelle diverse città di cura era assai ampia. Il folto popolo dei turisti di cura era composto dalle prime vittime del logorio della vita moderna, i convalescenti, i sedentari come gli studiosi o gli impiegati, i malati di petto al primo o al secondo stadio della malattia, i sofferenti di mal sottile, coloro che accusavano disturbi all’apparato digerente, chi accusava disfunzioni del ricambio,i malati di idropisia, gli stitici, gli obesi, i rachitici e molti altri ancora. Le città di cura per essere tali necessitavano però di una serie di strutture anche effimere per le cure , lo svago e la ricreazione turistica. 

Comparvero così le “Wandelhallen”, colonnati cioè, sotto i quali passeggiare, all’aperto ma al riparo dalle intemperie o dai violenti raggi del sole; i padiglioni dove far zampillare l’acqua minerale, le cosiddette “Brunnenhäuser”, per consentire ad ognuno di servirsi, chiamate anche “Trinkhalle”, come nel caso di Baden Baden. 

Si moltiplicavano gli spazi di incontro si moltiplicavano per rendere sempre più piacevole il soggiorno e la cura, quindi nacquero i viali alberati, i giardini e soprattutto i parchi anzi, il “Kurpark”. In queste città, piccole o grandi, ma sicuramente alla moda, aristocratici e classi emergenti si davano appuntamento per un periodo, oltre che di cura, di svago e divertimento. Così ogni luogo si doveva munire anche di questo genere di strutture. 

Si aprirono case da gioco, sale da ballo, padiglioni per concerti e teatri. Alle iniziali architetture effimere si sostituirono costruzioni polifunzionali stabili, ossia eleganti edifici dove far convivere sia la zona per le terapie che quella per i divertimenti:  sorgeva cioè il Kurhaus. 

Passeggiate, parchi e giardini comparivano come costanti nelle località di cura d’Europa.  Parchi, giardini, e soprattutto lunghe passeggiate diventavano strutture indispensabili per attirare un folto numero di villeggianti. A Merano dunque tutto ciò andava  strutturato per goderne appieno e per farne un punto di forza della città. Sull’esempio della lunga Esplanade lungo il fiume Traun di Bad Ischl e dei percorsi di Baden Baden, Karlstadt e altre, anche a Merano lungo il torrente Passirio si costruirono le Promenade. Si trattava di un’opera che sarebbe durata nel tempo con continui prolungamenti, nuovi percorsi da intrecciare ai precedenti e che dal lungo Passirio sarebbero avanzati sempre più, inerpicandosi dolcemente sulla collina del Küchelberg per costeggiare in posizione panoramica un lato del perimetro cittadino. I lavori per il primo nucleo di passeggiate, erano iniziati a seguito della riedificazione di possenti muraglioni ad argine del torrente subito dopo lo straripamento del Passirio del 1817. Sui cosiddetti “Wassermauer”, era stato tracciato un cammino. 

I lavori per l’ampliamento delle Promenade lungo il Passirio, iniziarono nel 1860. Il comune era proprietario del terreno ma lo aveva concesso in usufrutto all’Azienda di cura e soggiorno che avrebbe provveduto alle piante alle panchine e a qualunque altra forma di abbellimento. A tale scopo in seno all’Azienda fu istituita una apposita commissione che in seguito divenne la Gärtnerei, cioè la giardineria provvista di serre e giardinieri esperti.

I parchi, dove spesso si tenevano i concerti, divennero il luoghi abituali d’incontro di nobili e avventurieri. A Merano il passeggio fra parchi e giardini e soprattutto sulle Passeggiate fu presto sottoposto a regole ben precise stilate in una Promenade-Ordnung mentre un guardiano doveva controllarne il rispetto. In primis l’ordinamento chiedeva ai cittadini meranesi di lasciare il posto a sedere agli ospiti di cura e ai turisti nelle giornate di maggior affluenza. 

Alle signore invece vietava senza mezzi termini di indossare abiti privi di strascico e comunque non lunghi fino a terra per evitare di sollevare nuvole di polvere. Ai bambini era interdetto il correre. Ai signori era vietato fumare durante i concerti. Il passaggio era vietato a persone a cavallo, ma consentito alle carrozzine degli ospiti ancora deboli e convalescenti. 

Vietato era comprensibilmente strappare fiori e piante. I percorsi per le passeggiate non erano mai abbastanza e il sindaco Putz cercava di ampliare sempre più questo patrimonio cittadino. 

Autrice: Rosanna Pruccoli

Glaciazione

Una paio di settimane fa la Fondazione Nordest ha reso noto uno studio in grado di fotografare e analizzare gioie e dolori della nostra provincia dal punto di vista economico e sociale, con un’attenzione specifica rivolta al mercato del lavoro. Com’è noto l’Alto Adige è sempre in testa alle classifiche per quanto riguarda il tasso di natalità, la qualità della vita, i servizi, la possibilità di ottenere sovvenzioni da parte degli enti pubblici e anche – appunto – le opportunità di lavoro. Ma questo non è sufficiente per mettere il nostro territorio al riparo da un fenomeno che proprio negli ultimi 2/3 anni ha iniziato a manifestarsi in maniera molto importante, ovvero la difficoltà di ingaggiare nuova forza lavoro sia per il settore pubblico che per quello privato. Il tasso di natalità superiore rispetto alla media nazionale non è sufficiente, purtroppo, a mettere al riparo la nostra provincia, troppo abituata a pensarsi autonoma (avulsa) rispetto ai territori limitrofi, rispetto alla cosiddetta “glaciazione demografica”. 

Sì, avete letto bene. Non inverno ma vera e propria glaciazione. I giovani, in provincia di Bolzano, sono comunque pochi e molti di questi pochi se ne vanno per non tornare. Per trattenerli occorrerebbe attuare delle specifiche politiche, lo sappiamo tutti, che riguardino retribuzioni, alloggi, dinamicità del mercato del lavoro, ecc. Poi occorrerebbe avere politiche per attrarre forza lavoro da fuori, ovvero dal resto del paese o dall’estero. Ebbene: la Fondazione Nordest anche su questo ha fornito dei dati interessanti, segnalando che la provincia di Bolzano a questo proposito nel nord Italia si trova al penultimo posto, a fare peggio di noi c’è solo la Valle d’Aosta, mentre i cugini trentini si trovano a metà classifica. 

L’Alto Adige rischia di trovarsi presto un’economia esclusivamente basata su un turismo in evoluzione senza freni, con tutti gli aspetti negativi che tutto ciò comporta, compresa anche qui la difficoltà di ingaggiare nuovi lavoratori. è questo quello che vogliamo? E non è solo una questione economica e di sviluppo. L’attrattività di un territorio rispetto ai giovani (e non solo ai “suoi”) dovrebbe essere una priorità assoluta, in un’ottica di costruzione di futuro. Di queste analisi e riflessioni però ne vediamo in giro davvero solo poche tracce. Un’inversione di rotta è assolutamente necessaria e cercheremo di dare anche noi, nel nostro piccolo, il nostro contributo.

Autore: Luca Sticcotti

Genocidio e antisemitismo. Onestà nelle parole e nei fatti

Sentiamo tutti i giorni termini come genocidio e antisemitismo. Raramente sono usati a ragion veduta. Più spesso sono parole pronunciate senza aver riflettuto sul loro significato e senza conoscere la storia. A volte se ne fa uso manipolatorio, magari proprio per nascondere le proprie tendenze antisemite o genocide.

Il problema nasce già dalle definizioni perché, quando si vuole confondere le acque, il fumo è sempre più utile dell’aria tersa. Non avere definizioni condivise conduce a considerare sinonimi termini come ebreo, sionista, israeliano (l’utilizzo dell’espressione “Stato ebraico” per Israele certamente non aiuta). O di considerare una guerra un atto di genocidio in sé in quanto essa si ripercuote contro “un popolo” o “un gruppo”. Dal momento poi che il concetto di genocidio entrò nel linguaggio del diritto internazionale soprattutto dopo la Shoa, è invalso l’uso perverso di associare “gli ebrei” (non solo il governo israeliano, ma “gli ebrei” tout court) a una certa idea di genocidio, così come avvenuto recentemente con la profanazione delle pietre d’inciampo.

Secondo la definizione operativa dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), non da tutti condivisa, ma adottata da diversi governi, “l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto”.

In base alla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” del 1948, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo [in quanto membri di quel gruppo]; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Premesso che ogni Stato e ogni “gruppo” hanno il diritto di difendersi, se attaccati, e che ognuno ha il diritto di esprimere le sue critiche rispetto ai modi con cui uno Stato o un “gruppo” si difendono, denunciando eventuali abusi, antisemitismo e genocidi sono crimini contro l’umanità. È dovere della comunità internazionale e delle sue istituzioni verificare seriamente se e dove ci siano manifestazioni degli stessi. Se ci sono, si deve intervenire, non solo fare proclami. Se non ci sono, si chiamino le cose col loro nome, perché la pace e la riconciliazione sono figlie della verità (e dell’onestà intellettuale).

Autore: Paolo Bill Valente

Lucia Frisch, la prima bolzanina citata

Nella zona industriale di Bolzano, ad un certo punto della lunga via Bruno Buozzi, dopo piazza Fiera, vi è,  parallela alla via Buozzi, una via minore, la via Lucia Frischin.  Chi era?

Si tratta della prima donna bolzanina che appare tra i nomi quasi esclusivamente maschili nel Bozner Bürgerbuch (Liber civium – libro dei cittadini di Bolzano); Lucia Frisch(in), vedova di un certo Frisch, è  registrata in tale registro nel 1590; fu investita del diritto di Inwohner, cioè residente; era il primo passo, previo il pagamento di una tassa di 25 fiorini, per ottenere la cittadinanza.

Il Bozner Bürgerbuch è un registro della prima età moderna che racchiude i nomi (5160 nominativi) dei cittadini (cives – Bürger) e degli abitanti (Inwohner) ufficialmente ammessi nella città di Bolzano. 

Il registro fu istituito nel 1551 e si conclude nel 1760. 

Il manoscritto, composto da 340 pagine, dimensioni 32:21 cm, è conservato presso l’Archivio storico della Città di Bolzano con la segnatura Hs. 2713.

Autore: Leone Sticcotti

Destinazione AOAR, il viaggiointergalattico di Mirko Giocondo

Lo avevamo annunciato qualche settimana fa, occupandoci di Lila, il video singolo postato da Mirko Giocondo su youtube per lanciare il suo imminente disco, ed oggi ci ritroviamo, dopo aver ascoltato questo autentico viaggio sonoro interstellare, a parlarne con lui.

Il nome di Mirko Giocondo non è certo nuovo per il pubblico bolzanino che lo conosce per il suo lavoro passato con Ferbegy? e Myztic Lion & The Juggernaut Nation, e per quello più recente nella Homeless Band e nella Spritz Band di Andrea Maffei: un curriculum che non lascia dubbi sulla capacità di Mirko di passare da un genere all’altro trovandosi sempre a proprio agio, sia suonando un basso elettrico, sia un contrabbasso, in jeans e camicia o in abito da orchestrale.

A tutto questo si aggiunge un’estrema vena creativa che sta alle spalle di tutta la sua produzione solista precedente e di questo progetto intitolato Aoar.

“Aoar – ci spiega subito Mirko – è un disco che innanzitutto non appartiene ad un genere. Molti cercano di dare una definizione ai loro lavori, e più la definizione è circoscritta, più possono contare su una nicchia di ascoltatori che in quella definizione si riconosce. Non è il mio caso, io ho sempre pensato che quando creo qualcosa lo faccio per trasportare chi ascolta verso un’emozione, qualsiasi essa sia, ma che sia emozione”.

Nel disco di Giocondo, la musica è realmente emozionante, concepita come un viaggio musicale attraverso una galassia immaginaria da cui il disco prende il titolo e che è anche il titolo del brano finale, quello che segna la destinazione del viaggio. Tutto è realizzato a tavolino anche se molto orchestrato, grazie all’uso di macchinari con cui vengono replicati orchestre e strumenti solisti (con l’esclusione della chitarra elettrica del bravissimo David Altieri, protagonista del brano Sunset Overdrive). Il risultato sembra una breve sinfonia, con tutti i suoi bravi movimenti, con momenti pulsanti che non possono non ricordare il tema principale di I pirati dei Caraibi ed altri più bucolici o addirittura etnici.

“Mi fa molto piacere che tu abbia citato quella colonna sonora – prosegue Giocondo, l’autore, Hans Zimmer, è un compositore tedesco che ammiro molto e che non esito a definire uno dei miei mentori. Il disco è una sorta di concept, una sera ero sdraiato per terra all’osservatorio di San Valentino, e mi sono reso conto di quanto il mondo che c’è attorno e sopra di noi ci renda piccoli e insulsi. Da allora ogni volta che guardavo il cielo, che vedevo le stelle, mi sono detto che prima o poi avrei messo in musica tutto questo. Il brano iniziale, Under The Yellow Points, si riferisce proprio a questo, i punti gialli sopra di me sono le stelle da cui tutto è cominciato e che ha portato la mia fantasia su questa galassia che ho battezzato Aoar e che sta al termine di tutto. Il succo è che se tu stai immaginando qualcosa, solo per il fatto che lo immagini, questo qualcosa esista, e per me è stato così con la galassia Aoar.”

La composizione dei brani è poi venuta rapidamente, come se Mirko fosse stato preso da una sorta di febbre del viaggio intergalattico e musicale al tempo stesso, dove la musica è il mezzo di trasporto attraverso le galassie. 

“Anni fa ho comprato il mio primo sintetizzatore e ho cominciato ad esplorare questo mondo dalle possibilità sonore infinite. Per anni ho composto musica al pianoforte riempiendo spartiti e andando nei vari studi cercando di realizzare i miei progetti: ad esempio, per ottenere l’effetto di un’orchestra che non sarei mai riuscito ad avere a disposizione ho portato in studio cinque violinisti e ho fatto registrare tre volte la stessa partitura, costruendo poi l’orchestra nel mio studio di casa. E lo stesso ho fatto con i fiati, le percussioni e gli altri archi. Stavolta ho usato invece parecchi sintetizzatori, cercando di ottenere lo stesso effetto. Mi sono concentrato maggiormente sulla scrittura. Oltre a David Altieri, nell’ultimo brano ho coinvolto un produttore emergente, Simone Olivetti, che mi ha aiutato nel mettere insieme il mio studio, e che ha arrangiato e messo una parte vocale sulla composizione finale, quella che intitola il disco, presente quindi in due differenti versioni, una strumentale ed una cantata”.

Autore: Paolo Crazy Carnevale

Il concorso “la sposa d’Italia”: Tebe e Massimina protagoniste a Merano

Il concorso “la sposa d’Italia” vedeva giungere a Merano le diciotto finaliste che a Merano sarebbero selezionate per la vittoria, ma di loro solo una avrebbe vinto il concorso. Chi erano le donne che venivano segnalate per partecipare con le loro storie di vita al concorso? Nel 1958, ad esempio, si presentarono a Merano le diciotto vincitrici delle selezioni regionali e da subito i giornali fissarono la propria attenzione su due di quelle donne, narrandone ai lettori le loro due storie.

La prima protagonista si chiamava Massimina Lavarini in Borghetti e viveva a Borghetto all’Adige, a sud di Trento: “Spinge i traghetti lungo il fiume sostituendo nella fatica il marito, minato da una malattia contratta in guerra quando aveva combattuto in Africa”. 

Come troppo spesso accadde ai soldati che combatterono per l’Italia, non potendo contare su una documentazione adeguata perché dispersa, non poté mai usufruire di una pensione o di un indennizzo. 

Dopo aver cercato a lungo un lavoro, trovò un impiego totalmente inadatto alle sue condizioni fisiche: il traghettatore. Per anni spinse la pesante chiatta carica di passeggeri, carri e trattori ma un giorno la broncopolmonite lo costrinse per molti mesi a letto. 

Lo stipendio era però indispensabile per tirare avanti e Massimina decise di sostituire il marito, finendo però con l’ammalarsi anche lei. Guarito dalla polmonite, il marito riprese a lavorare sulla chiatta ma di lì a poco ebbe un infarto e nuovamente Massimina lo sostituì, ma vedendo che la donna piccola e gracile non ce la faceva, il Comune la esonerò: era la fame.

Ancora una volta Massimina seppe però trovare la forza di andare avanti, di guardare al futuro per se stessa, per il marito e per i figli: passò a fare le pulizie in un albergo e mantenne così la famiglia. 

La seconda protagonista si chiamava invece Tebe Dazzi in Ciardi e viveva a Camogli, nel Levante ligure. 

La sua odissea era legata a quella del marito alpino che, reduce dalla disastrosa guerra sul fronte italo-francese, era rientrato in Liguria con i piedi congelati. Richiamato nel 1942, fu mandato a Zara. Dopo l’8 settembre del ’43 si trovò fra due fuochi: i soldati nazisti da un lato, i partigiani di Tito dall’altro. 

Tebe, preoccupata per le sorti del giovane, decise di andarlo a cercare a Zara e, rischiando ogni momento la propria vita, lo trovò nascosto. Tebe camminò col marito sulle spalle per chilometri nei boschi onde evitare tanto i posti di blocco nazisti quanto i partigiani titini. Il marito la pregava di abbandonarlo e di mettersi in salvo ma Tebe proseguiva la sua strada col pesante fardello sulla schiena. 

Al rientro in Liguria all’uomo vennero amputate entrambe le gambe. 

“Tebe continua a prendere amorevolmente in braccio il marito per portarlo dal letto alla poltrona, dove scrive a macchina per guadagnarsi da vivere”.

Nel giorno clou v’era molta attesa per scoprire quali delle tante storie era stata scelta per il primo premio dalla severa giuria, insediata all’Hotel Bristol; alle 11, infatti, sarebbe stata proclamata la vincitrice ed in serata avrebbe avuto luogo un gran galà in onore delle premiate. 

Il quotidiano Alto Adige scriveva per i suoi lettori come, la sera prima, si fossero svolte le presentazioni delle singole storie e delle loro protagoniste: “Timide, impacciate, con un sorriso appena accennato, le partecipanti di questo concorso sono state presentate ieri sera sotto i fasci dei riflettori della Tv, dei cinegiornali, e i flash accecanti dei fotografi, alla giuria nazionale ed alla stampa. Le loro vicende sono lo specchio di migliaia e migliaia di casi nell’Italia del dopoguerra”.

Al gran galà presero parte coppie celebri, come ad esempio Federico Fellini e la Masina, per porgere alle spose un saluto augurale. Il giornale del 20 ottobre titolava: Eletta Tebe Ciardi che portò a spalle il marito da Zara a Fiume. Il secondo premio andò invece a Massimina di Borghetto.

Così Merano assistette a questo piccolo miracolo della ditta Necchi, che fu in grado coi suoi premi di ridare speranza a qualche famiglia che non aveva avuto né facilitazioni né sconti nello strano computo tenuto dal destino.

Autrice: Rosanna Pruccoli

L’immigrazione trentina nell’Unterland

Unterland, territorio di confine tra due grandi aree linguistico-culturali, è da molto tempo sinonimo di “mescolanza” etnica o Mischkultur che dir si voglia.  Se fino al XV secolo nella Bassa Atesina romanica e nella attigua zona di Mezzocorona e Lavis furono poste le basi per l’espansione dei coloni germanofoni, a partire dal XVI e XVII secolo la situazione si evolse in tutt’altra direzione. Dapprima prese il sopravvento la presenza di famiglie italiane nella fetta di Welschtirol a sud di Salorno, poi aumentò significativamente l’insediamento di persone originarie dalle valli trentine (asburgiche) anche in Bassa Atesina e Oltradige. 

Ovviamente nei due territori la situazione presentò aspetti differenti che permangono fino ai giorni nostri. Le vecchie sedi giudiziarie di Appiano, Caldaro, Termeno e Cortaccia subirono l’aumento repentino della presenza italiana soprattutto grazie all’arrivo dei braccianti richiesti dal settore agricolo. Essi provenivano  in gran parte dalla vicina Val di Non, all’epoca ricca di bocche da sfamare ma povera di risorse. Il fenomeno che si potrebbe definire la “discesa dei Nonesi” era noto in misura ridotta già qualche secolo prima, quando i contadini della Bassa accolsero a braccia aperte questa manodopera a basso costo. 

Singolare il fatto che i laboriosi immigrati nel giro di una o due generazioni divennero essi stessi affittuari e liberi contadini, facendo di tutto per essere assimilati dalla comunità di lingua tedesca. Perciò a livello statistico la minoranza italiana nei comuni tra Appiano e Magrè era composta sempre e solo da coloro che erano appena arrivati in quei paesi, mentre tutti gli altri si erano perfettamente integrati nell’ambiente tedesco.

Nel 1835 Staffler parla di “sangue misto” a proposito degli abitanti della sede giudiziaria di Caldaro, come del resto testimoniato dai moltissimi cognomi italiani presenti ancora oggi nella comunità. Il censimento del 1880 e 1910 evidenziò una presenza italiana nei comuni dell’Oltradige che oscillava tra il 4 e l’8 per cento, dovuta soprattutto alla rapida assimilazione della manodopera nonesa impiegata in agricoltura. Tra il 1880 e il 1890 si registrò una vera e propria ondata di arrivi: ad Appiano i nuovi italiani passarono da 16 a 342, a Caldaro  da 57 a 234. 

Diversa la situazione a Vadena, dove Staffler parla di una comunità “totalmente italiana”. Ciò benché in origine Vadena fosse stato un comune prevalentemente tedesco. Dalla fine del XVIII secolo aumentò la presenza dei latifondisti e coloni trentini e, in misura minore, veneti. A quanto pare, fu il curato Pamheri di Baselga a “chiamare” a Vadena molti trentini nel periodo tra il 1817 e il 1839. 

Nei comuni tra Bolzano e Salorno nel 1600 non si registra una grossa presenza di persone di madrelingua italiana. Tuttavia Martin Zeiller scrive nel 1629 che tra Trento e Bolzano “non è raro incontrare persone di lingua italiana”. Anche nei comuni della Bassa la causa della forte immigrazione trentina fu la carenza di manodopera  in agricoltura. I braccianti provenivano in gran parte dalla Val di Fiemme e di Non ma anche da altri comuni trentini. A metà del XVIII secolo molti masi di Egna e Pochi erano già di proprietà dei coloni trentini. Bronzolo attirò a sua volta molti immigrati trentini grazie all’attività di navigazione sull’Adige e alle cave di porfido. A Laives la manodopera italiana fu inizialmente impiegata nelle nuove risaie e nel campo della produzione della seta.

È dunque certo che nei paesi dell’Unterland nel XVII e XVIII secolo esistesse una reale situazione di pacifica convivenza tra italiani e tedeschi, con i primi che tendevano ad essere assimilati rapidamente e i secondi che erano padroni della lingua italiana. Molte famiglie dal cognome italiano si servivano diffusamente della lingua tedesca e i matrimoni misti contribuirono ulteriormente a creare quel mix di popolazione caratteristico dell’Unterland. Poi, agli albori del XX secolo, nacquero i primi movimenti politici impregnati di nazionalismo che tentarono in tutti i modi di avvelenare il clima di reciproco rispetto.

Autore: Reinhard Christanell

Bicchierini pere e mascarpone

Ingredienti per 3 persone:

250 gr Mascarpone
150 gr Panna da montare
80 gr Zucchero a velo
2 Pere Williams
Biscotti secchi

Preparazione

Montate la panna fresca con le fruste elettriche poi copritela e tenetela da parte.
In una ciotola raccogliete lo zucchero a velo e il mascarpone e mescolateli con una frusta.
Incorporate la panna montata al mascarpone mescolando delicatamente e con movimenti dal basso verso l’alto per evitare di smontare il composto.
Sbucciate le pere e tagliatele a cubetti, raccogliendoli man mano in una ciotola con acqua fredda e zucchero per evitare che anneriscano.
Sbriciolate una decina di biscotti.
Ponete la crema in un sac à poche e realizzate il primo strato all’interno dei bicchieri: aggiungete i biscotti sbriciolati e poi le pere a cubetti.
Proseguite a realizzare gli altri strati fino a esaurimento degli ingredienti.
Guarnite la superficie con una polvere sottile di biscotto e lasciate riposare i bicchieri in frigorifero per almeno 15 minuti, quindi portateli in tavola e serviteli ben freddi.

Conservazione

I bicchierini alle pere possono essere conservati per un paio di giorni in frigorifero, coperti in superficie con un foglio di pellicola trasparente.

Consigli

Per rendere il vostro dolce al cucchiaio ancora più goloso, potete arricchire gli strati con gocce di cioccolato, granella di nocciole o mandorle tostate, tritate grossolanamente. Potete anche aromatizzare la crema con un pizzico di vaniglia o di cannella in polvere, oppure con un po’ di scorza di arancia grattugiata.
Se desiderate una versione più light, potete sostituire il mascarpone con la ricotta vaccina o di pecora.